di Sergio Bologna
HSH Nordbank ha nel suo settore di business un po’ il valore simbolico che Lehman Brothers aveva nel settore dei derivati. Ci troviamo di fronte al ripetersi di un copione già conosciuto ma la grande differenza tra il 2008 ed oggi è che allora la paralisi aveva colpito il circuito immateriale e virtuale del denaro, oggi colpisce il circuito fisico delle merci, dunque potrebbe essere più spettacolare, più”visibile” e creare ostacoli alla globalizzazione più consistenti e duraturi. Come scrive un importante operatore su “Lloyd’s List”: “Questa sarà la peggiore crisi della navigazione di linea da quando, 40 anni fa, è iniziata l’epoca del container” ed aggiunge “gran parte della responsabilità ricade su quei governi che hanno concesso agevolazioni fiscali a chi investe nelle navi”.
Ma per capire le dinamiche interne di questa crisi è necessario capire il rapporto tra la nave come prodotto industriale e la nave come prodotto finanziario sullo sfondo del cosiddetto “gigantismo navale”, cioè della tendenza inarrestabile a costruire unità sempre più grandi.
Dopo la bolla immobiliare e dei mutui sub prime, la bolla dello shipping nel settore dei container. L’epicentro si è spostato da New York ad Amburgo
I fatti
17 febbraio 2012, il sito www.manager-magazin.de annuncia che il fondo chiuso d’investimento LF 16, di Amburgo, creato dalla casa di emissioni Lloyd Fond, ha dichiarato lo stato di Insolvenza[1]. LF 16 era un fondo specializzato in investimenti nel settore dello shipping, in particolare nell’acquisto di navi. Detto in parole semplici, il privato che entra a far parte di un’operazione del fondo mette a disposizione una quota di capitale necessario all’acquisto della nave presso i cantieri e confida che il valore della nave, una volta pronta ad entrare in esercizio, sia tale da poterne uscire con un guadagno, ove venduta, oppure che il prezzo al quale la nave sarà noleggiata gli consenta un profitto nel tempo. I fondi chiusi non permettono di uscire fino al termine dell’operazione e, in periodi di crisi, sono spesso costretti a chiedere agli investitori uno sforzo finanziario supplementare, per non andare a picco. “Solo nel primo trimestre del 2011 i risparmiatori hanno dovuto rifinanziare i fondi con 41,6 milioni di euro di denaro fresco”, scrive il 13 giugno 2012 la “Frankfurter Allgemeine Zeitung” (FAZ) sul suo sito www.faz.net [2]. I fondi per lo shipping sono, si può dire, una specialità tedesca e la piazza più importante è Amburgo. Rappresentano però la periferia del complesso sistema della finanza dello shipping, fanno appello alla moltitudine dei risparmiatori, grazie anche a una normativa fiscale particolarmente favorevole in Germania. Spesso i risparmiatori non sono bene informati, il settore non è regolamentato, il periodo di tempo per il quale il capitale del risparmiatore resta impegnato dura in genere 15 anni e in questo lasso di tempo i capitali non possono esser ritirati e liquidati né la partecipazione può essere negoziata, come fosse dei bond di stato. Molti, ingenui o inesperti, rimangono in trappola[3]. Se questa è la caotica periferia, il centro del sistema è formato da un ristretto gruppo di grandi banche specializzate in questo genere di business, la Royal Bank of Scotland, la LLoyd Bank, la Commerzbank, la HSH Nordbank. Quest’ultima, una banca pubblica posseduta a metà tra la città-stato di Amburgo e il Land dello Schleswig Holstein, è la più esposta di tutte, aveva avuto già grossi problemi nel 2008 ed era stata la prima banca tedesca a ricorrere all’aiuto dello stato. Da quel momento la proprietà – ovvero i partiti che governano i due Länder – si è svegliata ed ha messo sotto la lente la gestione della banca, pungolata da una campagna di stampa e dall’opposizione. Due Amministratori Delegati sono saltati, uno è sotto procedimento giudiziario. Erano stati elargiti crediti a clienti d’improbabile solvibilità e commesse una serie d’irregolarità. Nel 2009 i parlamenti dei due Länder avevano deciso tuttavia di concedere alla HSH Nordbank la possibilità di ricorrere al fondo di garanzia delle regioni (Zweitverlustgarantie) sino a un massimo di 10 miliardi di euro! L’economia marittimo-portuale è la prima fonte di reddito lassù nel Nord. Già nel 2010 e 2011 però la banca, con una situazione finanziaria e dello shipping migliorata, aveva cominciato a ripagare il debito del salvataggio[4]. Alla metà del 2012 il combinato disposto della crisi nell’eurozona, della recessione mondiale e la conseguente entrata in crisi del settore dello shipping, particolarmente violenta nel mercato dei traffici containerizzati, riporta la HSH Nordbank sull’orlo del collasso.
16 luglio 2012, la FAZ torna sull’argomento con un articolo di Christian Müßgens e Johannes Ritter, corrispondenti da Amburgo: “i prezzi di vendita di molte navi ormai sono scesi così in basso da sfiorare i valori delle navi in demolizione”[5]. Se i valori degli asset che i fondi hanno in portafoglio crollano, il fondo fallisce, il valore patrimoniale delle banche si riduce drammaticamente. A settembre si parla già di 266 fondi in difficoltà, al Forum della Hansa, che si tiene a metà novembre, gli esperti, riferisce “Handelsblatt”, prevedono che circa 500 navi non troveranno più investitori disposti a sopportarne le spese di gestione, i noli (charter rates) sono crollati[6].
