by insorgenze
Una riflessione di Oreste Scalzone sul feticcio del lavoro che non sfrutta soltanto ma uccide, a partire dalle vicende Dell'Ilva di Taranto, della Fiat di Pomigliano e dell’Alcoa di Portovesme. «L'ideologia lavorista è una catastrofe che blocca la pensabilità di un possibile diverso»
di Oreste Scalzone 19 ottobre 2012
Domani, Cgil e Fiom sfileranno a Roma, con una “grande manifestazione” da piazza San Giovanni a cui – scrive il manifesto
– parteciperanno «ben 15 pullman di lavoratori che da Taranto
partiranno alla volta della capitale, raggiungendo i colleghi
metalmeccanici delle grandi aziende in crisi come l’Alcoa di Portovesme,
Fiat, Finmeccanica, sino alla Vinyls di Porto Marghera».
Lo slogan-cappello generale è sintomaticamente orrido, raccapricciante: «Il lavoro prima di tutto !» fa pensare ai più svariati lavorismi: da quello utilitarista-liberale dei classici dell’Economia politica (il capitalismo è la società “fondata sul lavoro”...), alle variazioni su tema fasciste, naziste, collaborazioniste (dal “Palazzo della Civiltà del Lavoro”, all’infinitamente sinistro infame “Arbeit macht frei”, “il lavoro rende liberi” inscritto sul frontone dell’entrata ad Auschwitz-Birkenau; al “Patrie Famille Travail”, “Patria Famiglia Lavoro”, divisa dello «Stato francese» della collaborazione pétainista); alle versioni social-democratiche, sindacalistiche, staliniste e più ingenerale dei regimi di «socialismo reale», contraffazione del comunismo «spettro aggirantesi per l’Europa», tra il ’48 e la primavera ’71 della Comune di Parigi, contraffazione statalista, tecno-economicista, fabbrichista, vera e propria controrivoluzione in abiti rivoluzionari di conio lassalliano-kautskiano...
Il feticcio del lavoro come blocco della pensabilità del possibile, anchilosi intellettuale che non riesce a pensare oltre la ‘naturalizzazione’ e ‘teizzazione’ delle forme storiche, tecno-economico-societali-politiche, della “Modernità”, viene riproposto nel modo più subalterno, con una sorta di “cupidigia di servilismo”, spasmodico desiderio mimetico.
A Taranto, questa posizione è smascherata e nuda. Girano filmati con sindacalisti Fim e Uilm che tessono in modo nauseabondo, senza neanche l’astuzia di un bemolle ipocrita, le laudi del padrone; che raccontano che l’Ilva era inquinante, ma poi...la proprietà ha fatto tanto, investito tanto...., ora è diverso, rimarrà pure qualche problema, ma sono dettagli, bazzecole, pinzillacchere...
Questi “lavoratori” che finiscono per essere (come sempre i gialli, i crumiri) degli squallidi burattini del padrone – e tanto peggio se essendosi convinti di quello che van dicendo..., rischiano di portare gli altri (e di andar loro) allo sfacelo peggiore : perdenti, obiettivamente “collaborazionisti”, e ben partiti per fare da parafulmine, schermo e ‘testa di turco’, oggetto di odio e disprezzo, maledetti da tutti...
All’ILVA, non c’è spazio per sfumature, non c’è scampo: o si impugna l’asta di una bandiera che nell’immediato coagula e sprigiona forza sulla parola d’ordine, «Chiusi gli altoforni, in libertà dal lavoro a salario pieno a tempo indeterminato!», o si destina, ci si lascia destinare, ci si fa destinare, con connivenza attiva “servo/padronale”, ad un destino che permetterà di dire di quanti avranno seguito questa deriva, l’oltretutto ridicolo, ineffettuale e velleitario, illusionistico e miserabile assieme, “pragmatismo” del’ “il lavoro prima di tutto”, quello che recita la penultima frase del Processo di Kafka: «E pensò, che soltanto la vergogna gli sarebbe sopravvissuta».
In altri termini e altri codici, “perder l’anima, per niente”, per un pugno di mosche, e neanche. Parafrasando la celebre frase di uno statista, dunque in quanto tale, Nemico, ai politicanti britannici, si potrebbe dire, «Potevate scegliere fra la capitolazione e la lotta, fra la servitù e l’indipendenza. Avete scelto la capitolazione e la dipendenza, e avrete anche la sconfitta».
