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mercoledì 9 maggio 2012

SPUNTI PER UNA RIFLESSIONE SULLA DIDATTICA

di Silvia di Fresco e Matteo Vescovi

SPUNTI PER UNA RIFLESSIONE SULLA DIDATTICA. 1. Società della conoscenza/società del controllo

di Silvia Di Fresco
per le note ed altro vedi qui
Sulle pagine della rivista «L’ospite ingrato» dedicata al tema della conoscenza, Sergio Bologna1, dopo aver sottolineato l’inefficacia dell’attuale sistema formativo, concludeva il suo articolo chiedendosi quale possa essere il futuro degli studi umanistici in un contesto in cui il lavoro, e il suo linguaggio, sono altamente dominati dalla tecnologia. Il problema ovviamente non riguarda solo l’Italia e non coinvolge solo aspetti interni alla didattica, ma riguarda il modello di società che saremo in grado di immaginare per risolvere i giganteschi problemi ecologici e sociali che il pianeta si trova ad affrontare. È quella che recentemente Martha Nussbaum ha definito come «crisi dei saperi socratici», cioè di quei saperi che sviluppano competenze non misurabili come la capacità di confrontarsi e mettersi in discussione, di assumere il punto di vista dell’altro, di produrre soluzioni innovative (e non esecutive) rispetto ai contesti in cui sorgono i nostri problemi. Saperi che rappresentano le finalità di un’educazione rivolta alla costruzione di una comunità democratica, all’interno della quale l’insegnamento di materie letterarie e scientifiche va salvaguardato rispetto a un’educazione schiacciata sui saperi tecnici e specialistici. Sostiene la Nussbaum che tali insegnamenti hanno persino una finalità economicistica indiretta in quanto «l’innovazione richiede intelligenze flessibili, aperte, creative. La letteratura e le arti stimolano queste facoltà. Quando mancano, la cultura aziendale perde colpi in fretta»2.Essendo questi saperi strumenti per la produzione del cambiamento, in apparenza tutto sembrerebbe chiaro: se si vuole produrre alternative alla crisi economica esistente bisogna investire sui saperi socratici, altrimenti il sistema produttivo non riuscirà a mettere in circolo nuove idee e quindi a risollevarsi. Ora, le continue revisioni dei sistemi scolastici degli ultimi venti anni sia a livello europeo che in altre nazioni, pur prospettando a parole di perseguire finalità di ampio respiro, sembrano inspiegabilmente produrre effetti contrari sulla popolazione scolastica, sia in termini di decadimento degli apprendimenti sia in termini di risorse sociali che i ragazzi acquisiscono durante il loro percorso scolastico. Dando qui assodato il fatto che, nella nostra economia, l’accumulazione del profitto sia in prevalenza dovuta a dispositivi immateriali, una delle cause principali di questa crisi dei sistemi educativi, a nostro avviso, è proprio quella di aver pensato alla conoscenza nell’ottica della propria utilizzazione all’interno del mercato del lavoro, facendo quindi coincidere il bagaglio cognitivo in nostro possesso con l’utilità che esso produce3. Tale concezione ha di fatto non solo prodotto gravi storture nell’organismo della Pubblica Istruzione, ma ha determinato, al suo interno, anche la dequalificazione stessa della conoscenza tout court. Se, infatti, il sapere degli individui diventa un prodotto che gli stessi possono acquisire (o meglio acquistare), va da sé che esso, per essere capitalizzato, debba essere contabilizzato. Le conoscenze richieste, quindi, devono essere ridotte a pacchetti di cosiddette “competenze” più o meno complesse di cui va “certificata” appunto l’acquisizione, considerata così detenuta in via definitiva dall’alunno (al pari di un utensile), salvo poi doversi aggiornare continuamente a causa della loro obsolescenza. In questo modo, il compito di educazione passa dalla formazione (dare una forma) del cittadino a quello dell’informazione (trasmettere pacchetti di conoscenze e competenze prestabilite) trasmesse all’utente, con tutto ciò che questo comporta4.
In questa sede, non vogliamo entrare nel merito dell’analisi delle forme economiche in atto, ma sottolineare come queste ultime rappresentino un modello paradigmatico dei sistemi educativi che si vanno realizzando a livello internazionale e, in particolare, nel nostro paese. La nostra tesi è che questo modello sia gravemente distorsivo delle relazioni educative e produttore di nuovi meccanismi di controllo sociale, finalizzati alla riproduzione dell’attuale sistema di accumulazione diseguale del profitto. Per prima cosa, quindi, occorre riflettere sulla definizione di ciò che in questo contesto si intenda debba fornire la scuola ai cittadini che la frequentano. Da questo punto di vista, la sintesi operata in questi anni dai lavori del Parlamento e della Commissione Europea sono esaustivi della visione che si va promuovendo nell’UE. Nelle raccomandazioni 962 del 2006 Le competenze chiave per l’educazione e la formazione per tutta la vita” del Parlamento e Consiglio europeo, si legge:
Le competenze chiave sono essenziali in una società fondata sulla conoscenza e garantiscono vantaggi nel rinnovo della mano d’opera. La flessibilità di chi le acquisisce gli permette di adattarsi più rapidamente all’evoluzione costante di un mondo caratterizzato da una grande interconnessione. Esse costituiscono anche un fattore essenziale di innovazione, produttività e competitività, e contribuiscono alla motivazione e soddisfazione dei lavoratori, oltre che alla qualità del lavoro5.
Successivamente, senza chiarire che cosa si intenda in questo contesto con il termine competenze, si passa alla definizione di queste «competenze di base» richieste ai futuri cittadini europei, che prevedono capacità e conoscenze di basso profilo (giustificate dall’esigenza di essere accessibili a chiunque) e che riguardano: la capacità di esprimersi nella propria lingua madre e nelle lingue straniere; la capacità di risolvere diversi problemi della vita quotidiana di carattere scientifico-matematico; la capacità di utilizzare le tecnologie informatiche; la capacità di «apprendere ad apprendere» intesa nel senso banalizzato di sapersi adattare ai cambiamenti; «competenze sociali e civiche» che corrisponderebbero al benessere personale e collettivo e alla capacità dell’individuo di inserirsi all’interno dei contesti sociali e politici; «lo spirito d’iniziativa e d’impresa» ovvero la capacità di passare dall’idea all’attuazione in modo che l’individuo sia in grado di cogliere le occasioni che gli si presentano; e infine, una certa sensibilità estetica che implichi la consapevolezza dell’importanza dell’ «espressione creatrice di idee». Si tratta in sostanza di un ritratto dell’uomo medio europeo, il quale deve possedere un livello di istruzione base al limite dell’analfabetismo, deve aver introiettato il modello individualista e neoliberista della società e aver accettato la continua mobilità lavorativa, sviluppando capacità individuali di adattamento alle esigenze di un contesto per definizione precario, le cui oscillazioni sono tanto incomprensibili quanto inevitabili, proprio come il destino nell’antica Grecia. D’altra parte non si fa alcun cenno a capacità che prevedano la costruzione di saperi critici e che si basino sull’acquisizione dei fondamenti delle discipline insegnate, né viene sentita l’esigenza di valorizzare l’autorganizzazione collettiva, o la promozione di valori cooperativi, ecologici, antiautoritari (fondamentali per la coesistenza democratica), ma ci si accontenta di citare tra parentesi generiche affermazioni di democrazia, giustizia e uguaglianza.