Il primo dicembre la cima della piramide si fa finalmente sentire. In un’intervista concessa a “Hamburger Abendblatt”, il nuovo Amministratore Delegato della HSH Nordbank, Constantin von Oesterreich, dichiara senza mezzi termini che se non farà ricorso al fondo di garanzia dei Länder sino a una cifra di 1,3 miliardi di euro per un periodo di tempo che comprende tutto il 2025 la banca rischia di chiudere e aggiunge: “non facciamo conto che la situazione possa migliorare prima del 2014. Ma può essere anche che si vada al 2015 o al 2016”[7].
HSH Nordbank ha nel suo settore di business un po’ il valore simbolico che Lehman Brothers aveva nel settore dei derivati. Ci troviamo di fronte al ripetersi di un copione già conosciuto ma la grande differenza tra il 2008 ed oggi è che allora la paralisi aveva colpito il circuito immateriale e virtuale del denaro, oggi colpisce il circuito fisico delle merci, dunque potrebbe essere più spettacolare, più”visibile” e creare ostacoli alla globalizzazione più consistenti e duraturi. Come scrive un importante operatore su “Lloyd’s List”: “Questa sarà la peggiore crisi della navigazione di linea da quando, 40 anni fa, è iniziata l’epoca del container” ed aggiunge “gran parte della responsabilità ricade su quei governi che hanno concesso agevolazioni fiscali a chi investe nelle navi”[8].
Ma per capire le dinamiche interne di questa crisi è necessario capire il rapporto tra la nave come prodotto industriale e la nave come prodotto finanziario sullo sfondo del cosiddetto “gigantismo navale”, cioè della tendenza inarrestabile a costruire unità sempre più grandi.
La nave come prodotto industriale
E’ l’idea comune che abbiamo di una nave, uno strumento tecnologico impiegato su un mercato con un certa caratteristica di domanda e offerta, che ha determinati costi operativi e produce determinati ricavi. In termini di costi unitari una nave grande presenta dei vantaggi; dunque, secondo i manager delle compagnie, le economie di scala funzionano in questo business ed è corretta la corsa al gigantismo. Bella scoperta, se n’erano già accorti i genovesi nel Trecento! Ma il mercantilismo di allora era un po’ diverso dal capitalismo di oggi, procediamo con ordine.
Secondo la più recente edizione dello studio Drewry sui costi operativi delle navi portacontainer (ottobre 2012), questi sono passati dall’indice 100 del 2000 all’indice 170 del 2010 e dopo una breve discesa dovrebbero arrivare allo stesso livello nel 2015[9].
Si intuisce che questo dipende in massima parte dall’aumento del costo del carburante. In genere l’aumento del carburante viene scaricato sul cliente secondo il meccanismo della surcharge più famosa, il BAF (Bunker Adjustment Factor). Poiché sono in arrivo degli inasprimenti sulle normative riguardanti le emissioni ed in particolare sull’obbligo di utilizzare carburanti a basso contenuto di zolfo, sensibilmente più costosi, in determinati mari del mondo, il valore relativo di una nave oggi viene sempre più calcolato sui suoi bassi consumi di carburante. La nave, come vedremo, sempre più diventa da prodotto industriale a prodotto finanziario.
Il costo operativo di una nave portacontainer da 10 a 12.000 TEU, secondo Drewry, era di 13.420 dollari/giorno alla fine del 2011, sarà di 13.778 dollari/giorno nel 2016. Per navi da 5 a 6.000 TEU era di 9.890 dollari/giorno a fine 2011 e sarà di 10.247 nel 2016. Previsioni sui noli sono più difficili da fare. Salta agli occhi la grande differenza tra il forte aumento dei costi operativi nel periodo 2000-2008 e il modesto aumento tra il 2010 e il 2016 (se le previsioni Drewry ci azzeccano)[10].
Sull’evoluzione del mercato “industriale” dello shipping abbiamo informazioni in tempo reale che riguardano i noli, rates. Attenzione però, si tratta in genere di noli base, sono escluse le surcharges, si dovrebbe ragionare invece sempre in termini di all-in rates per capire se le compagnie riescono a coprire i costi e guadagnarci. Un periodo di noli bassi per eccesso di offerta o per calo della domanda può portare a forti perdite operative. Così è stato nel 2011 e nel primo trimestre del 2012 a causa di eccesso di offerta, nella seconda metà del 2012 a causa del calo di domanda, in particolare nell’eurozona e nel Mediterraneo[11]. In linea generale 2010, 2011 e 2012 sono stati anni di bassi profitti (più corretto sarebbe dire di risultati operativi deludenti). Se il calo della domanda non dipende dalle compagnie marittime, è invece loro intera responsabilità aver creato eccesso di offerta, cioè di aver messo in servizio troppe navi e di aver provocato in tal modo un crollo dei noli e, come se non bastasse, di aver continuato a ordinare nuove navi ai cantieri e di aver ritirato tutte quelle in consegna. Un gioco da pazzi, da “sconsiderati” come lo definisce Drewry (the foolhardiness of carrier’s strategic actions in 2011), verificatosi proprio nel 2011 ed al quale le compagnie non hanno saputo ancora reagire in maniera organica ma solo episodica. All’inizio hanno pensato di cavarsela con lo slow steaming, che, riducendo la velocità di crociera delle navi, in effetti provoca una riduzione di capacità, poi hanno cominciato a tagliare un servizio di qua, a ridurre il numero delle navi di un servizio di là, hanno mandato molta roba in disarmo o in demolizione, mentre nel mercato della domanda la recessione cominciava a mordere, soprattutto nella olive belt mediterranea, nei grandi paesi marittimo-portuali di Grecia, Italia e Spagna. Ma decisioni strategiche di lungo respiro non le hanno prese. Ed hanno continuato in questo comportamento masochista, autolesionista. Ma sono così stupidi davvero oppure c’è dietro qualcosa d’altro?
