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Che errore per la scuola mettere i voti online

mercoledì 13 gennaio 2016

Sembra una formula magica di minaccia, invece è un progetto di innovazione che coinvolge tutta la scuola italiana. Prevede iscrizioni e certificati online, pagelle elettroniche, registri di classe e personali in formato elettronico. Si chiama “Piano per la dematerializzazione delle procedure amministrative in materia di istruzione, università e ricerca e dei rapporti con le comunità dei docenti, del personale, studenti e famiglie”. Da questo anno scolastico tutto ciò è obbligatorio, però nel modo in cui sono obbligatorie le innovazioni in Italia, ovvero “senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”. Il che vuol dire che abbiamo tutto il tempo di farci sopra una riflessione.

Si può parlar male del registro elettronico? O almeno guardar dentro a qualche suo effetto collaterale?
La domanda non è se funziona o non funziona. Alla fine certo che sì. Dopo aver trovato le risorse per acquistare o affittare i notebook per tutte le aule di tutte le scuole del regno e per pagare i contratti alle aziende incaricate di risolvere i pluriquotidiani problemi tecnici e di garantire assistenza continua, dopo aver formato tutti gli insegnanti, governato
le rivolte per lo stress iniziale da voti scomparsi e da password smarrita, blindato il sistema contro allievi-piccoli-hackerinformatici, alla fine funziona. Poi è un attimo trovare il quadro complessivo dei voti, la media della classe, della scuola, per materia, per provenienza geografica, per sesso, le assenze, le note, i ritardi, ancora per materia e per sesso. Per appartenenza religiosa e situazione sanitaria in teoria no, perché son dati sensibili. Ma il resto sì.
Fin qui siamo (tutti) contenti. Si chiama efficienza ed è proprio da conoscere quello che vorrebbe compilare le pagelle a mano come pochi anni fa ancora capitava. Scrivere i voti uno a uno, e anche le assenze, decine di volte in decine di documenti. No no. Mai più.
I voti e le assenze. Il registro elettronico permette di vedere online i voti e le assenze. I genitori dei ragazzi accedono con password e sanno in diretta, in tempo reale, se il figlio è a scuola o no, quale voto ha preso, in quale materia, la media, le note disciplinari, gli esiti intermedi e finali. Tutto tutto. Quel che altrimenti o comunque avrebbero saputo andando a colloquio con i docenti. Lo sanno da casa. Dall’ufficio. Da smartphone.
Dove il registro elettronico c’è da un po’, capita che i genitori non si facciano più vedere ai colloqui con i docenti o alle riunioni della Consulta, basta il voto letto sul video, la media la sanno fare da sé. Come se la valutazione fosse cosa di numeri: niente storia di una conquista da raccontare e condividere, niente alleanza educativa da concordare. La scuola in numeri: quattro-cinque-sei. Oppure i genitori a scuola ci vanno, ma vanno a fine quadrimestre e a fine anno, a contestare il voto in pagella, perché non rispetta la media dei voti monitorata per mesi online.
Come se il processo di apprendimento e crescita potesse diventare un numero appunto.
Con bel margine di paradosso, in anni in cui la crisi di partecipazione investe la scuola come tutta la realtà sociale e in cui nascono progetti per riportare i genitori a sentire la scuola realtà propria, a sentire che il “noi” della scuola comprende tutti, noi e loro. Questa iperconnessione sembra ratificare che quel che resta sono i rapporti immateriali. Una spiritualizzazione tecnologica. Fede in una tecnologia che sostituisce la relazione con la connessione. Sicuri che questo sia bene?
E’ possibile che senza ben pensarci si stia avvalorando un vuoto tremendo. Vuoto di parole dette,
di fiducia conquistata. Di fiducia. Non solo fra scuola e famiglie, ma forse e di più fra genitori e figli. Anche se il figlio non parla di scuola, con il registro elettronico il genitore comunque “sa” quel che conta. Il voto. L’assenza. Il marinare la lezione. Subito. L’istante che ci domina. Non c’è per il ragazzo quel tempo sospeso tra ciò che capita e il momento in cui se ne deve o può parlare. Il tempo di pensare, il dispiacere per il voto preso, il proposito di rimediare, il dire sì, è un brutto voto, ma con la promessa già pronta: sto studiando, domani mi faccio interrogare. O sperare che l’impulso di una mattina in fuga da scuola non sia scoperto. Capire da sé che non va bene. Poter ricominciare da un voto non
scoperto e riparato, da un bigiare di cui ci si dispiace da soli. Come non c’è per i genitori il tempo per dedicare attenzione a quel che capita, interpretare i segnali, le parole non dette, aspettare quelle che possono arrivare se si lascia il tempo, appunto, e decidere che va bene, stavolta passa, perché il figlio ha capito, e poi vediamo.