In questo quadro, è evidente che all’Istruzione è assegnato il raggiungimento di nuovi obiettivi nell’ottica della riproduzione di un certo profilo di lavoratore adatto alle mutate esigenze economiche. Nel fordismo postbellico, infatti, la funzione della scuola era quella di produrre e trasmettere i saperi di base per poi specificarli, all’interno di percorsi diversificati (liceali/professionali), coerenti con la polarizzazione sociale dei saperi stessi, anticamera della separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Nell’era del capitalismo cognitivo, invece,
la messa in discussione della tendenza alla polarizzazione dei saperi va di pari passo, a livello macro economico, con la crescita di quella parte del capitale detta immateriale (sanità, educazione, ricerca, ecc.) che oltrepassa oramai quella del capitale materiale. Insomma, la fonte della ricchezza delle nazioni si trova sempre più a monte della sfera del lavoro salariato e dell’universo mercantile, principalmente nel sistema di formazione e di ricerca. [In tale contesto] […] i tempi lunghi della formazione e dell’apprendimento, necessari a una capacità competitiva fondata sull’innovazione e sul coinvolgimento reale dei lavoratori, sono spesso sacrificati al profitto di breve periodo della flessibilità reattiva alle mutazioni della domanda e di una visione che fa dell’impiego la sola variabile di aggiustamento che permette di far apparire dei risultati finanziari immediatamente visibili. Il controllo attraverso l’obbligo di risultati si sostituisce al controllo attraverso la prescrizione dei mezzi e delle procedure6.
In quest’ottica, e come d’altronde emerge dal basso profilo delle competenze chiave individuate dal Parlamento europeo, per coloro che occuperanno i posti dirigenziali (20-25%) in questa società, il livello di preparazione conseguito negli attuali sistemi scolastici è già obsoleto, mentre per quel 40-50% che sarà impiegato in posti a livello di qualificazione molto bassa, quello stesso sapere, risulterà superfluo7. Ecco allora che l’esigenza di tagliare risorse all’attuale sistema d’istruzione pubblica e la volontà di trasformare il docente in un facilitatore (altrimenti detto tutor) risulta coerente con il proposito di mantenere tale forbice sociale, così da predisporre i primi a un sapere specialistico acquistabile altrove e da privare i secondi di quelle conoscenze utili all’uomo, ma non al lavoratore flessibile/precario della nuova economia8. Il cambiamento in questa direzione è stato avviato in Italia a partire dalla legge sull’autonomia del 19979, anche se in realtà era già dalla fine degli anni Ottanta che la classe politica pensava a come raggiungere i traguardi suggeriti dalla Tavola Rotonda Europea degli industriali (ERT). Quest’ultima, infatti, sin dal 1989 faceva presente, in particolar modo alla Comunità Europea, che era necessario moltiplicare i partenariati tra le scuole e le imprese invitando gli industriali a prendere parte attiva allo sforzo educativo e gli Stati a muoversi verso un rinnovamento accelerato dei sistemi d’insegnamento e dei loro programmi10. Il passaggio dalla teoria alla pratica è stato breve: nel 1992, con il trattato di Maastricht, l’Unione europea inizia a occuparsi di scuola e il rapporto tra ciò che ERT dice e ciò che l’Europa fa è piuttosto stretto.
La responsabilità della formazione deve, in definitiva, essere assunta dall’industria. Sembra che nel mondo della scuola non si percepisca chiaramente quale sia il profilo dei collaboratori di cui l’industria ha bisogno. L’istruzione deve essere considerata come un servizio reso al mondo economico. I governi nazionali dovrebbero vedere l’istruzione come un processo esteso dalla culla fino alla tomba. Istruzione significa apprendere, non ricevere un insegnamento [ERT, 1995]11. Non abbiamo tempo da perdere. [...] Ci appelliamo ai governi perché diano all’educazione un’alta priorità, perché invitino l’industria al tavolo di discussione sulle materie educative, e perché rivoluzionino i metodi d’insegnamento con la tecnologia» [ERT, 1997]12.
Nello stesso anno la Commissione europea pubblica il Libro bianco sull’Istruzione nel quale tra le altre cose si può leggere:
IV Le vie del futuro. Il problema cruciale dell’impiego, in una società in continua trasformazione, spinge inevitabilmente i sistemi di educazione e di formazione a modificarsi. È importante mettere al centro delle nostre preoccupazioni la pianificazione di una formazione adatta alle prospettive di lavoro e impiego. La necessità di un tale sviluppo è condivisa ormai da tutti e la migliore prova di ciò è la fine delle grandi dispute ideologiche sulle finalità dell’educazione. La questione centrale è di andare verso una maggiore flessibilità dell’educazione e della formazione, permettendo di tenere conto delle diversità delle richieste delle persone. […] Questo sforzo di adattamento si è concentrato in particolare in tre principali direzioni: l’autonomia degli attori della formazione, la valutazione dell’efficacia dell’educazione e la priorità riconosciuta alle persone in difficoltà13.
