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domenica 25 novembre 2012

I COSTI PUBBLICI DELLA SCUOLA DI TUTTI E QUELLI DELLA SCUOLA PRIVATA




Sono passati dodici anni dalla legge 62/2000, voluta dall’allora premier Massimo D’Alema e dal ministro dell’istruzione Luigi Berlinguer. Con quel provvedimento clericale, le scuole private – a maggioranza cattoliche – ottennero la parità scolastica ed entrarono a far parte di un unico sistema di “scuola pubblica”. E cominciarono immediatamente a spacciarsi per “scuola pubblica”, minimizzando il fatto che chi si iscrive deve aderire al loro “progetto educativo” (quasi sempre cattolicista) e occultando pressoché completamente la propria natura privata.
Di pubblico, nella loro attività, ci sono quasi soltanto i cospicui contributi che ricevono. Contributi che gravano su tutta la comunità, ma che sono destinati a finanziare progetti di parte. Ciononostante, con sempre maggior frequenza i sostenitori delle scuole private si lamentano che tali fondi non bastano, e che bisogna aumentarli. L’aumento che chiedono deve per di più essere consistente, perché l’amministrazione pubblica “ha tanto da risparmiare, finanziando le scuole cattoliche”. E diffondono inchieste che sosterrebbero tale tesi.
Ma è tutto oro quello che luccica?
Finanziare la scuola privata è un risparmio per l’amministrazione pubblica?
In prima fila a sostenere la tesi del risparmio c’è il movimento ecclesiale di Comunione e Liberazione. In Lombardia, dove negli ultimi vent’anni si è fatto regime, in nome della sussidiarietà ha applicato estesamente il “dogma” del sostegno economico alle scuole private. E proprio sul sito ciellino del Sussidiario, a febbraio, è stata quantificata in sei miliardi la somma che lo Stato risparmia ogni anno devolvendo circa seicento milioni alle scuole private. La stima era stata effettuata da Maria Grazia Colombo, presidente dell’Agesc (Associazione GEnitori Scuole Cattoliche), secondo la quale “lo Stato per ogni studente della scuola statale paga 5.200 euro l’anno contro i 530 euro per ogni studente della scuola paritaria”.
Tale stima saltava fuori proprio nel momento in cui il governo cominciava a minacciare (assai blandamente, come poi si è visto) di imporre l’Imu anche sugli immobili di proprietà ecclesiastica utilizzati per impartire l’istruzione cattolica a pagamento. L’Agesc però ci ha dato dentro, e il mese dopo diffondeva un dossier (prontamente enfatizzato dal sussidiato quotidiano dei vescovi Avvenire) con l’intento di confermare la veridicità delle affermazioni della sua presidente. Il dossier è stato poi aggiornato a ottobre, presentando un semplice riepilogo. Un altro dossier è stato a sua volta presentato a settembre dal sussidiato Messaggero di Sant’Antonio, come rilanciato dall’altrettanto sussidiato settimanale Tempi. Le basi di calcolo sono sempre diverse ma il totale si aggira sempre sui sei miliardi. Una cifra curiosamente simile ai Costi della Chiesa calcolati dall’Uaar.
A maggio era stato presentato su Avvenire un altro dossier ancora, questa volta circoscritto alla Regione Lombardia. Il risparmio – nel solo regno di Cielle - ammonterebbe a un miliardo e trecentomila euro. Il calcolo è stato effettuato da Giuseppe Colosio: “non un membro della Chiesa, ma il «rappresentante» del ministero dell’Istruzione in questo territorio da sempre motore del Paese”. Un rappresentante, scrive la voce dei vescovi con tono trionfalistico, che “sconfessa quanti accusano tali istituti di sottrarre risorse alla comunità civile”.
Un ragionamento sbagliato
In realtà Colosio, nominato direttore dell’ufficio scolastico dall’allora ministro dell’istruzione, la clericale Mariastella Gelmini, è tutto fuorché un uomo imparziale: insegna all’Università Cattolica e collabora attivamente con la Compagnia delle Opere. In poche parole, è solo l’ennesimo ingranaggio del kombinat clerico-imprenditoriale lombardo.
