Questa  volta si presentano anche i Cobas, frutto dell'esperienza dei  “lavoratori autorganizzati”, che si aggregarono durante la dura lotta  per la difesa del "magnetico", nel 2005. Non possono certo insidiare la  prevalenza dei sindacati confederali, ma sicuramente rompono per la  prima volta l'egemonia della Fiom, o meglio, il soffocante controllo  esercitato per decenni dal Pci e dal sindacato di ceppo socialcomunista.  Nemmeno durante l'autunno caldo ci furono esperienze di organizzazione  fuori da questo blocco, né attecchirono le suggestioni della sinistra  extraparlamentare. Parliamo di controllo e di cappa di piombo piuttosto  che di egemonia, perché tale granitica forza non riuscì mai a  contrastare efficacemente il drammatico ridimensionamento della fabbrica  e della base produttiva. Come non fu priva di responsabilità nella  seconda metà degli anni '90, durante quella privatizzazione a  singhiozzo, a tarallucci e vino e con prezzi stracciati, pilotata  dall'Iri, di cui era direttore generale Enrico Micheli e presidente  Romano Prodi. Già, manager e uomini politici di grandissima caratura...  Il candidato dei Cobas è Marco Bartoli, lavoratore e militante  appassionato e coraggioso. Infatti occorre coraggio per fare attività  sindacale in controtendenza rispetto alla “triplice” e attaccando  frontalmente il comando in fabbrica. Non si tratta di obsolete  fumisterie ideologiche, bensì di un conflitto combattuto  quotidianamente, contendendosi terreno palmo a palmo. 
 «La nostra differenza - racconta Marco  - è in primo luogo nello stile di lavoro: rifiuto della cultura della  delega e dell'accentramento, decisioni prese sempre a livello di  democrazia assembleare. Detto questo - prosegue - il terreno del  conflitto è enorme. La ThyssenKrupp ha investito 500 milioni di euro per  una ristrutturazione su scala continentale, che naturalmente prevede  anche per Terni una riduzione di personale. Come al solito, c'è un  balletto di cifre: 100, poi 320, e ancora “solamente” 125, ma è sicuro  che verranno esternalizzati la vigilanza, l'officina meccanica, quella  elettrica e i veicoli. Due forni a campana e il laminatoio a caldo-L.A.C  10 sono già stati promessi alla partecipata Ilserv, ma ciò che  preoccupa e richiede attenzione è il progetto, al momento non ufficiale,  di trasferire sempre più operai e macchine al Centro Servizi di  Maratta. Da circa 5 anni ci sono stati massicci investimenti; per ora  tale Centro Finitura include 180 persone, che lavorano in un vasto  capannone, con ritmi molto più incalzanti rispetto a viale Brin.  Pensiamo che sia quello il nostro futuro: in sostanza, una riedizione  dell'operazione “prato verde” realizzata nel 1994 dalla Fiat a Melfi,  con lo scopo di creare un contesto produttivo che, per organizzazione  del lavoro, tecnologia e assenza di conflitto sociale, potesse  rappresentare nel panorama industriale, non solo italiano, un modello  avanzato. La Fiat selezionava i lavoratori persino su base psicologica,  per cercare di eliminare quei soggetti che sembravano più inclini ad  organizzarsi sindacalmente e politicamente, mettendo in atto forme di  intimidazione verso chiunque osasse criticare l’operato dell’azienda.  Avevano studiato, ingegneri e psicologi, una composizione degli operai,  una disciplina, una forma di rappresentanza sindacale tali da impedire  ogni manifestazione di conflitto aperto. Gli operai erano scelti con  cura, raccolti da tanti paesi per renderne difficile il collegamento, in  una zona ad alta disoccupazione, per fare agire su di loro il peso  della circostante miseria. Non per nulla, dopo poco tempo molti  lavoratori gettarono la spugna: la disoccupazione era preferibile a  quell'incubo. Ecco - conclude Marco - pensiamo che la strategia sia  proprio quella: vasti capannoni, poco personale, ritmi di lavoro  pazzeschi». 
 Tornando a viale Brin, come vanno le cose dal punto di vista della sicurezza? «E'  una situazione di completo degrado. Già entrando trovi pezzi d'acciaio e  tubi ammucchiati disordinatamente, ci passi in mezzo, timbri il  cartellino e, di nuovo, attraversi gli stessi pericoli; inoltre bisogna  attraversare dei binari, ma, quando è buio, come alle 5, diventa  un'impresa mantenere l'equilibrio in mezzo alle buche. Una volta dentro,  il paesaggio è fatto di carroponti addirittura risalenti al 1939, con  freni non più funzionanti e pilotati da personale senza la specifica  patente; si può dire che niente sia a norma, le spine elettriche, ad  esempio, non lo sono da 20 anni e una volta un elettricista lo segnalò,  ma in risposta fu cacciato. E ancora, tutte le macchine sono in pessime  condizioni, ben 5 progetti di manutenzione sono rimasti nel cassetto, i  carrelli, che chiamiamo “muletti”, non hanno più i freni, spesso partono  da soli e procedono fino a battere contro qualcosa; per giunta sono  guidati anche da personale assunto con le liste speciali, in pessime  condizioni psicofisiche. A volte devi montare su una macchina un pezzo  inappropriato, sai che è pericoloso, ma sei oggettivamente ricattato dal  fatto che, se non ti adegui, si blocca tutta la produzione; del resto  quando qualcuno prova a rifiutarsi viene subito sostituito da un  altro, disposto a rischiare la pelle e con scarso senso della  solidarietà e della lealtà. Infine, le dotazioni di sicurezza sono  vecchie di 40-45 anni». 
 E le sostanze contaminanti? «C'è  di tutto. Al momento una cosa molto antipatica sono le pur doverose  prove antincendio, in cui evidentemente qualcosa non funziona,  se dobbiamo respirare a lungo un fumo denso che puzza di gomma bruciata.  Una costante è invece l'esalazione prodotta dal liquido emulsionabile,  che viene passato sulle macchine per prevenire l'ossidazione e  facilitare le operazioni di taglio: contiene oli scadenti, che  marciscono, ma restano lì per settimane e mesi, con tanti saluti alle  nostre proteste». 
 Certo, è un bell'ambientino... «Non  ti ho ancora parlato dei premi di produzione non pagati: accade una  cosa curiosa, se puntiamo i piedi ci dicono che, per ritorsione, non  verranno rinnovati i contratti a termine, peraltro sempre più  numerosi. Quindi il mio impegno scaturisce da queste cose, negli anni  sono stato iscritto a diversi sindacati, così, senza molta convinzione,  solo perché è comunque preferibile avere un riferimento, ma uno vale  l'altro, e non ho mai pensato di farvi attivismo, anche se sono alquanto  corteggiato. D'altronde non sarebbe facile, perché, in ogni caso,  pretendono di normalizzarti. Meglio dedicarmi a questo gruppo, farlo  crescere abbastanza da volantinare tutti i turni senza aiuto esterno, di  amici o del centro sociale, e anche da presentarsi alle assemblee con  altri interventi oltre il mio. E' questo che ritengo utile e necessario:  la militanza di base, fare le cose in prima persona e non prendere mai  decisioni sulla testa dei lavoratori».
 Enrico Cardinali