Il documento continua sostenendo l’esigenza che i sistemi di educazione tradizionali si rendano più flessibili per adattasi alle mutazioni del mercato del lavoro e alle richieste di una società dell’«apprendimento continuo» (traduzione letterale di «learning society» rispetto alla più diffusa «società della conoscenza»). Invita inoltre le istituzioni educative ad adeguarsi alla certificazione dei propri risultati, in modo da rendere paragonabili gli esiti della formazione e abbandonare le pretese di strutturare i propri percorsi d’istruzione secondo una logica, quella degli esami e dei diplomi, ritenuta troppo rigida rispetto alle esigenze attuali. In sostanza il dibattito sulle finalità dell’educazione sarebbe venuto meno in quanto le imprese avrebbero riconosciuto l’esigenza di un’istruzione diffusa, ma adeguata alle competenze minime richieste per adattarsi alle sue esigenze. Ciò implicherebbe, quindi, di conseguenza, un adattamento acritico dei sistemi di istruzione europei a queste nuove esigenze. A ben vedere, dunque, non possiamo considerare le riforme della scuola attuate da metà degli anni Novanta ad oggi come tentativi di uscire da una supposta crisi educativa, bensì esse vanno interpretate come mezzi per realizzare un nuovo modello di società, basato su un nuovo rapporto tra educazione, lavoro e cittadinanza. Alla luce di tutto ciò, si può legittimamente ritenere che si tratti di azioni legislative che producono, piuttosto che correggere, la crisi educativa, accentuando il decadimento dei livelli di istruzione e la frammentarietà dei processi educativi. In sostanza, quello che viene proposto all’interno della scuola è il dispiegarsi di un modello sociale non lontano da quello che Deleuze, già nel 1990, definiva società del controllo, ovvero una società in cui (a differenza dei sistemi disciplinari del XIX secolo dove si era inseriti, in modo quasi ininterrotto, all’interno di istituzioni totalizzanti quali scuola, ospedale, esercito, fabbrica, carcere, ecc.) non si termina mai nulla, non si possiede mai un’identità definita (non più firma, ma password), non si è mai pienamente dentro o fuori l’istituzione. Il controllo, infatti, è una modulazione che si modifica continuamente [ciò implica che il processo di soggettivazione, cioè la costruzione delle identità individuali di cui la scuola - istituzione diciplinare - è uno dei tasselli principali, non sia più il fine della scuola: la scuola non dovrà più formare, ma informare. N.d.R.: nota della prof.]. Ciò appare evidente, per quanto riguarda l’Italia, se consideriamo non solo l’effetto dei tagli all’istruzione pubblica nell’equilibrio con la scuola privata, ma anche, per esempio, l’introduzione strumentale di sistemi per la valutazione del merito all’interno del sistema scolastico. Come si vedrà nel paragrafo 3, questi strumenti si configurano come veri e propri dispositivi panoptici14, che insieme a controllare i saperi, producono un disciplinamento degli studenti e dei docenti funzionale agli obiettivi esplicitati nei succitati documenti dell’ERT.
Senza dubbio già la fabbrica conosceva il sistema dei premi, ma l’impresa si sforza più profondamente di imporre una modulazione di ogni salario, in stati di meta-stabilità che passano attraverso sfide, concorsi e colloqui […]. Il principio modulatore del “salario al merito” non manca di tentare anche la stessa Educazione nazionale: in effetti come l’impresa rimpiazza la fabbrica, la formazione permanente tende a rimpiazzare la scuola e il controllo continuo a prendere il posto dell’esame. Questo è il sistema più sicuro per legare la scuola all’impresa. Nelle società disciplinari non si finiva mai di ricominciare (dalla scuola alla caserma, dalla caserma alla fabbrica), mentre nelle società del controllo non si è mai finito con nulla, in quanto l’impresa, la formazione, il servizio sono gli stati metastabili e coesistenti di una stessa modulazione, come di un deformatore universale15.

2. La riforma epocale dell’Istruzione in Italia,

di Matteo Vescovi
Il modello di scuola che vediamo realizzarsi sotto i nostri occhi non è quindi il frutto di interessi contingenti (la crisi economica, la lobby di Comunione e Liberazione, o altro), ma è stato a lungo preparato e richiesto da diversi soggetti politico-imprenditoriali, non solo italiani. Come abbiamo già detto è a partire dalla legge sulla autonomia scolastica che si risponde all’appello che viene dall’ERT e dall’Europa. Da quella legge, nonostante il progetto del Ministro Berlinguer non sia arrivato a conclusione, la scuola cambia la sua funzione e il suo linguaggio: il preside diventa dirigente, gli studenti diventano utenti e i docenti, pur mantenendo integro il proprio statuto giuridico, divengono lo strumento per far sviluppare una cultura del lavoro intesa «come disponibilità, nel corso della propria vita, a cambiare sovente attività lavorativa»16.
A sottolineare la portata simbolica di suddetto cambiamento, contribuisce un progetto di legge (3414/97) presentato da un gruppo di parlamentari, tra cui Berlusconi, due giorni prima dell’approvazione della legge 59/97; in esso, oltre ad affermare che per migliorare la qualità dell’insegnamento è necessaria «la competizione fra una pluralità di offerte» e «la mobilitazione del privato affinché investa nel sistema di istruzione e di formazione nazionale», si propone l’istituzione di un Sistema nazionale di valutazione (costituito dal Ministro Berlinguer nel 1999), perché rilevi «la produttività del servizio pubblico» al fine di «conciliare il principio delle opportunità educative con le strutture del mercato ridefinendo tutto il servizio pubblico»17. Intenzioni di questo genere vengono sempre promosse argomentando che tale cambiamento di direzione sia necessario al fine di integrare con più facilità gli individui nel mondo del lavoro (funzione manifesta) e che questo non sia, per l’istruzione, un aspetto negativo. Se, però, pensiamo anche solo ai documenti succitati prodotti dall’ERT, dal Parlamento europeo e dai nostri governi in merito all’educazione, allora ci rendiamo conto che la funzione latente attribuita alla scuola è in realtà un’altra ben più complessa: imporre cambiamenti sociali strutturali attraverso il cambiamento del sistema educativo. Tale ambiguità di funzione è resa possibile anche attraverso l’uso di un lessico generico alla cui definizione, chi lo utilizza nelle sedi ufficiali, non procede mai. Infatti, la stessa indeterminatezza che abbiamo visto nell’uso del concetto di competenza, compare parimenti nell’utilizzo di quello del sapere. Nei regolamenti della riforma Gelmini, ad esempio, colpisce come tale lemma, sempre declinato al plurale, sia affiancato, per quanto riguarda gli istituti professionali e tecnici, a quello di competenze e finalizzato al «rapido inserimento nel mondo del lavoro», mentre, assai gentilianamente, solo per il liceo classico esso venga affiancato da derivati dell’aggettivo «critico» e disgiunto da qualsiasi utilità contingente.
L’identità degli istituti tecnici si caratterizza per una solida base culturale di carattere scientifico e tecnologico in linea con le indicazioni dell’Unione europea […] con l’obiettivo di far acquisire agli studenti, in relazione all’esercizio di professioni tecniche, i saperi e le competenze necessari per un rapido inserimento nel mondo del lavoro, per l’accesso all’università e all’istruzione e formazione tecnica superiore. […] Il percorso del liceo classico [...] favorisce l’acquisizione dei metodi propri degli studi classici e umanistici, all’interno di un quadro culturale che, riservando attenzione anche alle scienze matematiche, fisiche e naturali, consente di cogliere le intersezioni fra i saperi e di elaborare una visione critica della realtà. […] Gli studenti, a conclusione del percorso di studio, oltre a raggiungere i risultati di apprendimento comuni, dovranno: [...] saper riflettere criticamente sulle forme del sapere e sulle reciproche relazioni e saper collocare il pensiero scientifico anche all’interno di una dimensione umanistica18.