Sapere tutto subito placa l’ansia ma non sostituisce la fiducia. Codifica un terreno di ambigua trasparenza. In cui abita anche lo studente che infrange le regole. Uno studente che manometteva o bruciava il registro di classe cartaceo era limpidamente un mascalzone. Uno che viola il registro elettronico è in una confusa posizione di genialità male utilizzata.
La notizia recente è che uno di questi studenti nello stesso giorno ha ricevuto, per il suo gesto di hackeraggio scolastico, dalla scuola una sanzione e da un’azienda informatica un’offerta di lavoro.
In una scuola che ha soprattutto bisogno di alleanze concretissime di idee, persone e risorse, il registro elettronico può diventare un abbaglio che ci permette ancora una volta di non vedere quel che capita. Una fondamentale vita di relazioni che si perde. Chi lavora a scuola conosce l’importanza di guardare dritto dritto lo studente, a me gli occhi, nel momento in cui si scopre la firma falsa sull’assenza. Il decidere se dirlo o non dirlo al genitore o al ragazzo stesso, se far capire che si è capito, con lo sguardo che parla al posto delle parole, e basta quello, per sempre.
Più avanza il possibile della tecnologia, più bisogna custodire la materialità delle relazioni. La relazione educativa è incontro. Incontrarsi è un argine all’idea che tutto possa esaurirsi nella virtualità di un rapporto online. Forse è di moda lasciarsi con un sms, a volte anche senza nemmeno quello. Di certo sarebbe indecente bocciare un ragazzo attraverso una comunicazione via web.
La smaterializzazione (orrenda parola, vorrà dire qualcosa il fatto che sia così brutta la parola? Le parole contano, eccome) della scuola può andar bene per l’efficientamento (e qui il lessico vira verso l’horror, ma sta scritto proprio così) delle carte e procedure, certo non per i rapporti, che hanno bisogno del corpo. Gli occhi che scappano, le mani che da adolescenti non si sa dove mettere, la voce che dice la verità, le parole che spiegano, tante parole che spiegano come la fiducia è qualcosa che si costruisce fra persone che si incontrano e parlano, non su un computer che ci denuncia.
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Trentadue punti più uno per la scuola dell’anno che verrà


, giornalista e scrittore 
Quando s’insediò al governo nel febbraio del 2013 Matteo Renzi volle da subito chiarire che la priorità per il suo esecutivo sarebbe stata la scuola. Ha continuato a ripeterlo in moltissime occasioni, facendo nel frattempo approvare una riforma in parlamento, la cosiddetta Buona scuola. Ma purtroppo è proprio sulle politiche dell’educazione che l’Italia sta vivendo la sua crisi più grande. Cos’è che non va? Cos’è che potrebbe andare meglio? Quali sono le urgenze e le ambizioni di una politica dell’educazione oggi in Italia?
Ho provato a mettere in fila una trentina di punti, usando molti studi e articoli di dibattito sulla scuola usciti nel 2015 e citando in maniera consistente e spesso quasi testuale due libri recenti: La scuola, le api e le formiche di Walter Tocci (Donzelli) eSenza educazione di Adolfo Scotto di Luzio (Il Mulino) (sull’ultimo numero del domenicale del Sole 24 Ore, c’è già un breve interessante intervento di Sergio Luzzatto su questi due testi).
Soldi
1) Molti supplenti non ricevono lo stipendio da settembre. La responsabilità se le rimpallano da qualche settimana il ministero della scuola – che assicura che a gennaio andrà tutto a regime – e il ministero delle finanze.
2) Nella legge di stabilità approvata pochi giorni fa sono stati stanziati trecento milioni di euro per i dipendenti della pubblica amministrazione (compresi i docenti), i quali hanno il contratto bloccato dal 2009: questo vuol dire un adeguamento di circa cinque euro mensili: una miseria, molto lontano dal tasso d’inflazione.
Gli insegnanti hanno davvero bisogno del governo per sapere come spendere i propri soldi?
3) Nella legge della Buona scuola è previsto un bonus economico per gli insegnanti migliori. Per decidere chi sono questi insegnanti migliori e perché lo sono, va istituito in ogni scuola un comitato di valutazione composto da preside, insegnanti, genitori, studenti. La formazione di questi comitati di valutazione si sta rivelando un mezzo disastro. Alcune scuole hanno deciso di boicottarla, in altre hanno deciso di spartire i soldi assegnati in parti eque a tutti, in altre hanno deciso di devolverlo al fondo della scuola.
4) A tutti i docenti qualche mese fa è stato anche corrisposto un bonus per consumi culturali di cinquecento euro. È la logica misera di sostituire i diritti (l’adeguamento degli stipendi più bassi d’Europa) con delle mance. Gli insegnanti hanno davvero bisogno del governo per sapere come spendere i propri soldi?