Non abbiamo paura di doverci scontrare fra proletari, e con altri proletari: a Taranto è oggi chiarissimo, non c’è chi non possa vederlo, che la coppia lavorismo-statalismo, l’identificarsi come forza-lavoro, “capitale variabile” (con tutte le ideologie di sostituzione, di diversione, che ne derivano), costituisce la forma specifica, autodistruttiva, di una “controinsurrezione preventiva” nel seno stesso delle moltitudini sfruttate, oggetto di sopraffazione, di tentativo incessante di vampirizzarne la potenza, e lasciare il frutto spremuto, schiacciarlo fino all’annichilazione.
Non pensiamo sia risposta adeguata quella di una parzialissima, pallida presa d’atto della catastrofe dell’arroccamento lavorista e della velleitaria illusione di difendere status quo ante, o ritornarvi, in termini di formulazione di “pani di riorganizzazione della società”, in bilico fra mera dimostrazione alla lavagna, tacciabile al contempo di velleità di riforma della regolazione sociale, o di utopistica “pasticceria del futuro” – insomma, sempre attaccabile come “troppo o..., troppo e troppo poco”, anzi, proprio un’autocontraddizione al ribasso. Come “pieno impiego” o “Stato sociale”, o “il lavoro non si tocca”, la formula «Diritto al reddito» ci sembra far torto alla sostanza.
Il cinismo della misantropa Fornero (come spesso la sfrontatezza di certi “poterosi”) diceva il vero: non esiste, men che mai nella Costituzione, un «Diritto al lavoro», così come appare difficile pensare ad una modificazione della «costituzione materiale», e di seguito «formale», che inscriva come «diritto esigibile» il posto di lavoro, o il reddito universale incondizionato, d’esistenza. Nell’aria di guerra sociale dall’alto che, come osserva Foucault, spira dietro le concettualizzazioni vuotamente giornalistiche sulla crisi, non è per vie “cittadinistiche” o “demo-parlamentari” che il servilismo “lavorista” può essere morbo debellato, e per lo più in fretta, prima che il cavallo stramazzi e, stramazzato proprio, diventi carcassa e carogna.
Nojaltri (che non ci rassegnamo a dire che l’unica cosa che resta è un camusiano “mi rivolto, dunque sono !”, che comunque – nelle più diverse motivazioni, filiazioni, forme – è estremo ridotto che chiama rispetto), vorremmo provare a pensare e ripensare e tentar di praticare, con altri, una “filosofia pratica” che non rinunci, a dispetto di tutto, ad aver l’occhio al ‘comune’.
Momenti, percorsi, insorgenze, forme, confluenze, coalescenze, ‘aggrumazioni’, di forme di vita, di pratiche, di relazioni, di lotte, di ribellioni e rivolte, persistenti, che zampillano e vengono e rivengono..., producendosi in situazione, in modo variato, con singolarità che costituiscono contrappunto ed hanno un ‘fondo’ comune, ci sembrano la strada di una scommessa da tentare.
Se – per stare all’esempio – è una rete operaia che introduce, entrando a gamba tesa e disvelando un’evidenza occultata, ponendo in un tessuto vivo la rivendicazione elementare di “messa in libertà da lavoro a salario pieno a tempo indeterminato”, questa ‘cosa’ non è “corporativa”, non è forma di legittimismo identitario che pretende riesumare una “centralità oggettiva e soggettiva” in sé, di per sé, che abbia valenza universale.
Se, con una sorta di emulazione, di dinamica che fa leva su un precedente, un ventaglio, un caleidoscopio di lotte si sprigiona da altri strati e ‘territori esistenziali’ (uomini, donne, giovani e meno e ancor meno, precari, disoccupati, inoccupati, cassintegrati, “call-centeristi”, cassiere, “cognitari” o supersfruttati a chiamata, “fannulloni dai mille mestieri”, strati di “classes dangereuses”, & ancor’oltre, “soggettività rivoltose qualunque”...), sarà così, tra secessioni e sollevazioni, sabotaggi e sforzo di strappare e acquisire mezzi materiali di vita immediata, e anche da possibile “infrastruttura” di pratiche d’alterità..., ecco : pur senza sicumère, oltre lo stesso disincanto, i dubbi che assalgono, ma anche il sentirsi – per parafrasare Semper eadem di Samuel Beckett – «sgomenti, atterriti di amare, e non questa cosa ; di essere appassionati da ‘altro’, portati, e non da questa ‘cosa’ “, forse si può riprovare e riprovare ancora.....».