Visto che non «può esistere insegnamento e apprendimento senza che ci si riferisca a un sapere, inteso come oggetti di conoscenza previsti e controllati a livello istituzionale (materie di studio, esami, voti…)»19, diventa dunque necessario soffermarci sulle caratteristiche di questo sapere e su quali funzioni si debba attribuire all’istituzione che ha il compito di trasmetterlo/costruirlo. Come ricordava anche Marcello Cini20, Robert K. Merton individuava, a fondamento dell’etica della scienza, quattro imperativi: l’universalismo, il comunitarismo, il disinteresse e il dubbio sistematico. Premesso che per universalismo non si deve intendere l’oggettività21 del sapere in senso astratto e positivista ma, al contrario, la ricerca di quei significati e quei valori socialmente riconosciuti (e perciò, in questo senso, universali) che permettano la riformulazione dall’oggettività di cui sopra all’intersoggettività, possiamo parimenti estendere tali caratteristiche al sapere come complesso delle conoscenze e attitudini acquisite dall’individuo nel suo percorso educativo. Infatti,
il dubbio sistematico e l’indipendenza intellettuale sono necessari per evitare l’accettazione di rivendicazioni di conoscenza basate sulla fede o sull’autorità. Infine, anche il comunitarismo (cioè l’obbligo morale, per ogni scienziato, di render pubblica ogni sua scoperta per farla conoscere ai suoi colleghi) e il disinteresse (cioè la spinta morale ad anteporre gli interessi del progresso della scienza ai propri interessi individuali) sono indispensabili per garantire che ogni nuova rivendicazione di conoscenza venga esaminata criticamente […]22.
Alla luce di quanto appena detto, appare allora evidente che i principi di Merton, spogliati della loro specificità, sono alla base di ciò che, più comunemente, viene chiamato sapere critico e sottendono a quella concezione ampia di educazione che la nostra Costituzione specifica nel già citato art. 3. La scuola, cioè, dovrebbe educare alla collaborazione tra pari, al bene comune e, infine, al dubbio sistematico e all’indipendenza individuale. Per realizzare questi alti obiettivi di cittadinanza i costituenti hanno assegnato al corpo docenti una grande responsabilità quando gli hanno riconosciuto con l’art. 33 la massima libertà d’insegnamento. Il principio guida conservato nella nostra carta costituzionale, infatti, riconosce che solo attraverso la libertà di chi insegna si può apprendere la libertà e l’autonomia di giudizio. Questo principio costituzionale ha trovato la sua realizzazione solo nel 1974 con la legge che istituiva gli organi collegiali (Collegi docenti, consigli di classe, eccetera) dove agli insegnanti è stata riconosciuta una autonomia di governo simile a quella accordata alla magistratura. Allo stesso tempo la Repubblica con l’art. 34 si è impegnata a rendere effettivo il diritto allo studio di tutti i suoi futuri cittadini, obbligandosi a costruire scuole di ogni ordine e grado, e non limitandosi ad una semplice funzione sussidiaria. Solo una scuola che garantisca a tutti le condizioni necessarie per raggiungere gli obiettivi di cittadinanza che ci si è posti come fondamento del proprio sistema educativo, può sperare che i principi affermati abbiano una qualche speranza di essere realizzati23.
Già oggi, dunque, la scuola italiana, nata dalla costituzione democratica e antifascista, si può ritenere pensata all’interno del concetto di bene comune24. Essa, infatti, è una istituzione protetta da forme di governo esterno e improntata ad una logica della massima condivisione delle decisioni e della massima fruibilità dei soggetti appartenenti alla comunità nazionale. Una riforma scolastica degna del compito affidato alla scuola dalla Costituzione avrebbe, pertanto, il dovere di migliorare gli spazi di autogoverno e le pratiche di condivisione del processo educativo, mantenendo come compito principale del Ministero l’obiettivo dell’allargamento e del miglioramento del diritto allo studio. Obiettivi per altri versi continuamente affermati sulla carta dai governi degli ultimi venti anni, ma disattesi nei fatti. Precisamente se, come le ultime riforme sottendono, si introduce nell’istituzione scolastica la logica del mercato e i principi organizzatori delle aziende, le prerogative costituzionali tenderanno giocoforza ad essere sostituite dall’individualismo, dalla competitività e della logica dell’efficacia produttiva, ovvero dai valori dell’impresa. D’altronde sono proprio questi i valori condivisi dai due progetti di riforma di centrodestra e centrosinistra negli ultimi 4 anni.
Gli interventi per accrescere la flessibilità dell’organizzazione del servizio di istruzione e per migliorare la progressione professionale degli insegnanti considerati in questo Quaderno sono quelli per i quali esistono priorità e condizioni per un’azione tempestiva e per conseguire primi risultati, veri e visibili, in tempi non lunghi. […] Al fine di costruire prospettive di progressione retributiva legate all’impegno e al merito, è in primo luogo possibile, per le scuole che scelgano o siano oggetto di supporto valutativo nazionale secondo le modalità indicate, prevedere incentivi per il complesso degli insegnanti (e del personale) in relazione al conseguimento di obiettivi di progresso identificati sulla base della diagnosi valutativa. Il superamento della vecchia concezione del collegio docenti […] con l’assegnazione all’autoregolazione interna di tipo professionale delle competenze e dell’articolazione del lavoro, valorizza e rispetta la libertà di insegnamento, perché libera la scuola e il lavoro dell’insegnante da vincoli esterni e di tipo burocratico. […] Le valutazioni periodiche costituiscono credito professionale documentato utilizzabile ai fini della progressione di carriera e sono riportate nel portfolio personale del docente25.