Valutazione
5) L’espansione della valutazione formale (i test invalsi, l’economicismo, l’ossessione per la misura della prestazione) oscura da anni la dimensione della valutazione informale. Si adottano modelli che privilegiano gli standard e penalizzano la creatività nella pedagogia, sottolinea Walter Tocci. L’eccentricità di un Célestin Freinet, di un Mario Lodi o di un don Lorenzo Milani – quel genere di visioni che sono state centrali per tutto lo sviluppo pedagogico del novecento – oggi non sarebbe riconosciuta.
6) Nel maggio scorso è uscito sul Guardian un appello molto importante, con un titolo esplicito, I test Ocse-Pisa danneggiano l’istruzione a livello mondiale?, firmato da un nutrito numero di ricercatori di tutto il mondo. La valutazione dall’essere una misura rischia di diventare il fine della politica scolastica. Quali sono le debolezze di un’istruzione dipendente dai test Ocse-Pisa: la standardizzazione, la progettazione a breve durata (i test Pisa hanno cicli di sperimentazione triennali), la sottovalutazione dello sviluppo fisico, morale, civile e artistico, la sopravvalutazione degli aspetti socioeconomici a scapito della formazione democratica, la finalizzazione dell’istruzione a politiche che non sono decise a livello pubblico (sono coinvolti anche soggetti privati nella realizzazione dei test).
Monitoraggio
7) Uno dei problemi della scuola non è che non si facciano riforme – solo negli ultimi dieci anni ce ne sono state una a ministro (Fioroni, Moratti, Gelmini, Giannini) – ma che non si vaglino i risultati. Sarebbe giusto sottoporre alle tecniche della policy analysis le riforme di questi anni.
Se non si investe sulla fragilità, si arriverà a dare a moltissimi cittadini una scuola sempre meno qualificante e inclusiva
8) Ogni governo ha imposto la propria politica della valutazione, senza contare le esperienze già compiute. Questo procedere a ondate successive ha creato un sistema eterogeneo, incompleto e contraddittorio. La Buona scuola avrebbe dovuto mettere ordine, verificare le sperimentazioni condotte dal ministero dell’istruzione in varie regioni, e invece è ripartita dall’anno zero facendo tabula rasa delle iniziative precedenti e creando un sistema ancora più confuso.
9) Nelle riforme non si considerano mai i costi organizzativi, ossia il tempo che viene sottratto alla didattica e all’attività amministrativa, per imparare a redigere la nuova burocrazia e partecipare a un nuovo cumulo di riunioni: quest’anno per esempio quante ore sono già state impiegate per la costituzione dei comitati di valutazione?
Questioni strutturali, squilibri
10) La Buona scuola si occupa di molte questioni ma non affronta quelli che sono i ritardi strutturali: la dispersione scolastica, la nuova didattica, la durata dell’apprendimento e l’educazione degli adulti.
11) Le scuole non sono aziende, ed è un grave errore creare una competizione tra gli insegnanti e tra gli istituti nell’accesso ai fondi pubblici. Le scuole che vanno bene avranno più fondi a discapito di quelle in difficoltà; queste ultime – se fossimo in un’economia di mercato – verrebbero sostituite da realtà più produttive; ma il sistema scolastico è un sistema chiuso, non concorrenziale. Questo vuol dire che se non si investe sulla fragilità, si arriverà a dare a moltissimi cittadini una scuola sempre meno qualificante e inclusiva, senza aver nemmeno di fatto premiato le eccellenze.
12) Occorrerebbe mettere al centro delle priorità politiche una questione meridionale sulla formazione. Il recente libro L’istruzione difficile (Donzelli) mostra che parlare di scuola a Milano e a Palermo vuol dire parlare di mondi diversi. Ci sono differenze profonde, non solo rispetto agli investimenti (soprattutto nell’edilizia, per esempio), ma anche rispetto alle scelte politiche. Il ritardo di sviluppo del Mezzogiorno non è soltanto non compensato dalla scuola, ma viene in qualche modo alimentato dal ritardo nelle politiche educative a sud.
Una buona riforma avrebbe potuto impiegare gli insegnanti in un programma straordinario nel Mezzogiorno
13) C’è un problema di neoanalfabetismo che non può essere sottovalutato. In un articolo dell’11 maggio scorso Tullio De Mauro ricordava la commissione nominata nel 2013 dai ministri Carrozza e Giovannini (istruzione e lavoro nel governo Letta) che produsse nel febbraio 2014 un rapporto analitico su quel che scuole e imprese potevano e dovevano fare per contenere e ridurre la massa dei dealfabetizzati. Di questa commissione non c’è traccia nella Buona scuola, dei dati che ottenne non si è fatto nessun uso. Chi vuole farsene un’idea può almeno leggere il rapporto.