Sulla rotta Far East-Nord Europa/Mediterraneo, agli inizi di novembre 2012 erano impiegate 258 navi su 24 differenti servizi. La capacità media di queste navi è di 10.000 TEU. Cifre che darebbero ragione a chi scava, scava, scava, ma la faccenda non è così semplice. “Un servizio sulla rotta Asia-Europa richiede 12 navi di almeno 12.000 TEU ciascuna”, dichiara un dirigente CMA CGM a “Containerisation International” del 25 ottobre 2012, “ciò equivale a un investimento da 1,4 miliardi di dollari, ma per essere competitivi di servizi bisogna averne almeno tre, quindi si arriva a 4,2 miliardi.
Poi ci sono i container vuoti da assegnare alle navi, 18.000 TEU ciascuna e sono altri 400 milioni di dollari.
Cifre consistenti, risorse che possono essere fornite solo con il supporto del sistema bancario, 24 servizi che costano 1,5 miliardo e mezzo di dollari ciascuno, 36 miliardi di dollari sulla rotta Asia-Europa! Il rapporto con le banche diventa vitale. Nei rapporti con le banche le compagnie fanno valere: la quota di mercato, il valore degli asset (naviglio di proprietà), le previsioni di crescita. La quota di mercato, come argomento principe del rating bancario, spiega la folle corsa ad acquisire volumi ed a mettere in servizio capacità, offerta di stiva, a costo di praticare tariffe da dumping. La valorizzazione degli asset spiega la folle corsa all’acquisto di navi. Probabilmente si accorgono ora, di fonte all’evidenza della recessione mondiale, che questi asset possono svalutarsi rapidamente, com’è capitato alle proprietà immobiliari durante la bolla immobiliare.
Ma per capire le dinamiche interne di questa crisi è necessario capire il rapporto tra la nave come prodotto industriale e la nave come prodotto finanziario sullo sfondo del cosiddetto “gigantismo navale”, cioè della tendenza inarrestabile a costruire unità sempre più grandi.
Dopo la bolla immobiliare e dei mutui sub prime, la bolla dello shipping nel settore dei container. L’epicentro si è spostato da New York ad Amburgo
I fatti
17 febbraio 2012, il sito www.manager-magazin.de annuncia che il fondo chiuso d’investimento LF 16, di Amburgo, creato dalla casa di emissioni Lloyd Fond, ha dichiarato lo stato di Insolvenza[1]. LF 16 era un fondo specializzato in investimenti nel settore dello shipping, in particolare nell’acquisto di navi. Detto in parole semplici, il privato che entra a far parte di un’operazione del fondo mette a disposizione una quota di capitale necessario all’acquisto della nave presso i cantieri e confida che il valore della nave, una volta pronta ad entrare in esercizio, sia tale da poterne uscire con un guadagno, ove venduta, oppure che il prezzo al quale la nave sarà noleggiata gli consenta un profitto nel tempo. I fondi chiusi non permettono di uscire fino al termine dell’operazione e, in periodi di crisi, sono spesso costretti a chiedere agli investitori uno sforzo finanziario supplementare, per non andare a picco. “Solo nel primo trimestre del 2011 i risparmiatori hanno dovuto rifinanziare i fondi con 41,6 milioni di euro di denaro fresco”, scrive il 13 giugno 2012 la “Frankfurter Allgemeine Zeitung” (FAZ) sul suo sito www.faz.net [2]. I fondi per lo shipping sono, si può dire, una specialità tedesca e la piazza più importante è Amburgo. Rappresentano però la periferia del complesso sistema della finanza dello shipping, fanno appello alla moltitudine dei risparmiatori, grazie anche a una normativa fiscale particolarmente favorevole in Germania. Spesso i risparmiatori non sono bene informati, il settore non è regolamentato, il periodo di tempo per il quale il capitale del risparmiatore resta impegnato dura in genere 15 anni e in questo lasso di tempo i capitali non possono esser ritirati e liquidati né la partecipazione può essere negoziata, come fosse dei bond di stato. Molti, ingenui o inesperti, rimangono in trappola[3]. Se questa è la caotica periferia, il centro del sistema è formato da un ristretto gruppo di grandi banche specializzate in questo genere di business, la Royal Bank of Scotland, la LLoyd Bank, la Commerzbank, la HSH Nordbank. Quest’ultima, una banca pubblica posseduta a metà tra la città-stato di Amburgo e il Land dello Schleswig Holstein, è la più esposta di tutte, aveva avuto già grossi problemi nel 2008 ed era stata la prima banca tedesca a ricorrere all’aiuto dello stato. Da quel momento la proprietà – ovvero i partiti che governano i due Länder – si è svegliata ed ha messo sotto la lente la gestione della banca, pungolata da una campagna di stampa e dall’opposizione. Due Amministratori Delegati sono saltati, uno è sotto procedimento giudiziario. Erano stati elargiti crediti a clienti d’improbabile solvibilità e commesse una serie d’irregolarità. Nel 2009 i parlamenti dei due Länder avevano deciso tuttavia di concedere alla HSH Nordbank la possibilità di ricorrere al fondo di garanzia delle regioni (Zweitverlustgarantie) sino a un massimo di 10 miliardi di euro! L’economia marittimo-portuale è la prima fonte di reddito lassù nel Nord. Già nel 2010 e 2011 però la banca, con una situazione finanziaria e dello shipping migliorata, aveva cominciato a ripagare il debito del salvataggio[4]. Alla metà del 2012 il combinato disposto della crisi nell’eurozona, della recessione mondiale e la conseguente entrata in crisi del settore dello shipping, particolarmente violenta nel mercato dei traffici containerizzati, riporta la HSH Nordbank sull’orlo del collasso.