E tuttavia non è il fatto che le argomentazioni provengano soltanto da uomini di parte a inficiare la tesi del risparmio. Innanzitutto, la cifre presentate dal mondo cattolico sono incomplete, perché si limitano al solo contributo annuo statale, dimenticando quelli provenienti da altre amministrazioni pubbliche. Che, come ha mostrato l’Uaar nell’inchiesta I Costi della Chiesa, sono ingenti e superiori al contributo statale stesso: almeno ottocento milioni di euro. A questa cifra occorre poi aggiungere l’imposta sugli edifici delle scuole cattoliche che, com’è per l’appunto emerso quest’anno in seguito alle loro lamentele, gli enti ecclesiastici risolutamente non pagano: almeno altri duecento milioni. Abbiamo così una cifra inferiore di un miliardo, che si potrebbe ulteriormente ridurre se calcolassimo il risparmio che si otterebbe eliminando l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole statali: un altro miliardo e mezzo ogni anno.
Il vizio nel ragionamento cattolico sta tuttavia ancora più a monte. Perché se, per ipotesi, il contributo pubblico alle scuole paritarie cattoliche si riducesse a zero, il risparmio per lo Stato – calcolato come lo calcola il mondo cattolico – aumenterebbe ancor di più: di circa un miliardo e mezzo.
Non è infatti dimostrato che, qualora le amministrazioni pubbliche cessassero i loro munifici versamenti alle scuole paritarie cattoliche, i loro studenti tornerebbero in massa alle vere scuole pubbliche. In fin dei conti, quando alle scuole private non finiva un solo euro, tali scuole esistevano e sopravvivevano ugualmente grazie alla rette e agli sponsor privati, e da quando ci sono i contributi pubblici l’aumento degli studenti privati c’è sì stato, ma in misura limitata (+10% spalmato su sei anni) e senza intaccare il numero di studenti della scuole statali. I genitori che iscrivono i figli alle scuole cattoliche non lo fanno per ragioni di convenienza economica, viste le profumatissime rette che devono pagare (e che non risultano calate da quando esistono i sussidi pubblici), ma per preferenze educative, per avere un più rigido controllo, per garantire ai figli maggiori possibilità di promozione, per scelte legate al censo o al ceto sociale o per evitare che si “contaminino” con le idee che circolano in scuole ben più pluraliste.
Non solo: ammesso e non concesso che tali studenti tornino in massa alle vere scuole pubbliche, l’impatto sarebbe minimo. Perché gran parte dei costi pubblici sono fissi (stipendi degli insegnanti e mantenimento degli edifici) e non variabili. Qualche studente in più ripartito razionalmente non farebbe aumentare in maniera significativa i costi. Si tratta di semplici economie di scala, e la “scala” adeguata per ottenere tali economie ce l’ha soltanto la scuola statale.
Come si vede, la tesi cattolica si riduce a un concetto molto semplice: se lo Stato non investe nella scuola, risparmia. Elementare, Watson. Otterrebbe lo stesso esternalizzando tutti gli uffici pubblici in Albania, o eliminando del tutto i trasporti pubblici: tanto esistono le auto private, no? Soltanto cancellando la scuola pubblica il ragionamento tutto economicista del mondo cattolico fila. E sarebbe perfettamente coerente dal punto di vista dottrinale: era esattamente quanto voleva anche il beato Pio IX, contrario a ciò che definiva “il flagello dell’istruzione obbligatoria”.
Sostenere tesi del genere è ovviamente lecito, e i cattolici non sono gli unici a farlo: in prima fila vi sono infatti gli ultra-liberisti. I cattolici sono ultra-liberisti?
Contro la scuola privata anche molte ragioni non economiche
Curioso che ad argomentare in modo così “materiale” siano proprio i sostenitori del primato “spirituale”. Se non esistessero gli ospedali pubblici, non tutti potrebbero accedere ai servizi sanitari (come per esempio le interruzioni volontarie di gravidanza). Le discriminazioni aumenterebbero, anziché ridursi. Se ciò non accade, è proprio perché la nostra è (ancora) una democrazia. Un sistema che in Europa solo lo Stato della Città del Vaticano, che concentra tutto il potere nelle mani di una sola persona, rifiuta esplicitamente di applicare.