Lo slogan-cappello generale è sintomaticamente orrido, raccapricciante: «Il lavoro prima di tutto !» fa pensare ai più svariati lavorismi: da quello utilitarista-liberale dei classici dell’Economia politica (il capitalismo è la società “fondata sul lavoro”...), alle variazioni su tema fasciste, naziste, collaborazioniste (dal “Palazzo della Civiltà del Lavoro”, all’infinitamente sinistro infame “Arbeit macht frei”, “il lavoro rende liberi” inscritto sul frontone dell’entrata ad Auschwitz-Birkenau; al “Patrie Famille Travail”, “Patria Famiglia Lavoro”, divisa dello «Stato francese» della collaborazione pétainista); alle versioni social-democratiche, sindacalistiche, staliniste e più ingenerale dei regimi di «socialismo reale», contraffazione del comunismo «spettro aggirantesi per l’Europa», tra il ’48 e la primavera ’71 della Comune di Parigi, contraffazione statalista, tecno-economicista, fabbrichista, vera e propria controrivoluzione in abiti rivoluzionari di conio lassalliano-kautskiano...
Il feticcio del lavoro come blocco della pensabilità del possibile, anchilosi intellettuale che non riesce a pensare oltre la ‘naturalizzazione’ e ‘teizzazione’ delle forme storiche, tecno-economico-societali-politiche, della “Modernità”, viene riproposto nel modo più subalterno, con una sorta di “cupidigia di servilismo”, spasmodico desiderio mimetico.
A Taranto, questa posizione è smascherata e nuda. Girano filmati con sindacalisti Fim e Uilm che tessono in modo nauseabondo, senza neanche l’astuzia di un bemolle ipocrita, le laudi del padrone; che raccontano che l’Ilva era inquinante, ma poi...la proprietà ha fatto tanto, investito tanto...., ora è diverso, rimarrà pure qualche problema, ma sono dettagli, bazzecole, pinzillacchere...
Questi “lavoratori” che finiscono per essere (come sempre i gialli, i crumiri) degli squallidi burattini del padrone – e tanto peggio se essendosi convinti di quello che van dicendo..., rischiano di portare gli altri (e di andar loro) allo sfacelo peggiore : perdenti, obiettivamente “collaborazionisti”, e ben partiti per fare da parafulmine, schermo e ‘testa di turco’, oggetto di odio e disprezzo, maledetti da tutti...
All’ILVA, non c’è spazio per sfumature, non c’è scampo: o si impugna l’asta di una bandiera che nell’immediato coagula e sprigiona forza sulla parola d’ordine, «Chiusi gli altoforni, in libertà dal lavoro a salario pieno a tempo indeterminato!», o si destina, ci si lascia destinare, ci si fa destinare, con connivenza attiva “servo/padronale”, ad un destino che permetterà di dire di quanti avranno seguito questa deriva, l’oltretutto ridicolo, ineffettuale e velleitario, illusionistico e miserabile assieme, “pragmatismo” del’ “il lavoro prima di tutto”, quello che recita la penultima frase del Processo di Kafka: «E pensò, che soltanto la vergogna gli sarebbe sopravvissuta».
In altri termini e altri codici, “perder l’anima, per niente”, per un pugno di mosche, e neanche. Parafrasando la celebre frase di uno statista, dunque in quanto tale, Nemico, ai politicanti britannici, si potrebbe dire, «Potevate scegliere fra la capitolazione e la lotta, fra la servitù e l’indipendenza. Avete scelto la capitolazione e la dipendenza, e avrete anche la sconfitta».