È evidente, perciò, che ci troviamo di fronte ad una svolta epocale all’interno del sistema scolastico italiano, il quale si inserisce, come abbiamo visto, nella più ampia modificazione della funzione della scuola nell’intero sistema europeo e in ambito nazionale si affianca ad altrettanto importanti e diffuse modificazioni di senso e di funzione di molte istituzioni pubbliche e in generale di un riequilibrio del sistema economico del paese verso sempre più marcate divisioni sociali. Basta ricordare due dati: da un lato l’aumento dello squilibrio tra ricchi e poveri, dall’altro il processo, all’apparenza inesorabile, di deindustrializzazione del paese26. Certo non possiamo dipingere il paese come se fosse diventato l’Argentina o la Bolivia, ma non dobbiamo nasconderci che dopo venti anni di neoliberismo e di politiche europee la tendenza in atto vada in quella direzione. Ritorniamo, quindi, al tema centrale dell’articolo. Su di una cosa il Ministero dell’Istruzione va preso sul serio, quando dice che si tratta di una riforma epocale. Da molte parti le si è risposto che di epocale c’erano solo i tagli sottovalutando, invece, la funzione tattica che questi tagli avevano. La riduzione di spesa è stata invece, in tutto e per tutto, uno strumento per realizzare una riforma già preparata da tempo. Come abbiamo detto, nel 1997 i due schieramenti politici producono i primi due progetti di legge organici che di fatto contengono le linee guida dei provvedimenti attuati in questi anni. Per quanto riguarda la strategia di attuazione portata avanti dal Ministro Gelmini, è da pensare che non sia frutto del caso, ma che comporti una progettazione ben precisa ed una intenzione più o meno consapevole, perché analoga ad altri ambiti di governo, di destrutturare il sistema legale del paese. Infatti, la modalità con cui hanno lavorato i responsabili dei due ministeri dell’Economia e dell’Istruzione (per attenerci solo all’ambito della scuola) è di fatto del tutto illegittima. Oltre alle numerose sentenze avverse, il TAR del Lazio ha confermato che le due circolari del 2009 e 2010 con cui sono stati attuati i tagli erano appunto prive di alcun valore giuridico (come già era stato denunciato da tanti genitori, studenti e insegnati nei due anni di mobilitazioni). Ciononostante il MIUR ha fatto di questa noncuranza delle procedure legali il proprio stile di governo. Già la stessa modalità con la quale è stata attuata la riforma è invalida a livello costituzionale, poiché ribalta l’ordine giuridico dei provvedimenti mettendo i tagli del Ministero delle Finanze come punto imprescindibile di leggi del Parlamento e del Ministero dell’Istruzione. Ciò, anche se fosse solo il frutto della debolezza dell’attuale dicastero dell’Istruzione, risponde in ogni caso all’esperienza quindicennale di tentativi di attuazione del modello “ERT- Unione europea” che sono stati costantemente ostacolati e in buona parte fermati dalle mobilitazioni dei cittadini.
Gli anni che stiamo passando, invece, sono a tutti gli effetti comprensibili come una incisiva e per il momento riuscita «shock terapy»27 dopo la quale l’intero sistema scolastico si strutturerà all’interno del nuovo paradigma. È merito della scrittrice Canadese Naomi Klein aver portato in luce la strategia che a partire dal colpo di stato in Cile 1973 è stata ripetutamente utilizzata dai governi e dalle lobby interessate per l’applicazione del modello economico neoliberista (per quanto riguarda l’Italia essa fu applicata su larga scala dai governi cosiddetti tecnici dei primi anni Novanta). Fu lo stesso Friedman a teorizzare la necessità di sfruttare quei momenti di incertezza collettiva per imporre cambiamenti irreversibili. Secondo l’economista fondatore della scuola di Chicago «Solo una crisi reale o percepita, produce vero cambiamento»28. Da un lato, quindi, è necessario possedere modelli già elaborati del cambiamento che si vuole produrre, per poter essere pronti quando si presenterà l’occasione di una crisi, dall’altro è necessario agire velocemente per sfruttare la finestra di possibilità che si è aperta ed imporre queste trasformazioni in modo irreversibile.
A questa linea di condotta sembra essersi ispirato il governo Berlusconi appena insediato nel maggio del 2008. Da un lato, con la minaccia della crisi economica alle porte ha realizzato una «finanziaria rivoluzionaria»29 perché imponeva tagli a tutti i settori pubblici (e nello specifico 8 miliardi di euro in meno al settore dell’istruzione) per i successivi tre anni, senza che fosse possibile emendarla; dall’altra aveva presentato già il 12 maggio 2008 un progetto di legge coerente con i tentativi del 1997 e del 2003: il progetto di legge Aprea. Nei mesi successivi, in particolare dopo la riapertura dell’anno scolastico, le proteste e il diffondersi dell’informazione nell’opinione pubblica dei principali provvedimenti contenuti del PDL Aprea (ingresso dei privati nella gestione delle scuole, costruzione di un modello scolastico di tipo aziendale) hanno spinto a bloccare la discussione di questo testo in parlamento e a proseguire l’attuazione del progetto di riforma utilizzando strumenti legislativi non idonei, ma più efficaci perché non gravati dai tempi della discussione parlamentare. Così la Riforma contenuta nel PDL Aprea si sta di fatto realizzando attraverso provvedimenti del Ministero dell’Istruzione che passano attraverso decreti legislativi, circolari o addirittura note ministeriali. Tutte fonti amministrative che di per sé non potrebbero contraddire le leggi attualmente vigenti, ma che passano grazie all’inerzia collettiva, sia per la lentezza e l’inefficacia con cui i tribunali si pronunciano, sia per una abitudine diffusa nelle amministrazioni locali e anche tra i colleghi insegnanti a gestire questi processi come semplici adempimenti burocratici.
Sono talmente tante le disposizioni del Ministero dell’Istruzione che violano il senso o la lettera delle attuali norme che regolano la vita all’interno degli istituti scolastici che sarebbe assai difficile e noioso citarle una per una, si va dal mancato rispetto del numero di alunni per classe (in media le classi italiane sono costruite per accogliere 25 alunni, ma le circolari del Ministero obbligano le scuole a costituire le nuove classi a partire da 27 alunni), agli inviti alle scuole a modificare i bilanci per l’anno 2009/2010, fino alle circolari che (come già detto) hanno imposto di applicare i tagli di orario sulla base di decreti che non avevano ancora passato i necessari vagli imposti dalla normativa, né erano stati pubblicati in Gazzetta ufficiale e che quindi non erano ancora a tutti gli effetti validi.

3. Nuovi dispositivi di controllo: il caso Invalsi

di Vescovi Matteo
Questo stato emergenziale permanente è coerente con un metodo di governo che fa dell’emergenza una condizione stabile (dalla gestione dei Rom, al terremoto del L’Aquila, alla questione rifiuti in Campania e via di questo passo). Ultimo in ordine di tempo nella scuola è l’applicazione su larga scala dei test Invalsi che il Ministero ha cercato di far passare come attività obbligatoria per tutte le classi: seconda e quinta della scuola primaria, prima della scuola media e seconda delle scuole superiori. Si tratta del primo passo verso la reale applicazione di un Sistema Nazionale di Valutazione degli studenti e delle scuole, sulla base di quanto avviene nei sistemi scolastici anglosassoni. In realtà l’Istituto Invalsi esiste già dal 1999, è creatura del Ministro Berlinguer e ha vissuto con il ministero Fioroni una rivalutazione del suo ruolo grazie alla obbligatorietà di somministrare le prove prodotte da questo ente durante l’esame di terza media. Da questo punto di vista come in molte altre scelte effettuate dai Ministeri di centro sinistra si ritrova, infatti, una sostanziale continuità, che testimonia l’adesione ad un paradigma scolastico coerente con la trasformazione di cui si è discusso sopra.