14) Invece dell’organico di potenziamento, una buona riforma avrebbe potuto impiegare gli insegnanti in un programma straordinario nel Mezzogiorno per aprire migliaia di asili, scuole dell’infanzia, classi a tempo pieno e nuovi istituti di istruzione e formazione professionale in accordo con le regioni; avviando un programma di formazione degli insegnanti – che non sarebbero dovuti emigrare al nord – mirato alla qualità della didattica nelle aree a rischio, e istituendo un’apposita sezione della costituenda Agenzia per i fondi europei con la missione di promuovere un innovativo profilo didattico delle nuove scuole. Questa sarebbe stata una vera riforma con una visione.
Mancano le idee
15) Invece di realizzare una forte autonomia scolastica si è semplicemente attuato un decentramento di funzioni. In questo modo non si responsabilizzano i poteri locali, e non c’è un alleggerimento di quelli nazionali. La macchina burocratica si raddoppia.
16) L’innovazione non consiste in una scuola 2.0, con tablet in classe e misurazione delle competenze ogni piè sospinto, ma nel rispondere alle nuove sfide cognitive, alla trasformazione dei processi di apprendimento.
Lavoro
17) Con la riforma della Buona scuola sono stati assunti circa centomila insegnanti. Molti di questi sono stati assunti come “organico di potenziamento”. Di fatto si è risposto alla necessità – anche per non essere multati dopo varie indicazioni europee – di immettere in ruolo molti docenti precari, senza però avere in mente nemmeno delle serie linee guida per la programmazione didattica, e scaricando sui singoli istituti la questione di come impegnare quest’organico di potenziamento. Il risultato è che nella maggioranza dei casi vengono utilizzati come supplenti per tutte le materie, comprese ovviamente quelle per cui non hanno né un’abilitazione né una preparazione adeguata.
Le retoriche usate da questo governo sono un misto di normativismo, economicismo, luoghi comuni non suffragati da dati
18) Invece di accumulare figure tuttofare nelle scuole, si dovrebbe pensare a una scuola ricca di operatori specializzati. Non bidelli, ma giardinieri, custodi, sorveglianti, manutentori. Non generici insegnanti di sostegno (che spesso sono docenti di altre discipline che hanno ripiegato provvisoriamente sul sostegno per lavorare, in attesa di essere chiamati sulla loro classe di concorso), ma specialisti per sordi, ciechi, autistici. Non insegnanti volontari e disponibili o in sovrannumero, ma bibliotecari, psicologi, infermieri, specialisti nell’orientamento, assistenti sociali, consulenti della valutazione, ortopedagogisti, logopedisti, specialisti in problemi di apprendimento.
19) Un esempio della mancanza di dibattito rispetto a questioni pedagogiche rilevanti e rispetto alla formazione di figure professionali adeguate può essere quello sulla disabilità. Questo genere di dibattito – come in generale tutta la discussione pubblica sull’educazione dei disabili – è stato praticamente nullo in questi mesi. Sulle disabilità dovrebbe essere emanato un decreto apposito, ma già sono in molti a preoccuparsi che i tagli di spesa saranno penalizzanti, che sperano di scongiurare il ritorno a scuole speciali, ma che soprattutto lamentano come sull’educazione dei disabili ci sia una grande mancanza di cultura politica.
Una riforma confusa
20) Le retoriche usate da questo governo sono un misto di normativismo, economicismo, luoghi comuni non suffragati da dati. L’esempio più evidente è stata la lezione alla lavagna dello stesso Matteo Renzi. Ma anche gli interventi della ministra Stefania Giannini o del sottosegretario Davide Faraone hanno evidenziato sempre una mancanza di visione culturale. Il tentativo di far precipitare questa massa confusa di propositi nel testo di legge ha prodotto un testo arruffato.
21) La legge 107, la Buona scuola, è un testo scritto male, ripete propositi del passato senza averli passati al vaglio della verifica, contiene norme eterogenee e frammentate, si perde nei particolari senza definire i concetti, assegna lo stesso peso a problemi grandi e piccoli. È la legge più prolissa di tutti i tempi, fa notare Walter Tocci. È lunga 25.134 parole, circa dieci volte di più della media di altri importanti provvedimenti che hanno segnato la storia della politica scolastica: legge Gui del 1962 sulla scuola media, 2.917 parole; legge n. 477 dei famosi “decreti delegati” che conteneva anche molte norme sul personale, 6.606 parole; legge Berlinguer sull’autonomia, 1.989 parole; legge Moratti, 4.626 parole; legge Gelmini, 1.418 parole.