16 luglio 2012, la FAZ torna sull’argomento con un articolo di Christian Müßgens e Johannes Ritter, corrispondenti da Amburgo: “i prezzi di vendita di molte navi ormai sono scesi così in basso da sfiorare i valori delle navi in demolizione”[5]. Se i valori degli asset che i fondi hanno in portafoglio crollano, il fondo fallisce, il valore patrimoniale delle banche si riduce drammaticamente. A settembre si parla già di 266 fondi in difficoltà, al Forum della Hansa, che si tiene a metà novembre, gli esperti, riferisce “Handelsblatt”, prevedono che circa 500 navi non troveranno più investitori disposti a sopportarne le spese di gestione, i noli (charter rates) sono crollati[6].
Il primo dicembre la cima della piramide si fa finalmente sentire. In un’intervista concessa a “Hamburger Abendblatt”, il nuovo Amministratore Delegato della HSH Nordbank, Constantin von Oesterreich, dichiara senza mezzi termini che se non farà ricorso al fondo di garanzia dei Länder sino a una cifra di 1,3 miliardi di euro per un periodo di tempo che comprende tutto il 2025 la banca rischia di chiudere e aggiunge: “non facciamo conto che la situazione possa migliorare prima del 2014. Ma può essere anche che si vada al 2015 o al 2016”[7].
HSH Nordbank ha nel suo settore di business un po’ il valore simbolico che Lehman Brothers aveva nel settore dei derivati. Ci troviamo di fronte al ripetersi di un copione già conosciuto ma la grande differenza tra il 2008 ed oggi è che allora la paralisi aveva colpito il circuito immateriale e virtuale del denaro, oggi colpisce il circuito fisico delle merci, dunque potrebbe essere più spettacolare, più”visibile” e creare ostacoli alla globalizzazione più consistenti e duraturi. Come scrive un importante operatore su “Lloyd’s List”: “Questa sarà la peggiore crisi della navigazione di linea da quando, 40 anni fa, è iniziata l’epoca del container” ed aggiunge “gran parte della responsabilità ricade su quei governi che hanno concesso agevolazioni fiscali a chi investe nelle navi”[8].
Ma per capire le dinamiche interne di questa crisi è necessario capire il rapporto tra la nave come prodotto industriale e la nave come prodotto finanziario sullo sfondo del cosiddetto “gigantismo navale”, cioè della tendenza inarrestabile a costruire unità sempre più grandi.
La nave come prodotto industriale
E’ l’idea comune che abbiamo di una nave, uno strumento tecnologico impiegato su un mercato con un certa caratteristica di domanda e offerta, che ha determinati costi operativi e produce determinati ricavi. In termini di costi unitari una nave grande presenta dei vantaggi; dunque, secondo i manager delle compagnie, le economie di scala funzionano in questo business ed è corretta la corsa al gigantismo. Bella scoperta, se n’erano già accorti i genovesi nel Trecento! Ma il mercantilismo di allora era un po’ diverso dal capitalismo di oggi, procediamo con ordine.
Secondo la più recente edizione dello studio Drewry sui costi operativi delle navi portacontainer (ottobre 2012), questi sono passati dall’indice 100 del 2000 all’indice 170 del 2010 e dopo una breve discesa dovrebbero arrivare allo stesso livello nel 2015[9].
Si intuisce che questo dipende in massima parte dall’aumento del costo del carburante. In genere l’aumento del carburante viene scaricato sul cliente secondo il meccanismo della surcharge più famosa, il BAF (Bunker Adjustment Factor). Poiché sono in arrivo degli inasprimenti sulle normative riguardanti le emissioni ed in particolare sull’obbligo di utilizzare carburanti a basso contenuto di zolfo, sensibilmente più costosi, in determinati mari del mondo, il valore relativo di una nave oggi viene sempre più calcolato sui suoi bassi consumi di carburante. La nave, come vedremo, sempre più diventa da prodotto industriale a prodotto finanziario.
Il costo operativo di una nave portacontainer da 10 a 12.000 TEU, secondo Drewry, era di 13.420 dollari/giorno alla fine del 2011, sarà di 13.778 dollari/giorno nel 2016. Per navi da 5 a 6.000 TEU era di 9.890 dollari/giorno a fine 2011 e sarà di 10.247 nel 2016. Previsioni sui noli sono più difficili da fare. Salta agli occhi la grande differenza tra il forte aumento dei costi operativi nel periodo 2000-2008 e il modesto aumento tra il 2010 e il 2016 (se le previsioni Drewry ci azzeccano)[10].
Sull’evoluzione del mercato “industriale” dello shipping abbiamo informazioni in tempo reale che riguardano i noli, rates. Attenzione però, si tratta in genere di noli base, sono escluse le surcharges, si dovrebbe ragionare invece sempre in termini di all-in rates per capire se le compagnie riescono a coprire i costi e guadagnarci. Un periodo di noli bassi per eccesso di offerta o per calo della domanda può portare a forti perdite operative. Così è stato nel 2011 e nel primo trimestre del 2012 a causa di eccesso di offerta, nella seconda metà del 2012 a causa del calo di domanda, in particolare nell’eurozona e nel Mediterraneo[11]. In linea generale 2010, 2011 e 2012 sono stati anni di bassi profitti (più corretto sarebbe dire di risultati operativi deludenti). Se il calo della domanda non dipende dalle compagnie marittime, è invece loro intera responsabilità aver creato eccesso di offerta, cioè di aver messo in servizio troppe navi e di aver provocato in tal modo un crollo dei noli e, come se non bastasse, di aver continuato a ordinare nuove navi ai cantieri e di aver ritirato tutte quelle in consegna. Un gioco da pazzi, da “sconsiderati” come lo definisce Drewry (the foolhardiness of carrier’s strategic actions in 2011), verificatosi proprio nel 2011 ed al quale le compagnie non hanno saputo ancora reagire in maniera organica ma solo episodica. All’inizio hanno pensato di cavarsela con lo slow steaming, che, riducendo la velocità di crociera delle navi, in effetti provoca una riduzione di capacità, poi hanno cominciato a tagliare un servizio di qua, a ridurre il numero delle navi di un servizio di là, hanno mandato molta roba in disarmo o in demolizione, mentre nel mercato della domanda la recessione cominciava a mordere, soprattutto nella olive belt mediterranea, nei grandi paesi marittimo-portuali di Grecia, Italia e Spagna. Ma decisioni strategiche di lungo respiro non le hanno prese. Ed hanno continuato in questo comportamento masochista, autolesionista. Ma sono così stupidi davvero oppure c’è dietro qualcosa d’altro?
