La chiusura del vertice europeo di Bruxelles del 28-29 giugno è stata salutata dalla stampa europea, e in particolare da quella italiana, come una svolta. La conferenza stampa finale ribadiva il cambiamento. Ma siamo certi che sia proprio così?
Due erano i principali punti all’ordine del giorno. Il primo doveva trattare delle situazioni nazionali che vivevano una particolare situazione di crisi, soprattutto nell’ambito del mercato del credito. I riflettori erano puntati su Grecia, Spagna e Cipro. Con riferimento alla Grecia, si trattava di dare una risposta alla richiesta del nuovo governo ellenico, pressato da una crescente opposizione politica, di diluire nel tempo il piano, ancora di lacrime e sangue, di rientro del debito pubblico, in un contesto, comunque, in cui il commissariamento europeo, ledendo la sovranità greca sul solo lato della spesa, garantiva il reperimento della liquidità necessaria al pagamento degli interessi (da usura) alle banche creditrici di Germania e Francia. Ebbene, molto semplicemente tale richiesta non è stata nemmeno presa in considerazione. Si è preferito soffermarsi, invece, sul problema della sostenibilità finanziaria delle banche cipriote e spagnole. Al riguardo, con particolare riferimento alle banche spagnole (declassate più volte dalle agenzie di rating), oltre a confermare l’intervento dell’ammontare di circa 62 miliardi di euro deciso nelle settimane scorse sotto il patrocinio della BCE, si è provveduto a garantire e a definire il processo di ricapitalizzazione di alcune banche, anche attingendo al Fondo Salva Stati (come già dichiarato dal governatore Draghi). Questo aspetto è legato a una delle richieste che da più parti è stata sollevata negli ultimi giorni: quella di procedere a una unione bancaria europea.
L’idea è tanto semplice quanto perversa. Poiché, dopo 20 anni, ci si è resi conto che la sola Unione Monetaria non era sufficiente a fare da scudo alle pressioni speculative (nonostante quanto dichiarato più volte), allora si propone (sempre negli ambiti dell’oligarchia finanziaria) che un maggior coordinamento bancario a livello europeo possa costituire una sorta di scudo in grado di prevenire comportamenti opportunistici e speculativi. Di fatto, come ai tempi di Maastricht, lo scopo è quello di rinsaldare la struttura della governance finanziaria, oggi perno su cui ruota il processo di valorizzazione capitalistica. Tale strategia viene giustificata con l’argomentazione, tipicamente neo-liberista, che è il “mercato” come entità metafisica a volerlo. Nella realtà sappiamo bene che si tratta dell’ennesimo tentativo ribadire la forza dei dispositivi dominanti, nella stretta della crisi. Errare humanum est, perseverare diabolicum.
Il secondo punto dell’ordine del giorno riguardava invece la definizione di una strategia comune europea a breve termine per favorire la fuoriuscita dalla crisi. Oramai ci si è completamente dimenticati delle origini della crisi del debito pubblico europeo. Nessuno menziona più che gli stati si sono indebitati per tamponare i buchi di bilancio di quelle istituzioni finanziarie di medie dimensioni (che non facevano parte del gotha finanziario) causati dallo scoppio della crisi dei sub-prime del 2007-2008. La situazione di crisi in Europa è poi peggiorata perché l’adozione di politiche recessive ha favorito il perdurare di situazioni di debito (e nel debito, la speculazione sguazza), coniugando indebitamento pubblico a quello privato (anche laddove la crisi economica non aveva particolarmente colpito il sistema finanziario, come nel caso dell’Italia). L’attendismo e le politiche opportunistiche di un Europa, sotto il cappio sì di una unione monetaria che non consentiva politiche di espansione di liquidità, ma segnata dal nazionalismo fiscale, hanno fatto il resto. Se l’unione monetaria europea ha portato vantaggio alla politica economica della Germania, soprattutto a partire dalla riunificazione, la non esistenza di una politica fiscale comune ha fatto da tappo o meglio è stata la scusa principale perché non si potesse discutere una seria politica anti-speculativa.