22) Il governo si è tenuto nove deleghe nella formulazione della legge sulla Buona scuola. Queste possono produrre uno o più decreti legislativi. Per l’attuazione amministrativa la legge rinvia all’adozione di 19 decreti e regolamenti. Un’ulteriore delega amministrativa (comma 183) consente al ministero di riscrivere tutti i regolamenti vigenti ordinati per materie, senza porre un limite numerico. Poi ci saranno le risoluzioni della conferenza Stato-Regioni, i provvedimenti di spesa, le procedure concorsuali e le circolari ministeriali. Alla fine si potrà arrivare a circa mille pagine di norme di diversa fonte giuridica. Un po’ troppe.
La retorica della tecnologia può diventare, da inutile, dannosa
23) In un documento molto chiaro, Rosario Drago – preside ed esperto di autonomia scolastica – mostra tutti i punti deboli da un punto di vista legislativo e amministrativo della riforma: si dà più autonomia ai dirigenti scolastici, ma senza cambiare composizione e poteri del consiglio d’istituto; si esalta l’autonomia del curriculum, ma lasciando invariati e obbligatori i curricula e gli ordinamenti esistenti; si promuove l’alternanza scuola lavoro, ma solo in aggiunta alle 14 materie di studio esistenti o come “lavoretto” estivo extrascolastico; si inventano le nuove reti “obbligatorie”, ma senza decentralizzazione e organizzazione amministrativa delle reti stesse; si stabilizzano i precari, ma si lascia inalterato il sistema delle supplenze, dei punteggi e delle graduatorie; si inventano incarichi per funzioni ispettive, ma non si istituisce un servizio ispettivo autonomo; si premiano gli insegnanti, ma si lascia la vecchia carriera di anzianità; si afferma l’autonomia degli istituti scolastici, ma senza riforma dell’amministrazione centrale e periferica.
Tecnologia
24) La retorica della tecnologia può diventare, da inutile, dannosa. In una scuola in cui i fondamentali dell’istruzione non sono garantiti, l’introduzione delle tecnologie diventa un peso che porta via risorse per altre cose più importanti: la formazione degli insegnanti e il finanziamento per i laboratori scientifici, per esempio. In un libro del 2004, The flickering mind, Todd Oppenheimer già poneva la questione in termini di costi-efficacia, rilevando che i 70 miliardi di dollari spesi a partire dagli anni novanta fino all’inizio del nuovo millennio sarebbero potuti servire a reclutare 170mila insegnanti per la scuola pubblica. Che cosa ci fa optare tout-court per la tecnologia?
25) Tra il 2009 e il 2011 c’è stata un’importante sperimentazione nelle scuole italiane, chiamata Cl@assi 2.0. Ha coinvolto quasi settemila studenti delle scuole medie e ha ricevuto quattro milioni e 680mila euro. Doveva “registrare il cambiamento ambientale prodotto dalle nuove tecnologie nelle aule”. Nel 2014 è stato pubblicato il rapporto finale; ed è molto interessante perché i risultati sono vaghi e non si capisce se la sperimentazione è servita o meno a qualcosa. Ogni insegnante ha fatto per conto suo, e addirittura un ricercatore del progetto a un certo punto (pagina 18) chiosa in questo modo: “Nelle condizioni descritte fin qui è risultato difficile ricostruire un quadro completo di cosa sia effettivamente accaduto nelle classi coinvolte nel progetto”. Questo caso è paradigmatico delle sperimentazioni tecnologiche nella scuola italiana: cospicui investimenti per risultati scarsi e incerti, incapacità di verificare.
Il dibattito su una riforma scolastica dovrebbe coinvolgere non solo chi ci lavora, ma l’intera società
26) La tecnologia a scuola non riduce le disuguaglianze preesistenti, ma anzi può favorirle: gli insegnanti possono rivolgersi in modo diversi a quegli studenti agiati che a casa hanno familiarità con il computer e internet e quelli che non la hanno. Le tecnologie non solo sono spesso un privilegio dei migliori, ma il loro uso è condizionato da una struttura sociale classista.
Qual è il fine della scuola?
27) È fondamentale inquadrare storicamente ogni discorso educativo, capirne la dipendenza dagli orientamenti valoriali e culturali che prevalgono in una certa fase di sviluppo della società. La politica non dovrebbe entrare di meno nella scuola, ma di più. Il dibattito su una riforma scolastica dovrebbe coinvolgere non solo chi ci lavora, ma l’intera società.
28) Sul Corriere della sera compaiono regolarmente da qualche anno degli editoriali sulla scuola di Roger Abravanel. Il suo libro uscito quest’anno, La ricreazione è finita(Rizzoli) scritto con Luca D’Agnese, sintetizza bene le sue posizioni: il vero problema che affligge i giovani in cerca di occupazione non è tanto la crisi economica, quanto la carenza di soft skills ed “etica del lavoro”, che, ancor più delle competenze tecniche, sono il requisito imprescindibile per farsi strada nel mercato del lavoro. La scuola dovrebbe occuparsi di fornire tutto questo. Giuseppe DeNicolao ha dedicato alla discussione critica delle tesi di Abravanel molti articoli divertenti e puntuali, correggendo spesso i dati e smontando alcune tesi in modo molto convincente. Vale la pena di leggerli per intero, perché in questa critica si trova forse l’esemplificazione più chiara di due modelli opposti di educazione: una come allineamento al mondo del lavoro, funzionalista, neoweberiana; l’altra democratica, egualitaria, inclusiva.