Sulla rotta Far East-Nord Europa/Mediterraneo, agli inizi di novembre 2012 erano impiegate 258 navi su 24 differenti servizi. La capacità media di queste navi è di 10.000 TEU. Cifre che darebbero ragione a chi scava, scava, scava, ma la faccenda non è così semplice. “Un servizio sulla rotta Asia-Europa richiede 12 navi di almeno 12.000 TEU ciascuna”, dichiara un dirigente CMA CGM a “Containerisation International” del 25 ottobre 2012, “ciò equivale a un investimento da 1,4 miliardi di dollari, ma per essere competitivi di servizi bisogna averne almeno tre, quindi si arriva a 4,2 miliardi.
Poi ci sono i container vuoti da assegnare alle navi, 18.000 TEU ciascuna e sono altri 400 milioni di dollari.
Cifre consistenti, risorse che possono essere fornite solo con il supporto del sistema bancario, 24 servizi che costano 1,5 miliardo e mezzo di dollari ciascuno, 36 miliardi di dollari sulla rotta Asia-Europa! Il rapporto con le banche diventa vitale. Nei rapporti con le banche le compagnie fanno valere: la quota di mercato, il valore degli asset (naviglio di proprietà), le previsioni di crescita. La quota di mercato, come argomento principe del rating bancario, spiega la folle corsa ad acquisire volumi ed a mettere in servizio capacità, offerta di stiva, a costo di praticare tariffe da dumping. La valorizzazione degli asset spiega la folle corsa all’acquisto di navi. Probabilmente si accorgono ora, di fonte all’evidenza della recessione mondiale, che questi asset possono svalutarsi rapidamente, com’è capitato alle proprietà immobiliari durante la bolla immobiliare.
La ripartizione dei rischi
Peter Döhle è un’azienda che appartiene alla categoria dei non operating ship owner (NOO). Ha 6.800 dipendenti e sede a Amburgo, controlla circa 450 navi, di cui 320 portacontainer. Che significa? Che una parte sono di proprietà – un centinaio circa – una parte sono gestite per conto di un proprietario (ship management), una parte è costituita da navi di cui Döhle ha il brokeraggio in esclusiva. I gioielli della flotta sono 4 navi da 13.000 TEU costruite dai cantieri Hyundai di Ulsan, dotate di 800 posti reefer ciascuna, velocità massima 24.3 nodi, consumo di carburante 272 ts, due già consegnate, altre due lo saranno nel 2013 e sono/saranno messe tutte e quattro in servizio da Hanjin; 4 navi da 12.500 TEU, costruite dai cantieri Samsung, con 1.000 posti reefer ciascuna, velocità massima 24.8 nodi, consumo di carburante 289 ts., in servizio per la MSC. Döhle è un’azienda familiare, il suo business è di acquistare una nave e noleggiarla a scafo nudo oppure no, può noleggiare in esclusiva una nave di terzi, può fornire a terzi l’equipaggio, l’amministrazione, la manutenzione ecc., può fare tutte queste cose insieme. La sola cosa che non può fare è il mestiere del carrier, acquisire carichi e consegnarli. Nei rapporti coi cantieri o è un cliente diretto oppure un intermediario per conto di terzi. Amburgo è la capitale mondiale delle società di non operating ship owner (NOO) – chiamati in gergo semplicemente owner, mentre la Maersk, MSC, Hapag LLoyd ecc. vengono chiamati carrier - ed è questa la ragione per cui la Germania è il primo paese al mondo per proprietà di navi portacontainer. Ma in questi momenti il settore dimostra tutta la sua fragilità, è troppo frammentato, una forte azione di consolidamento avrebbe bisogno di un sostegno vigoroso da parte delle banche, che però si trovano alle strette anche loro. Siamo entrati nel tipico circolo vizioso[12]. Gli specialisti di questa categoria di società di navigazione svolgono un ruolo insostituibile nello shipping, perché consentono alle grandi compagnie mondiali flessibilità e ripartizione dei rischi finanziari e di responsabilità civile. Quindi i grandi carrier mettono in servizio una parte di flotta che è pura risorsa industriale (noleggiata) ed una parte di flotta che è risorsa industriale e finanziaria (di proprietà). Ma l’azione positiva che questi soggetti, assieme ai fondi chiusi, svolgono nella ripartizione dei rischi, si ritorce in azione negativa quando la nave è trattata come un puro prodotto finanziario, che viene ceduto dall’uno all’altro in un infernale gioco dei quattro cantoni: owner, carrier, fonds, bank. Anzi, come si legge sui siti dei principali studi di avvocati specializzati nella difesa dei diritti dei risparmiatori che hanno investito nei fondi navali, non di rado gli owner cedono la nave al fondo chiuso e realizzano solo per questo un notevole guadagno, che ovviamente il fondo dovrà recuperare presso i risparmiatori[13].