Gli ultimi sei mesi sono al riguardo esemplificativi. A febbraio, si è raggiunto l’accordo per la rinegoziazione del debito greco, dopo che la Bce ha garantito l’iniezione di due tranche di liquidità di più di 1000 miliardi a favore delle banche per compensare le perdite del default controllato della Grecia e dopo che a fine gennaio è stato approvato il Fiscal Compact per imporre vincoli ancor più stringenti alla gestione dei debiti pubblici nazionali, sotto l’egida tedesca. Ad aprile, entra in sofferenza il debito pubblico e il sistema creditizio spagnolo, oggetto di particolare pressione speculativa al pari dell’Italia. La BCE decide allora di devolvere parte del Fondo Salva Stati, che si era nel frattempo costituito con riluttanza tedesca, per finanziare direttamente la ricapitalizzazione delle banche in difficoltà. Si noti che si tratta di denaro pubblico direttamente concesso, senza alcuna garanzia sull’uso e gratuitamente, a mani private: provvedimento salutato immediatamente come salvifico anche dai più sfrenati liberisti. Ma tutto ciò non è bastato e non basta: le medicine prescritte svolgono solo il ruolo di un pietoso pannicello caldo. Nel frattempo, le previsioni congiunturali peggiorano e non può essere altrimenti in presenza di una, questa sì, unica politica economica europea: quella dell’austerity “lacrime e sangue”. La speculazione al ribasso per lucrare sui derivati non può che goderne, soprattutto se lo smantellamento dello stato sociale incrementa ulteriormente il processo di finanziarizzazione privata della vita. A fronte di questa situazione, ecco allora che comincia a diffondersi il mantra della “crescita”, parola magica, che ricorre in ogni documento europeo e nazionale, favorito anche dal cambio di maggioranza politica in alcuni paesi europei e regioni (Francia e Westfalia, ad esempio). In Italia, per crescita si intende ulteriore precarizzazione del lavoro (legge Fornero), incentivi all’edilizia (!!!) e alle imprese, quando sarebbe stato sicuramente più produttivo rendere più equa la distribuzione del reddito e favorire la stabilità del lavoro. In questo quadro, ecco allora sortire dal cappello a cilindro una nuova stregoneria. Il Fondo Salva Stati, di fronte al perdurare della speculazione al ribasso sui titoli pubblici, può essere utilizzato per l’acquisto di titoli di stato di nuova emissione, laddove lo spread supera un determinato livello. Di fatto significa autorizzare quelle che in politica monetaria si chiamano “operazioni di mercato aperto”, ovvero il loro acquisto con moneta di nuova creazione. In questo caso, si tratterebbe di un’operazione spuria, dal momento che il Fondo Salva Stati è solo parzialmente finanziato dalla BCE. Ed è questo il punto che rende dubbiosa la Germania. Non solo la signora Merkel teme che ciò significhi abbassare la guardia sui paesi indebitati, che troverebbero in tale strumento un escamotage per allentare le politiche di austerity, ma potrebbe preludere alla futura emissione di Eurobond. I dubbi della Germania sugli Eurobond derivano dal fatto che una loro emissione richiede, a ragione, una politica fiscale comune. Godendo di una rendita da posizione dominante sulle esportazioni europee e quindi sulle possibilità di crescita, al fine di mantenere intatto la sua egemonia economica sugli altri paesi europei, la Germania subordina la possibile emissione di Eurobond alla costituzione di vera e propria unione fiscale europea. Si tratta di una prospettiva sicuramente non negativa, perché andrebbe a colmare quella lacuna nel processo costituente europeo che volutamente era stata tralasciata negli anni di Maastricht per imporre la logica dominante del monetarismo e del neoliberismo, la logica del comando del capitale sul lavoro. La costituzione di una politica fiscale unica europea richiede una road map che non può essere immediata: nella migliore delle ipotesi, richiede un periodo di 4-5 anni (come fu per il Trattato di Maastricht). L’idea di Unione Fiscale europea per la Germania non rimanda però all’idea di una politica economica discrezionale con valenza anticongiunturale e espansiva, liberamente proposta e democraticamente discussa in sede di maggioranza parlamentare. L’idea tedesca di politica fiscale europea è quella che ha i suoi prodromi nel Fiscal compact recentemente approvato: deve essere il risultato del riconoscimento dell’egemonia fiscale e di bilancio della Germania fondata sull’assioma del rigore, con gli obiettivi addirittura fissati in sede costituzionale (pareggio di bilancio) e quindi non discutibili ex post. Si tratta di un processo costituente che per alcuni versi ricorda, mutatis mutandis, l’imposizione – all’epoca fortemente voluta dalla stessa Germania – dell’art. 105 del Trattato di Maastricht che definiva nel 1992 in modo inequivocabile e assoluto i compiti della Bce: il solo controllo del tasso d’inflazione.
L’indomani del summit europeo, nell’euforia del supposto cambio di rotta riscontrabile nella maggior parte dei commenti da parte della stampa e del pensiero economico-politico mainstream, non si evidenzia abbastanza il punto che in conferenza stampa la signora Merket ha sottolineato come il più importante, ovvero che la possibilità di un eventuale intervento del cosiddetto “scudo anti spread” potrà essere concesso solo dopo che una commissione della troika europea avrà visionato la richiesta e avrà avuto il benestare della Germania. In altri termini, sarà la stessa Germania (che nella Troika economica è quella che detta legge) a deciderne l’attuazione. Il tutto sarà deciso nella riunione “tecnica” del 9 luglio, dove, lontano dai riflettori mediatici, si sancirà il diktat tedesco in materia fiscale. Occorre sottolineare che su questo punto, c’è piena convergenza anche degli altri leader europei, in primo luogo di Monti. Di fatto, l’egemonia tedesca in politica fiscale è già in atto.
Il mantenimento dell’euro è quindi affidato alla rigorosità dell’assolutismo economico in materia fiscale. Nulla di nuovo dunque, se non che il livello di governance si è spostato più in alto e ed è evidentemente gestito in modo totalitario. Un ennesimo tassello di quella poca democrazia formale ancora rimasta sta sparendo, esattamente come era successo con l’imposizione della moneta unica.
La storia tende quindi a ripetersi. Ma dalla tragedia, stiamo sempre più scivolando nella farsa.
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