29) Crescere non vuol dire prepararsi a una professione. Andare a scuola non significa essere pronti a entrare nella società degli adulti, ma anche saperlo cambiare, quel mondo.
Didattica
30) Si dice nel testo della Buona scuola che si creerà “un canale permanente di comunicazione con gli uffici competenti del ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, per valorizzare la condivisione di buone pratiche tra le istituzioni scolastiche medesime” e che intanto si realizzerà un servizio di assistenza ministeriale. Insomma anche nella riforma si parla tanto di esaltare le buone pratiche ma quello che è stato fatto negli ultimi anni – sia a livello istituzionale (per esempio il progetto Gold) sia a livello informale (per esempio La scuola che funziona) – non viene nemmeno preso in considerazione. Progetti di scambio formativo non monitorati, non valorizzati, finiscono per essere risorse non sfruttate e dimenticate; e generano siti chiusi, o non aggiornati – vedi quello ministeriale che dovrebbe essere la piattaforma delle buone pratiche e che è uno smilzo elenco di link semifunzionanti.
La promessa di Matteo Renzi a inizio mandato faceva quanto meno sperare. E per questo la delusione è stata più forte
31) Si fa tanto parlare di innovazione. Ma nelle politiche scolastiche c’è molto decisionismo. E questa riforma non fa eccezione. Quello che evidentemente manca è la capacità di implementare la riforma, e ciò è impossibile senza una formazione diversa della classe docenti. In un’indagine decennale dell’istituto Iard, i cui risultati sono raccolti in un saggio all’interno di Gli insegnanti italiani, si mostra come la maggior parte dei docenti italiani faccia lezione come si faceva venti se non cinquant’anni fa, replicando il modello degli insegnanti che loro stessi hanno avuto.
32) La confusione nella formazione degli insegnanti – tra concorsi, Ssis, Tfa e decine di percorsi speciali – oltre ad aver generato un ovvio caos nell’accesso al lavoro, non ha determinato un sostanziale miglioramento della qualità didattica. Soprattutto non si è creata una classe di formatori dei docenti. Molti di coloro che hanno insegnato alla Ssis e ai Tfa erano sprovvisti di una metodologia didattica specifica, e spesso non avevano nemmeno delle qualità personali per fare gli insegnanti. Erano professori o ricercatori universitari, prestati a queste improvvisate scuole di formazione. Questo non è più concepibile, occorrono dei percorsi veramente qualificanti e un rapporto più integrato tra formazione universitaria e formazione scolastica.
Infine
Discutere di formazione è una delle più interessanti attività politiche che si possa fare. Ma è davvero raro che i politici ci si impegnino sul serio. Per questo la promessa di Matteo Renzi a inizio mandato faceva quanto meno sperare. E per questo la delusione è stata più forte.
Molte delle cose che abbiamo provato a sostenere in questa piccola sintesi avrebbero bisogno di analisi approfondite, e di una contrapposizione franca, anche questa molto rara.
Un ottimo esempio da segnalare è il libro Abolire la scuola media? di Cesare Cornoldi e Giorgio Israel, pubblicato dal Mulino. In questo pamphlet a due voci, si contrappongono due visioni speculari di quello che occorrerebbe alla scuola italiana. Sono soprattutto le tesi di Giorgio Israel che andrebbero lette.
Quella di Israel – grande matematico e intellettuale, da poco scomparso a cui vorrei fare omaggio – è una posizione isolata ma che chiama a un serio confronto. Se la sua prospettiva coincide nella critica alla retorica delle competenze e della meritocrazia, la sua proposta è invece in contrasto per quanto riguarda la riformulazione della didattica in senso informale.
Il suo dito è puntato soprattutto contro gli eccessi di pedagogia e metodologie a scapito delle discipline, che già in sé contengono una capacità intrinseca di metadisciplinarietà. Sostiene Israel: non serve familiarizzare con il concetto dispazialità per imparare la geometria, anzi. E per questo critica l’esaltazione delle innovazioni didattiche di quell’eldorado scolastico che viene considerato la Finlandia e punta il dito contro il genericismo.
“È assolutamente sconcertante assistere allo spettacolo di persone che ammettono candidamente di non avere altro che una spolveratura di conoscenze matematiche, o addirittura di non averne affatto, che poi pontificano sui fondamenti dei concetti geometrici o si propongono come maestri della ‘discalculia’, e in generale, dei disturbi di apprendimento che, in fin dei conti, sono sempre correlati a tematiche disciplinari”.