Non abbiamo paura di doverci scontrare fra proletari, e con altri proletari: a Taranto è oggi chiarissimo, non c’è chi non possa vederlo, che la coppia lavorismo-statalismo, l’identificarsi come forza-lavoro, “capitale variabile” (con tutte le ideologie di sostituzione, di diversione, che ne derivano), costituisce la forma specifica, autodistruttiva, di una “controinsurrezione preventiva” nel seno stesso delle moltitudini sfruttate, oggetto di sopraffazione, di tentativo incessante di vampirizzarne la potenza, e lasciare il frutto spremuto, schiacciarlo fino all’annichilazione.
Non pensiamo sia risposta adeguata quella di una parzialissima, pallida presa d’atto della catastrofe dell’arroccamento lavorista e della velleitaria illusione di difendere status quo ante, o ritornarvi, in termini di formulazione di “pani di riorganizzazione della società”, in bilico fra mera dimostrazione alla lavagna, tacciabile al contempo di velleità di riforma della regolazione sociale, o di utopistica “pasticceria del futuro” – insomma, sempre attaccabile come “troppo o..., troppo e troppo poco”, anzi, proprio un’autocontraddizione al ribasso. Come “pieno impiego” o “Stato sociale”, o “il lavoro non si tocca”, la formula «Diritto al reddito» ci sembra far torto alla sostanza.
Il cinismo della misantropa Fornero (come spesso la sfrontatezza di certi “poterosi”) diceva il vero: non esiste, men che mai nella Costituzione, un «Diritto al lavoro», così come appare difficile pensare ad una modificazione della «costituzione materiale», e di seguito «formale», che inscriva come «diritto esigibile» il posto di lavoro, o il reddito universale incondizionato, d’esistenza. Nell’aria di guerra sociale dall’alto che, come osserva Foucault, spira dietro le concettualizzazioni vuotamente giornalistiche sulla crisi, non è per vie “cittadinistiche” o “demo-parlamentari” che il servilismo “lavorista” può essere morbo debellato, e per lo più in fretta, prima che il cavallo stramazzi e, stramazzato proprio, diventi carcassa e carogna.
Nojaltri (che non ci rassegnamo a dire che l’unica cosa che resta è un camusiano “mi rivolto, dunque sono !”, che comunque – nelle più diverse motivazioni, filiazioni, forme – è estremo ridotto che chiama rispetto), vorremmo provare a pensare e ripensare e tentar di praticare, con altri, una “filosofia pratica” che non rinunci, a dispetto di tutto, ad aver l’occhio al ‘comune’.
Momenti, percorsi, insorgenze, forme, confluenze, coalescenze, ‘aggrumazioni’, di forme di vita, di pratiche, di relazioni, di lotte, di ribellioni e rivolte, persistenti, che zampillano e vengono e rivengono..., producendosi in situazione, in modo variato, con singolarità che costituiscono contrappunto ed hanno un ‘fondo’ comune, ci sembrano la strada di una scommessa da tentare.
Se – per stare all’esempio – è una rete operaia che introduce, entrando a gamba tesa e disvelando un’evidenza occultata, ponendo in un tessuto vivo la rivendicazione elementare di “messa in libertà da lavoro a salario pieno a tempo indeterminato”, questa ‘cosa’ non è “corporativa”, non è forma di legittimismo identitario che pretende riesumare una “centralità oggettiva e soggettiva” in sé, di per sé, che abbia valenza universale.
Se, con una sorta di emulazione, di dinamica che fa leva su un precedente, un ventaglio, un caleidoscopio di lotte si sprigiona da altri strati e ‘territori esistenziali’ (uomini, donne, giovani e meno e ancor meno, precari, disoccupati, inoccupati, cassintegrati, “call-centeristi”, cassiere, “cognitari” o supersfruttati a chiamata, “fannulloni dai mille mestieri”, strati di “classes dangereuses”, & ancor’oltre, “soggettività rivoltose qualunque”...), sarà così, tra secessioni e sollevazioni, sabotaggi e sforzo di strappare e acquisire mezzi materiali di vita immediata, e anche da possibile “infrastruttura” di pratiche d’alterità..., ecco : pur senza sicumère, oltre lo stesso disincanto, i dubbi che assalgono, ma anche il sentirsi – per parafrasare Semper eadem di Samuel Beckett – «sgomenti, atterriti di amare, e non questa cosa ; di essere appassionati da ‘altro’, portati, e non da questa ‘cosa’ “, forse si può riprovare e riprovare ancora.....».
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