Lloyd’s List Intelligence ha voluto andarli a sentire i NOO, poiché sono quasi tutti tedeschi, i risultati dell’inchiesta sono contenuti nel Rapporto Spotlight on Germany, diffuso il 26 novembre. Riporto per intero i principali risultati:
- i maggiori istituti di credito navale stanno abbandonando questo settore di business o restringendo il loro portafoglio
- l’84% del campione intervistato ritiene che nei prossimi 12 mesi ci saranno casi d’insolvenza tra le compagnie marittime
- gli stessi proprietari non operatori (NOO) ritengono possibili cambiamenti drammatici[14].
Fuggi, fuggi dunque, l’aria che tira è che siamo alla vigilia di un colossale crack.
La nave come prodotto finanziario
“È tutta colpa dei cantieri!”. Rimasi interdetto un paio d’anni fa a sentire questa risposta. Avevo interpellato uno dei maggiori agenti marittimi italiani per sentire la sua opinione su quanto sta succedendo nel mondo dello shipping. Mi ha dato qualche altra “dritta”, ho cominciato a rifletterci e sono arrivato alla conclusione che si capiscono i comportamenti dello shipping ragionando in termini di finanza piuttosto che in termini “industriali” e che l’argomento “economie di scala” a proposito del gigantismo navale non è affatto quello che determina le scelte, è più un pretesto, altre sono le logiche. Secondo DynaLiners Weekly del 16 agosto la Maersk ha pagato ai cantieri sudcoreani 190 mln di dollari per una nave da 18.000 TEU Triple E-Class, cioè dotata dei dispositivi d’avanguardia più sofisticati, di motori dal minimo consumo possibile allo stato attuale delle tecnologie, un gioiello. 190 milioni di dollari, un ottimo prezzo. La cantieristica mondiale viene sussidiata dai vari stati, in particolare nel Far East, si tratti di Corea del Sud, di Cina, Giappone o di altri. Mediante questi sussidi, erogati per mantenere l’occupazione o semplicemente per mantenere la bandiera nazionale su certi mercati, questi cantieri possono praticare prezzi che appena coprono i costi di produzione o proprio sottocosto. Qualche cantiere europeo regge ancora sul mercato delle portacontainer solo perché si iperspecializza.
La nave, una volta acquistata, viene iscritta in bilancio al valore d’acquisto, le sue caratteristiche tecnologiche – in particolare il consumo di carburante, il consumo di oli lubrificanti, la frequenza e la complessità delle manutenzioni e delle riparazioni, le dotazioni di sicurezza, il livello d’automazione delle manovre, dei controlli ecc. – ne determinano il valore di mercato assai più che la capacità. Non vale tanto perché è in grado di portare più container, ma perché appartiene a un’epoca tecnologica superiore. I cantieri le sfornano a prezzi sempre più convenienti, le compagnie le ritirano e ne iscrivono in bilancio il valore con la speranza che l’anno successivo potranno aggiornarlo cresciuto di un tot oppure con la certezza che avranno svalutato le navi tecnologicamente meno sofisticate dei competitor. La corsa al gigantismo è una sfida sulla lama del rasoio tra valori patrimoniali, è un modo per indebolire l’avversario, alzando sempre più l’asticella non tanto in termini di capacità ma in termini d’innovazione tecnologica. Per tornare all’esempio di prima, delle navi che Peter Döhle mette a disposizione di Hanjin e di MSC: quelle da 13.000 Teu della Hanjin hanno un consumo di carburante di 272 ts, quelle di MSC da 12.500 Teu hanno un consumo di 289 ts, sono più piccole e consumano di più (è vero che hanno 200 posti reefer in più). Non conosciamo i prezzi di acquisto ma non è escluso che quelle di Hanjin, costruite due anni dopo, siano costate di meno. Non solo, noi dobbiamo sempre ragionare all’interno di parametri propri della debt economy, la politica finanziaria di colossi come le top 20 del traffico container è quella di presentare una situazione patrimoniale che consenta loro di garantire i crediti bancari, l’acquisto di una nave nuova e tecnologicamente sofisticata rende la compagnia più forte nei confronti di una banca. Questa dinamica puramente finanziaria porta alla sovracapacità. Se con una nave in più s’intasa un’offerta di stiva già in eccesso ed i noli crollano, sono problemi della gestione operativa. Intanto ci si può vantare di aver messo in servizio navi dal costo unitario inferiore per unità di carico. Questa è l’idea di economia di scala: diminuire il costo unitario. Ma il costo unitario dipende da una variabile fondamentale: il tasso di riempimento. Una nave da 10.000 TEU riempita all’80% ha un costo unitario inferiore a una di 6.000 con lo stesso tasso di riempimento. Ma se il load factor si riduce al 60% a causa della crisi della domanda? E’ un bagno di sangue. L’economia di scala del gigantismo navale non si regge su valori assoluti ma relativi. Se poi i noli crollano e la domanda pure, causa la recessione mondiale, i valori delle navi precipitano, la situazione patrimoniale diventa critica, le banche girano le spalle al mercato e si entra nel circolo vizioso che porta al crack.