Non sono d’accordo con molte delle cose che Israel scrive, ma gli va riconosciuto di essere tra i pochi che non è stato sedotto dalle false retoriche del progresso, che spesso si sono rivelate nocive, oltre che fasulle, facendo alle volte comporre a chi nella scuola ci lavora una sorta di elogio del ritardo.

Ultime notizie scuola, venerdì 8 gennaio 2016: l’uso delle apparecchiature Wi-Fi negli istituti scolastici è sicuro oppure no?


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Il quotidiano ‘La Stampa‘ ha pubblicato nell’edizione odierna un articolo incentrato sulla decisione del sindaco diBorgofranco d’Ivrea, Livio Tola, di eliminare il wi-fi dalle scuole primarie e secondarie inferiori del paese. La decisione dell’esponente del Movimento Cinque Stelle è stata giustificata dal potenziale pericolo delle onde elettromagnetiche per gli studenti. A Borgofranco, quindi, gli istituti sono tornati ad utilizzare la cablatura della rete e il vecchio sistema Isdn.
Wi-fi a scuola, sicuro o no? Chiara Appendino ‘Pensiamo prima all’edilizia scolastica’Il candidato sindaco alla città di Torino, Chiara Appendino (Movimento Cinque Stelle) ha espresso la propria opinione in merito alla decisione del ‘collega’, affermando che, seppur non conoscendo a fondo la decisione del sindaco di Borgofranco d’Ivrea, ritiene che le priorità per la sicurezza nelle scuole sono altre ed, in particolare, quelle legate all’edilizia scolastica. ‘Quando si parla di sicurezza nelle scuole – afferma Chiara Appendino – parliamo soprattutto del tema riguardante la manutenzione delle strutture. Per quanto riguarda la questione wi-fi, credo che potrebbe essere opportuno, magari, disattivare router e access points quando non vengono svolte le lezioni’.
Scuola, usare il wifi oppure no? Professor Daniele Trinchero: ‘I cellulari sono molto peggio’Il quotidiano ‘La Stampa‘ ha chiesto anche il parere di un noto professore e ricercatore del Policlinico di Torino,Daniele Trinchero, a proposito dei possibili danni derivanti dall’uso del wi-fi, in particolar modo nelle scuole. ‘Un’apparecchiatura wi-fi ha una potenza di trasmissione compresa tra i trenta e i quaranta milliwatt. Se pensiamo che un cellulare ne raggiunge dieci volte di più, ossia 300, potete trarre voi stessi le opportune conclusioni.’
Il professor Trinchero, inoltre, ha precisato che le frequenze dei cellulari si sommano e che, quindi, basta che ce l’abbiano gli insegnanti o gli studenti stessi all’interno del loro zaino per far sì che venga raggiunta una maggiore concentrazione di onde elettromagnetiche rispetto all’uso del wi-fi. Tanto è vero, afferma il professore, che l’OMS ha innalzato il livello di rischio sui telefonini di nuova generazione che contengono sino ad otto antenne.
Daniele Trinchero conclude dicendo che, comunque, le frequenze all’aperto sono più alte rispetto a quelle presenti in classe, pertanto togliere il wi-fi dalla scuola non avrebbe alcun beneficio sul piano dell’esposizione.

Libertà di insegnamento. "Opzione metodologica di minoranza" va inserita nel PTOF

Esiste una norma, nella Scuola, poco applicata, ma che garantisce dei principi fondamentali per l'affermazione della libertà d'insegnamento. Nel rispetto della nostra Costituzione, uno su tutti, l'articolo 33, dell' articolo 13 della Carta Europea dei Diritti, dell'articolo 7 comma 2 del DLgs 165/2001, dell'articolo 1 e 395 del dlgs.297 del 1994, esistono le opzioni metodologiche di “minoranza”.
La funzione docente è a livello ordinamentale intesa come esplicazione essenziale dell’attività di trasmissione della cultura, di contributo all’elaborazione di essa e di impulso alla partecipazione dei giovani a tale processo e alla formazione umana e critica della loro personalità. E dunque, ai docenti e' garantita la liberta' di insegnamento intesa come autonomia didattica e come libera espressione culturale del docente. L'esercizio di tale liberta' e' diretto a promuovere, attraverso un confronto aperto di posizioni culturali, la piena formazione della personalita' degli alunni.
La scuola opera, o meglio dovrebbe operare, non solo in modo collegiale, ma soprattutto nel rispetto della minoranza. Ed è questa che la differenza da una tipica gestione aziendalista. Le diverse opinioni, le diverse valutazioni, le diverse posizioni, non sono resistenze da dover demolire, o mettere a tacere, ma la vera forza della scuola. Perché sono uno stimolo alla crescita, alla critica, alla formazione culturale.