Il sistema di valutazione messo in piedi dall’INVALSI si presenta come un prodotto complesso, che si avvale del confronto con analoghe esperienze di altri paesi europei ed extra-europei e si fa forza di un apparato metodologico e linguistico di carattere scientifico. Ciò che ci proponiamo di mostrare, anche se in modo sintetico, è invece il carattere arbitrario e insondabile dei fondamenti di questa istituzione e di conseguenza i rischi che comporta la sua applicazione a livello nazionale (nelle due versione di “destra” e di “sinistra”). Queste le finalità dichiarate dell’ente:
La valutazione di sistema risponde alle finalità di rendere trasparenti e accessibili all’opinione pubblica informazioni sintetiche sugli aspetti più rilevanti del sistema educativo e di offrire ai decisori politici ed istituzionali elementi oggettivi per valutare lo stato di salute del sistema di istruzione e formazione30.
Come si può notare, dunque, le parole chiave che identificano le finalità dell’Istituzione sono “trasparenza” e “oggettività”. Nel corso dell’esposizione della metodologia proposta si mettono in evidenza le due funzioni principali che un sistema di valutazione può avere sui comportamenti di chi viene valutato, ovvero funzione di «sviluppo» e «controllo». Ma si ammette fin da ora che la difficoltà maggiore sta proprio nell’individuare gli indicatori adeguati per descrivere le aree specifiche di comportamento che devono essere valutate. Non sorprende, quindi, che la lezione principale che l’INVALSI ricava dal confronto con altri sistemi di valutazione stia nella continua riformulazione di questi indicatori e quindi in sostanza nell’ammissione del carattere instabile e soggettivo del sistema, nonostante tutti gli sforzi per renderlo il più possibile aderente alla realtà. D’altro canto, non si prende atto della parzialità del sistema, ma se ne ribadiscono le finalità.
L’apparato ideologico dell’Invalsi ruota, dunque, attorno a queste quattro parole-concetto « Trasparenza », «Oggettività», «Sviluppo», «Controllo», che si articolano all’interno di un modello statistico di indagine multivariata (modello CIPP) intorno a queste quattro dimensioni «Contesto», «Input», «Processi», «Risultati». La strumentazione e le metodologie di rilevazione degli indicatori necessari a produrre la descrizione di queste quattro aree è assai complessa e tende a coprire ogni aspetto della vita scolastica (dalla somministrazione di questionari che chiedono ai ragazzi se i genitori possiedono una libreria o hanno l’antifurto, alla rilevazione della soddisfazione dell’utente per il servizio scolastico, dalla somministrazione delle prove di apprendimento, alla indagine sul campo da parte dell’Istituto in alcune scuole campione). Non è possibile in questo ambito seguire punto per punto tutte le proposte elencate (molte delle quali hanno già cominciato ad essere messe in atto in questo anno scolastico senza che ci fosse consapevolezza da parte del personale del significato di certe rilevazioni statistiche). Ci soffermiamo, invece, sull’apparato ideologico su cui si regge il modello di «valutazione oggettiva» sbandierato dall’INVALSI.
Cardine di questa impostazione è lo slittamento operato in ambito europeo del ruolo dei sistemi educativi. Una delle tre direzioni intraprese dal Quaderno bianco sull’istruzione prodotto dall’Europa nel 1995 era appunto quella dello sviluppo dei sistemi di valutazione, nell’ottica di una istruzione che deve fornire le competenze chiave per una formazione che duri lungo tutto l’arco della vita. Il concetto di «competenza» è ricorrente anche nei documenti dell’INVALSI e risulta essere un elemento centrale nell’elaborazione dei modelli di valutazione, sia per quanto riguarda l’adeguamento dell’offerta formativa delle scuole alle «competenze richieste dal mondo del lavoro», sia per la valutazione dei livelli di apprendimento raggiunti dagli studenti. È necessario, quindi, chiarire quale sia l’aggregato di significati che ruota intorno a questa parola.
L’origine del termine deriva dalla Linguistica generativa di Chomsky31 dove per competenza si intende la conoscenza inconscia da parte del parlante delle regole (formali e pragmatiche) che governano la lingua. Essa non può di fatto essere mai esperita direttamente, ma si può inferire solo grazie ai singoli atti linguistici che il soggetto produce e che Chomsky definisce con il termine di «performance». Inoltre, nell’ottica del linguista non si tratta tanto di indagare l’effettiva competenza del singolo parlante quanto, partendo dall’analisi di un ampio campione di performance linguistiche, risalire alla competenza che il «parlante ideale» di quella lingua deve avere, coerentemente agli ambiti di ricerca di una disciplina teorica come la grammatica generativa. Se la consideriamo, invece, dal punto di vista del singolo «parlante-ascoltatore», la competenza rimane di per sé una qualità che appartiene alle sfere profonde della mente e che quindi non può mai essere apprezzata direttamente. Questa formulazione, dal campo della linguistica, è stata poi rielaborata in ambito pedagogico per comprendervi altri aspetti della crescita dell’alunno nelle diverse forme della sua espressione. La duttilità di questo concetto ha consentito di collegarlo alle teorie dell’apprendimento costruttivista secondo cui esso è il prodotto di una continua interazione tra il soggetto e il contesto in cui è inserito. Ciò ha permesso di arrivare a comprendere sotto l’etichetta di competenza praticamente ogni aspetto del comportamento umano.
La competenza riguarda pertanto oltre alla sfera linguistica, quella motoria, affettiva, sociale e cognitiva e si esprime in atteggiamenti, comportamenti, azioni, parole, che i bambini manifestano autonomamente dopo averli costruiti insieme agli adulti32.
In questo modo, facendo riferimento ad ambiti comportamentali così vasti si può arrivare ad affermare che le competenze siano nello stesso tempo caratteristiche «innate» dei soggetti e l’esito di performance strettamente correlate alle sollecitazioni dei contesti in cui l’alunno si trova immerso. Per questo la competenza può essere definita come:
in un contesto dato, potenzialità o messa in atto di una prestazione che comporti l’impiego congiunto di atteggiamenti e di motivazioni, conoscenze, abilità e capacità e che sia finalizzata al raggiungimento di uno scopo33.