Da sempre fare l’armatore significa avere disponibilità di grandi risorse finanziarie, non l’armatore-padroncino beninteso, proprietario di una-due navi, ma l’armatore con una flotta degna di questo nome. Immaginiamoci fare l’armatore di una compagnia del traffico container, che gestisce decine, centinaia di navi, del rango di quelle 20 prime al mondo e di cui le prime tre sono Maersk, MSC e CMA-CGM. La necessità di risorse finanziarie è tale da renderle clienti piuttosto appetibili per il mondo bancario. Le compagnie del settore container hanno una liquidità fenomenale, prima di caricare un container su una nave chi lo spedisce deve aver depositato il valore del nolo in banca, il bill of lading. Si paga in anticipo. Ovviamente il grande cliente, tipo Kühne&Nagel, DB Schenker, DSV, Panalpina, ha condizioni di pagamento particolari ma “il popolo degli speditori”, quello paga in anticipo[15]. La gestione finanziaria a breve di questa liquidità è uno dei grandi volani del business del container. Il finanziamento di un nuovo servizio, che di per sé è un progetto industriale a medio termine, solitamente viene ripartito tra mezzi propri e indebitamento bancario. Comunque sia, le grandi compagnie del traffico container appartengono a quella razza privilegiata che si chiama too big to fail. Esposte in maniera consistente presso le banche, non possono esser lasciate fallire. Le prime tre in classifica sono un campionario bizzarro. La Maersk appartiene in sostanza a un gruppo petrolifero al quale i capitali non sono mai mancati, poi le sue attività nello shipping sono cresciute di peso all’interno del gruppo AP Moeller, diversificato in tante attività, dalla grande distribuzione al turismo e infine cresciuta molto nel settore terminalistico che produce fiori di profitti, mentre le linee di navigazione danno qualche problema. Il gruppo ha campi petroliferi e per l’estrazione di gas naturale in varie parti del mondo, questo produce risorse finanziarie di notevole entità, non tanto da essere autosufficiente ma da poter negoziare con le banche da una posizione molto forte, da petroliere e da armatore. MSC è un mistero, è la grande compagnia meno trasparente al mondo, non comunica i dati, non conferma, non smentisce. Uno spiraglio ci viene dalla CMA CGM perché la stampa spesso deve occuparsene. Fondata da Jacques Saadé, nato a Beirut e naturalizzato francese, e diretta oggi dal figlio, malgrado sia la terza al mondo naviga da un bel po’ di tempo in cattive acque, forse per le eccessive acquisizioni fatte nel decennio 1997-2007. E’ stata la prima compagnia mondiale a puntare sulle megacarrier (ULCS, Ultralarge Containership), nel 2010 trova un socio di capitale, l’uomo d’affari turco Yildrim, capo di un gruppo minerario, che la salva ma si oppone all’acquisto di 20 nuove navi[16]. Nel 2014 si dovrebbe aprire l’Offerta Pubblica di Acquisto (IPO) della CMA CGM. Le ultime notizie, di metà novembre, dicono che la compagnia ha raggiunto un nuovo accordo con le banche per ristrutturare il debito. Sono quelle notizie che fanno rabbrividire il piccolo cliente della banca, il piccolo risparmiatore, perché sa che ristrutturare vuol dire sollevare l’insolvente dalle urgenze di pagamento e farne pagare il costo al piccolo correntista. È lo sporco gioco fatto con gli immobiliaristi, far pagare le loro “sconsideratezze” ai comuni cittadini e alle imprese manifatturiere. Pochi giorni prima dell’annuncio dell’accordo con le banche creditrici, la CMA CGM comunicava che stava aggiungendo alla sua flotta tre nuova unità da 16.020 TEU, le più grandi del mondo[17]. Alphaliner del 22 novembre precisava che la consegna delle tre megacarrier era stata rimandata da CMA CGM ad aprile 2013. In primavera la compagnia aveva noleggiato tre unità da 13.500 perché non aveva abbastanza capacità da opporre ai concorrenti su determinate rotte. Troppo occupata a marcare stretto il competitor, la leadership dell’armamento non si accorge che la recessione c’è davvero e che la corsa all’eccesso di stiva rischia di finire nel disastro. Anche se sono sull’orlo del dissesto continuano ad aggiungere “grandi navi” alla loro flotta, sempre più grandi. C’è qualcosa che non funziona.
La nave, una volta acquistata, viene iscritta in bilancio al valore d’acquisto, le sue caratteristiche tecnologiche – in particolare il consumo di carburante, il consumo di oli lubrificanti, la frequenza e la complessità delle manutenzioni e delle riparazioni, le dotazioni di sicurezza, il livello d’automazione delle manovre, dei controlli ecc. – ne determinano il valore di mercato assai più che la capacità. Non vale tanto perché è in grado di portare più container, ma perché appartiene a un’epoca tecnologica superiore. I cantieri le sfornano a prezzi sempre più convenienti, le compagnie le ritirano e ne iscrivono in bilancio il valore con la speranza che l’anno successivo potranno aggiornarlo cresciuto di un tot oppure con la certezza che avranno svalutato le navi tecnologicamente meno sofisticate dei competitor. La corsa al gigantismo è una sfida sulla lama del rasoio tra valori patrimoniali, è un modo per indebolire l’avversario, alzando sempre più l’asticella non tanto in termini di capacità ma in termini d’innovazione tecnologica. Per tornare all’esempio di prima, delle navi che Peter Döhle mette a disposizione di Hanjin e di MSC: quelle da 13.000 Teu della Hanjin hanno un consumo di carburante di 272 ts, quelle di MSC da 12.500 Teu hanno un consumo di 289 ts, sono più piccole e consumano di più (è vero che hanno 200 posti reefer in più). Non conosciamo i prezzi di acquisto ma non è escluso che quelle di Hanjin, costruite due anni dopo, siano costate di meno. Non solo, noi dobbiamo sempre ragionare all’interno di parametri propri della debt economy, la politica finanziaria di colossi come le top 20 del traffico container è quella di presentare una situazione patrimoniale che consenta loro di garantire i crediti bancari, l’acquisto di una nave nuova e tecnologicamente sofisticata rende la compagnia più forte nei confronti di una banca. Questa dinamica puramente finanziaria porta alla sovracapacità. Se con una nave in più s’intasa un’offerta di stiva già in eccesso ed i noli crollano, sono problemi della gestione operativa. Intanto ci si può vantare di aver messo in servizio navi dal costo unitario inferiore per unità di carico. Questa è l’idea di economia di scala: diminuire il costo unitario. Ma il costo unitario dipende da una variabile fondamentale: il tasso di riempimento. Una nave da 10.000 TEU riempita all’80% ha un costo unitario inferiore a una di 6.000 con lo stesso tasso di riempimento. Ma se il load factor si riduce al 60% a causa della crisi della domanda? E’ un bagno di sangue. L’economia di scala del gigantismo navale non si regge su valori assoluti ma relativi. Se poi i noli crollano e la domanda pure, causa la recessione mondiale, i valori delle navi precipitano, la situazione patrimoniale diventa critica, le banche girano le spalle al mercato e si entra nel circolo vizioso che porta al crack.