L'articolo 1 del DECRETO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA 8 marzo 1999, n. 275 afferma che ogni istituzione scolastica predispone, con la partecipazione di tutte le sue componenti, il piano triennale dell'offerta formativa, rivedibile annualmente.
Il piano e' il documento fondamentale costitutivo dell'identita' culturale e progettuale delle istituzioni scolastiche ed esplicita la progettazione curricolare, extracurricolare, educativa e organizzativa che le singole scuole adottano nell'ambito della loro autonomia. Il Comma 14 articolo 1 della legge 107 2015 che modifica l'articolo 3 del DECRETO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA 8 marzo 1999, n. 275 afferma che : “il piano è coerente con gli obiettivi generali ed educativi dei diversi tipi e indirizzi di studi, determinati a livello nazionale a norma dell'articolo 8, e riflette le esigenze del contesto culturale, sociale ed economico della realtà locale, tenendo conto della programmazione territoriale dell'offerta formativa. Esso comprende e riconosce le diverse opzioni metodologiche, anche di gruppi minoritari, valorizza le corrispondenti professionalità e indica gli insegnamenti e le discipline tali da coprire: (omissis)”.
Da ciò discende che quando viene fatta valere la detta opzione, questa non potrà che essere inserita obbligatoriamente nel Piano dell'Offerta Formativa Triennale, detto PTOF, senza che si possa esercitare un voto positivo o negativo, purché si tratti di opzioni conformi non contrarie alla Legge, come è ovvio che sia.

Alternanza-scuola lavoro e studenti, news 2/1: la “Lucida follia” del Miur “ora o mai più”

mercoledì 6 gennaio 2016

Alternanza-scuola lavoro e studenti, news 2/1: la “Lucida follia” del Miur “ora o mai più”

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di Gigi Rovelli,  Blasting News   2.1.2016. 
Ultime notizie scuola, sabato 2 gennaio 2016: le parole 
di Francesco Luccisano, responsabile della segreteria tecnica del Miur.

Francesco Luccisano, responsabile della segreteria tecnica del Miur ha definito una ‘lucida follia’ il rafforzamento del progetto relativo all‘alternanza scuola-lavoro. ‘Stiamo facendo una follia’ ha dichiarato il dirigente ad un convegno organizzato dall’associazione Junior Achievement a Milano, presso il Talent Garden Calabiana. ‘Ora o mai più’ ha aggiunto Luccisano, precisando che l’Italia non può aspettare di essere pronta al cento per cento, perchè altrimenti non si farà mai nulla.
Mezzo milioni di studenti saranno alle prese da quest’anno con gli stage da 200 ore nell’ultimo triennio di scuola superiore per quanto concerne i licei e da 400 ore negli istituti tecnici e professionali.
Presidi e alternanza scuola-lavoro: inciderà negativamente sul rapporto di autovalutazioneIl fatto è che ancora in molte scuole non si sa dove verranno fatti questi stage e come: il pretesto per ‘ringiovanire’ la scuola è stato l’approvazione della legge 107 ma ora bisogna passare dalle parole ai fatti.
Vogliamo far acquisire competenze nel mondo del lavoro a tutti gli studenti e non esisteranno scuse. Questo il messaggio che intende lanciare il Ministero dell’Istruzione, messaggio rivolto in primis ai dirigenti scolastici. State attenti, cari presidi, perchè se non avrete intenzione di portare avanti i progetti riguardanti l’alternanza scuola-lavoro, vi potreste ritrovare una brutta sorpresa nel rapporto di autovalutazione: un voto negativo porterebbe spiacevoli conseguenze, anche per quanto riguarda premi e stipendi.  
Scuole spaesate: ‘Ora o mai più, una lucida follia’Le perplessità riguardano soprattutto i licei, dove studenti e professori si chiedono a cosa potrà servirel’allargamento dell’alternanza scuola-lavoro anche a questo corso di studi. ‘Dovrai lavorare anche tu nella vita’ è stata la risposta di Francesco Luccisano ad una ragazza che aveva sollevato la questione riguardante il fatto che gli stage non c’entrassero nulla con i licei.
Paolo Damanti, dalle pagine del sito specializzato ‘Orizzonte Scuola’, ha affermato che molte scuole italiane sono spaesate, non sanno a chi potersi rivolgere: ‘l’alternanza scuola-lavoro è uno degli aspetti positivi della riforma Buona Scuola‘ ma così viene lasciato tutto al caso. Basti pensare alle regioni del Sud, dove le aziende sono molte di meno rispetto al Nord o al Centro: in Calabria, l’associazione dei presidi chiederà un rinvio delle scadenze, proprio per le enormi difficoltà a cui andranno incontro le scuole.

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