Come si vede la definizione è alquanto sfuggente e ciò è dovuto al fatto che si sta cercando di individuare qualcosa che si è dato per definizione come inconoscibile. Essa può emergere negli atti perfomativi dello studente, ma anche rimanere solo potenziale, se non viene sollecitata adeguatamente attraverso la messa in contesto del compito, la motivazione e soprattutto l’accettazione da parte dello studente dello scopo della prova. Se consideriamo la riflessione sulle competenze dal punto di vista della didattica e della autovalutazione dei docenti essa può avere dei risvolti positivi come elemento di stimolo per l’evoluzione delle pratiche didattiche, ma non può certamente rappresentare un punto di partenza solido per valutare dall’esterno l’efficacia dei percorsi di studio. Né, tantomeno, queste competenze possono essere ridotte alle richieste che provengono dal mondo del lavoro. Le competenze, infatti, sono per definizione un amalgama di essere (qualità innate), sapere e saper fare e sono strettamente legate al contesto in cui emergono. In sostanza possiamo dire che la parola “competenza” non esprime altro che un’ipotesi di lavoro (una premessa metafisica) del linguista, dello psicologo o del pedagogo, nella misura in cui essa sta ad indicare il campo di sviluppo di una serie di ricerche che devono portare a migliorare la nostra conoscenza dei processi mentali e di apprendimento, ma rimane in ogni caso un sostrato profondo dell’io al di là di qualunque conoscenza diretta. L’INVALSI, però, pretende di produrre «valutazioni oggettive» stabilendo attraverso i propri test le competenze acquisite dagli studenti.
L’istituto, dunque, opera un ribaltamento logico quando pretende di avvicinarsi alla conoscenza di queste competenze attraverso quesiti che producano risultati analoghi alle performance che ci si attende dagli studenti al di fuori del mondo scolastico. Inoltre, pretenderebbe di valutare questi risultati prescindendo sia dalla considerazione del lavoro effettivamente svolto dai docenti, sia dalla decontestualizzazione che in ogni caso questi test producono, in quanto ci si pone l’obiettivo di valutare capacità di adattamento al mondo esterno, quando è evidente che il contesto e la motivazione con cui i ragazzi svolgeranno le prove non possono che essere di tipo scolastico. La valutazione della didattica è un’attività complessa e delicata di cui bisognerebbe avere maggiore rispetto; è diverso, infatti, chiedere ad uno studente di interpretare un articolo di giornale o discutere con lui al bar, come sono diverse le finalità per cui un ufficio del personale valuta le capacità/competenze di un possibile dipendente, rispetto a quelle che si prefigge la scuola che lo ha formato. Anche il rapporto con i risultati ottenuti è strettamente legato alla relazione che si è instaurata tra studente, classe e docente (due sufficienze ottenute da due ragazzi della stessa classe non avranno mai lo stesso significato).
In altre parole, è legittimo all’interno del dibattito pedagogico porsi il problema, per esempio, dell’evidenza per cui spesso studenti, che hanno esiti mediocri a scuola, riescono nella vita a raggiungere buoni risultati mobilitando risorse che nell’ambito scolastico non avevano mostrato. Ma si può pretendere di valutare l’operato della scuola sulla base di questionari che dovrebbero stabilire le presunte competenze che gli alunni dovranno manifestare al di fuori del sistema scolastico? E se le competenze sono esperibili solo sulla base delle performance, le quali a loro volta sono indissolubilmente legate ad aspetti motivazionali e ai contesti in cui si producono, è legittimo pretendere di poter valutare qualcosa che si manifesterà, nel caso, al di fuori del sistema scolastico? O non è forse inevitabile che qualunque strumento di valutazione, se si pone come obiettivo quello di valutare le competenze, apprezzerà piuttosto il rapporto competenze/contesto che gli studenti hanno con questi test? Inoltre, anche ammesso che sviluppare le capacità di adattamento al mondo esterno debba rappresentare un obiettivo strategico dell’educazione, può pretendere uno strumento di valutazione di predire il futuro? Appare evidente, quindi, che valutare le competenze in questo modo significa pretendere di valutare la persona e di predire il suo futuro e, per quanto riguarda i docenti, obbligarli a modificare i propri programmi e metodologie per preparare gli studenti al superamento di tali prove.
In conclusione, potremmo dire che non si può dare né «Trasparenza», né «Oggettività» attraverso queste forme di rilevazione, al contrario e molto più semplicemente, questi strumenti rispondono ad una nuova esigenza di rendere trasparenti i comportamenti, schedandoli e classificandoli sulla base di criteri soggettivi (ovvero del soggetto “INVALSI“ e della sua ideologia) e funzionali alla veridizione dei presupposti dell’Ente stesso. Mentre, dalla necessità di salvaguardare la fiducia nei confronti delle Istituzioni di controllo, deriva la costante riformulazione dei criteri e degli indicatori. La «valutazione oggettiva» delle competenze dell’alunno si configura, quindi, come l’espressione di una nuova volontà di verità da parte dell’istituzione, sulla quale si incardina il sistema di controllo.
Sviluppo e controllo sono, infatti, le due parole-concetto che disegnano la dinamica educativa attesa dall’applicazione del sistema di valutazione34. Esse portano iscritte una visione della relazione di apprendimento di carattere comportamentista (quella del cane di Pavlov, per intenderci), per cui l’apprendimento è basato sul condizionamento dei comportamenti attraverso una stretta relazione di stimolo-risposta-rinforzo. L’intento di tutti questi sistemi di valutazione è, infatti, quello di modificare il comportamento dei valutati attraverso diversi strumenti di coercizione che vanno da sistemi di premi e punizioni dirette, ad elaborazione di classifiche e graduatorie che possono per via indiretta ripercuotersi sulla vita della scuola o del singolo docente (in sostanza questi enti si rapportano agli studenti e ai docenti come se avessero a che fare con l’addestramento di un cane). Tra gli errori sostanziali di tale impostazione vi è l’idea che esista un rapporto lineare tra l’istituzione di controllo, i comportamenti dei controllati, e i risultati di tale interazione. Si tratta, inoltre, di modelli che provengono dal mondo dell’impresa e mostrano una visione totalizzante della società, come suggeriscono alcuni degli sviluppi di queste ricerche che tendono a realizzare la «qualità totale» della scuola35. I sistemi di valutazione anglosassoni che si fondano sul concetto di accountability (cioè su di un sistema di valutazione che basa tutta la sua efficacia nella valutazione dei risultati ottenuti dagli studenti) sono quelli che hanno creduto maggiormente nelle potenzialità di questo tipo di relazione di sviluppo/controllo accettando implicitamente il modello di apprendimento pavloviano. Non deve stupire, quindi, se sono proprio essi che ci confessano quali tipi di distorsioni si vengono a creare. Riportiamo la parte conclusiva di un saggio pubblicato all’interno di un volume pensato per il personale scolastico dalla collana “Voci della scuola” e dedicato al tema della valutazione, a cui hanno collaborato insegnanti, dirigenti scolastici e direttori degli uffici scolastici provinciali. L’autrice del saggio sviluppa il suo ragionamento a partire da questa semplice domanda: i sistemi di accountability migliorano o no i risultati scolastici? Dopo aver lasciato in sospeso la risposta, elenca i possibili «effetti indesiderati» dell’applicazione di questo sistema:
Poiché il loro effetto [dei risultati dei test] immediato è la modifica degli incentivi cui le scuole sono esposte, essi agiscono su di esse in due modi principali: da una parte focalizzano l’attenzione su alcune aree curricolari, quelle delle materie oggetto di rilevazione, e all’interno di esse su determinati contenuti, e possono così spingere gli insegnanti a ridurre lo spazio dedicato ad altre materie e contenuti (curriculum narrowing), o ad insegnare direttamente agli alunni gli argomenti oggetto dei test (teaching to test), il che finisce in ultima analisi con l’alterare la relazione tra indicatore (punteggio dei test) e costrutto (la competenza che il test mira a valutare) [...], da un’altra parte, le politiche di accountability, implicando premi e punizioni, diretti o indiretti, che esercitano una forte pressione sulle scuole nell’intento di stimolarle a progredire, possono indurle a barare al gioco (cheating) o comunque a cercare di mettere in scacco il sistema di controllo con espedienti di varia natura. […] Le scuole possono rispondere in due modi, uno corretto e uno scorretto: il modo corretto è ovviamente quello di impegnarsi al massimo per migliorare l’efficacia del proprio insegnamento; il modo scorretto consiste nel cercare di attrarre gli alunni migliori e più desiderabili, di selezionare gli studenti all’ingresso o in corso d’anno, oppure nell’escludere l’incidenza del peso degli alunni “deboli” sui risultati, per esempio assegnandoli a programmi di educazione speciale o consigliando loro di rimanere assenti il giorno delle prove36.