Lo strano argomentare cattolico non finisce qui. La Chiesa  rivendica il valore coesivo della religione, ma non si premura di spiegare quale coesione vi sarebbe in un sistema scolastico diviso in tante comunità quante sono le confessioni religiose. Si avrebbe sicuramente una coesione (forzosa) all’interno di tali ghetti identitari, ma la società esterna, più che un gruppo coeso, ricorderebbe il Libano.
La Chiesa rivendica peraltro anche il diritto alla libertà religiosa. Lo fa senza sosta, ma viene spesso il sospetto che pensi esclusivamente alla propria, di libertà. Cosa fare in quei Comuni dove, “grazie” all’applicazione del principio di sussidiarietà, l’unica scuola disponibile è una paritaria caratterizzata da un progetto educativo esplicitamente cattolico? Dove finisce, in questi casi — che, in piccoli paesi,  sono già adesso realtà — la libertà di coscienza e il tanto sbandierato diritto dei genitori all’educazione dei propri figli?
Non sono, queste, le uniche sostanziali assenze nel discorso cattolico. Un silenzio tombale è per esempio riservato alla qualità dell’insegnamento. Eppure tutti gli studi effettuati, siano essi opera di organismi internazionali (l’Ocse), realtà indipendenti (la Fondazione Agnelli) o lo stesso ministero dell’istruzione, sono convergenti: la qualità dell’insegnamento privato è scarsa, assai più scarsa di quella impartita nella scuola di tutti.
Le cause di questo spread qualitativo sono del resto note. Gli insegnanti delle scuole private sono sottopagati: anche perché viene fatta loro tintinnare, in contropartita, l’acquisizione di un punteggio utile a scalare le graduatorie pubbliche. Secondo l’Istat, una fetta consistente di tali docenti lavora in nero. Molti non hanno neppure l’abilitazione prevista dalla legge, e non sono addirittura mancate le segnalazioni circa l’utilizzo di obiettori di coscienza.
È noto inoltre come le scuole private siano spesso la soluzione di ripiego per gli studenti bocciati in quelle statali, e le classifiche dei “diplomifici” (cfr. Corriere della Sera e Messaggero) confermano come le scuole cattoliche siano “ripieghi” assai seguiti. Difficile in ogni caso non essere generosi verso clienti chi pagano rette da capogiro: non stupiscono percentuali del 100% di promossi, come al liceo privato di cui è preside la fervente cattolica Elena Ugolini, nominata sottosegretario all’Istruzione dal premier Monti.
La mancanza di inclusività della scuola privata è infine confermata anche dai numerosi esempi di diniego di accesso ai disabili, come hanno mostrato le inchieste delle Iene o, per restare sull’attuale, il caso della bambina di due anni cacciata perché sorda. Né va meglio con bambini e ragazzi stranieri, la cui presenza nella scuola paritaria è minoritaria.
La scuola di tutti ha molti limiti, ma continua a essere la scelta migliore
Sia chiaro: non stiamo difendendo gli sprechi presenti nel sistema statale. Che persistono nonostante gli interventi degli ultimi anni, forse perché si è preferito tagliare con l’accetta la didattica, anziché eliminare burocrazie e inefficienze. Tuttavia, come abbiamo mostrato, spostare fondi dalla scuola di tutti a quella privata costituisce uno spreco assai maggiore. Nonostante decenni di ministri clericali abbiano fatto di tutto per picconare l’istruzione pubblica, e nonostante i partiti (Pd in testa) sostengano ormai “tutti insieme appassionatamente” la scuola privata cattolica, quest’ultima è ancora molto lontana dal rappresentare la migliore soluzione per la maggioranza dei cittadini.
Le scuole private non potranno mai, per definizione, essere la scuola di tutti. Rappresenteranno invece sempre progetti educativi di parte: la cui esistenza è garantita dalla Costituzione, purché “senza oneri per lo Stato”. I cittadini che lo vogliono sono liberi di destinare soldi a istituti meno competitivi di quelli statali. Ma non chiedano soldi alle tasche, sempre più vuote, di tutti gli altri.
UAAR

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