L’elenco di questi rischi, basato su studi americani che analizzano i risultati dei propri programmi di accountability, è ciò che ragionevolmente possiamo aspettarci accadrà nelle scuole italiane nei prossimi anni, tanto più che il MIUR a guida Gelmini sembra andare proprio verso l’applicazione del modello dell’accountability e della «qualità totale» con la cosiddetta sperimentazione sul “merito” dell’inverno 2010/2011, che prevede l’utilizzo dei test INVALSI insieme ad altri indicatori quali il gradimento delle famiglie, allo scopo di costruire una gerarchia interna al corpo docenti delle scuole. In tutto ciò, sarà ancora possibile garantire da un lato la libertà d’insegnamento e dall’altro la piena realizzazione del diritto allo studio (dato che le stesse scuole saranno incoraggiate a selezionare i propri alunni)?
Bisogna precisare che l’intervento del governo rappresenta una forzatura in senso restrittivo delle impostazioni originarie dell’Istituto INVALSI, che, come abbiamo già detto, aveva impostato il suo lavoro su di un’analisi che tenesse conto del contesto educativo e che potesse quindi rendere evidente il cosiddetto «valore aggiunto» della scuola, quale indicatore di sviluppo. In ogni caso, per quanto già esposto, ci appare evidente che anche la consistenza di questo valore aggiunto sarà altrettanto arbitraria, poiché la sua rilevazione è basata sempre sull’accertamento delle competenze e sull’analisi dei «risultati attesi» dal ragazzo rispetto a quelli ottenuti37. Ancora una volta, questi dispositivi di controllo hanno l’obiettivo di individuare processi che per definizione mantengono una natura sfuggente e sono di fatto insondabili (potremo mai sapere fino a che punto i miglioramenti dei nostri studenti dipendono dai nostri sforzi e non da innumerevoli altri fattori, come del resto i loro peggioramenti?, non è offensivo calcolare il risultato atteso da un ragazzo sulla base dei suoi risultati precedenti? ma soprattutto è davvero così importante stabilirlo?). E tanto più, si preannunciano aleatori gli effetti che gli incentivi basati sull’apprezzamento di questo valore aggiunto saranno riconosciuti alle scuole o agli insegnanti. Inoltre, anche nei paesi europei in cui si è ritenuto di modificare i sistemi educativi nella direzione della valorizzazione delle competenze, pur senza optare per un sistema di accountability, cominciano ad emergere voci critiche (significativo il caso della Finlandia che da alcuni anni si vanta di raggiungere i primi posti nei Test OCSE-PISA)38 che segnalano la dequalificazione dell’educazione se essa, attraverso la sopravvalutazione di test che si basano sulla rilevazione delle competenze attraverso la metodologia del problem solving, viene spinta dai governi ad adeguare l’insegnamento alla risoluzione di problemi concreti (ovvero alla produzione di performance che permettano di valutare le competenze degli alunni), a discapito invece dello sviluppo del pensiero astratto.
Infine, è da chiedersi quale possa essere il ruolo di un ente terzo quale l’INVALSI nella valutazione di una relazione complessa come quella educativa. Se si considera la scuola come “bene comune”, si deve anche ammettere che essa per potersi governare deve salvaguardare la propria indipendenza rispetto ad istituzioni che solo apparentemente hanno finalità simili. L’idea stessa di inserire all’interno del sistema scolastico un ente che lo valuti dall’esterno, sulla base di criteri cosiddetti oggettivi, ne scardina i presupposti costituzionali, introducendo una funzione di controllo tanto più efficace quanto più si dichiara neutrale. 4.Conclusione: Decostituzionalizzazione/ Non collaborazione
La tradizione degli oppressi ci insegna che “lo stato di emergenza” in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo fatto. Avremo allora di fronte, come nostro compito, la creazione del vero stato di emergenza.
W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia
Per concludere, non vorremmo che questa riflessione rimanesse solo una elaborazione teorica, ma che indicasse a partire dall’analisi, il campo di azioni che possono mettere in discussione la realizzazione di un processo che trova alleati in tanti luoghi e tra molti colleghi. Se, come abbiamo già evidenziato, la trasformazione passa attraverso la costruzione di uno stato di emergenza che si permette di scavalcare gli strumenti legislativi a cui si dovrebbe attenere l’azione di governo (si tratta di un processo che è stato definito di decostituzionalizzazione39, e che si realizza attraverso quella che la Klein ha definito shock terapy). Se, in ogni caso, questi provvedimenti trovano applicazione grazie al fatto che si presentano a chi deve applicarli con la forza della legge, anche se leggi non sono, ciò che li fa apparire inarrestabili non è altro che l’effetto della superficiale accettazione con cui vengono vissuti. D’altro canto, questo modo di governare mostra la sua debolezza proprio nell’impossibilità di applicarsi secondo gli iter legislativi corretti ed ogni provvedimento porta dentro di sé numerose falle. Quella a cui stiamo assistendo è, dunque, un’ascesa arrestabilissima, a patto però di assumersi la responsabilità di non dare atto ad alcuna delle disposizioni che vanno in questa direzione e che non si è obbligati a svolgere. Una mobilitazione che può rivendicare con forza la propria indisponibilità a collaborare con questo progetto di dequalificazione e controllo dell’educazione e che può vantare illustri maestri al suo fianco, non ultimo il Gandhi della «non collaborazione».

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