Da sempre fare l’armatore significa avere disponibilità di grandi risorse finanziarie, non l’armatore-padroncino beninteso, proprietario di una-due navi, ma l’armatore con una flotta degna di questo nome. Immaginiamoci fare l’armatore di una compagnia del traffico container, che gestisce decine, centinaia di navi, del rango di quelle 20 prime al mondo e di cui le prime tre sono Maersk, MSC e CMA-CGM. La necessità di risorse finanziarie è tale da renderle clienti piuttosto appetibili per il mondo bancario. Le compagnie del settore container hanno una liquidità fenomenale, prima di caricare un container su una nave chi lo spedisce deve aver depositato il valore del nolo in banca, il bill of lading. Si paga in anticipo. Ovviamente il grande cliente, tipo Kühne&Nagel, DB Schenker, DSV, Panalpina, ha condizioni di pagamento particolari ma “il popolo degli speditori”, quello paga in anticipo[15]. La gestione finanziaria a breve di questa liquidità è uno dei grandi volani del business del container. Il finanziamento di un nuovo servizio, che di per sé è un progetto industriale a medio termine, solitamente viene ripartito tra mezzi propri e indebitamento bancario. Comunque sia, le grandi compagnie del traffico container appartengono a quella razza privilegiata che si chiama too big to fail. Esposte in maniera consistente presso le banche, non possono esser lasciate fallire. Le prime tre in classifica sono un campionario bizzarro. La Maersk appartiene in sostanza a un gruppo petrolifero al quale i capitali non sono mai mancati, poi le sue attività nello shipping sono cresciute di peso all’interno del gruppo AP Moeller, diversificato in tante attività, dalla grande distribuzione al turismo e infine cresciuta molto nel settore terminalistico che produce fiori di profitti, mentre le linee di navigazione danno qualche problema. Il gruppo ha campi petroliferi e per l’estrazione di gas naturale in varie parti del mondo, questo produce risorse finanziarie di notevole entità, non tanto da essere autosufficiente ma da poter negoziare con le banche da una posizione molto forte, da petroliere e da armatore. MSC è un mistero, è la grande compagnia meno trasparente al mondo, non comunica i dati, non conferma, non smentisce. Uno spiraglio ci viene dalla CMA CGM perché la stampa spesso deve occuparsene. Fondata da Jacques Saadé, nato a Beirut e naturalizzato francese, e diretta oggi dal figlio, malgrado sia la terza al mondo naviga da un bel po’ di tempo in cattive acque, forse per le eccessive acquisizioni fatte nel decennio 1997-2007. E’ stata la prima compagnia mondiale a puntare sulle megacarrier (ULCS, Ultralarge Containership), nel 2010 trova un socio di capitale, l’uomo d’affari turco Yildrim, capo di un gruppo minerario, che la salva ma si oppone all’acquisto di 20 nuove navi[16]. Nel 2014 si dovrebbe aprire l’Offerta Pubblica di Acquisto (IPO) della CMA CGM. Le ultime notizie, di metà novembre, dicono che la compagnia ha raggiunto un nuovo accordo con le banche per ristrutturare il debito. Sono quelle notizie che fanno rabbrividire il piccolo cliente della banca, il piccolo risparmiatore, perché sa che ristrutturare vuol dire sollevare l’insolvente dalle urgenze di pagamento e farne pagare il costo al piccolo correntista. È lo sporco gioco fatto con gli immobiliaristi, far pagare le loro “sconsideratezze” ai comuni cittadini e alle imprese manifatturiere. Pochi giorni prima dell’annuncio dell’accordo con le banche creditrici, la CMA CGM comunicava che stava aggiungendo alla sua flotta tre nuova unità da 16.020 TEU, le più grandi del mondo[17]. Alphaliner del 22 novembre precisava che la consegna delle tre megacarrier era stata rimandata da CMA CGM ad aprile 2013. In primavera la compagnia aveva noleggiato tre unità da 13.500 perché non aveva abbastanza capacità da opporre ai concorrenti su determinate rotte. Troppo occupata a marcare stretto il competitor, la leadership dell’armamento non si accorge che la recessione c’è davvero e che la corsa all’eccesso di stiva rischia di finire nel disastro. Anche se sono sull’orlo del dissesto continuano ad aggiungere “grandi navi” alla loro flotta, sempre più grandi. C’è qualcosa che non funziona.
La Maersk dice alt!
Il 19 novembre il CEO di Maersk, Nils Andersen, dichiara al “Financial Times”: “nei prossimi cinque anni non investiremo di più nello shipping, abbiamo capacità sufficiente per crescere in armonia con il mercato, lasceremo questo settore per spostarci su dei business che garantiscono alti profitti e sono più stabili, porteremo la quota di capitali dedicati allo shipping dal 30% al 25% in modo da riservare al resto il 50%, nei prossimi anni non daremo nuove commesse ai cantieri, saranno sufficienti le consegne delle 20 navi da 18.000 TEU già ordinate”. La notizia fa sensazione, due giorni dopo, intervistato dalla CNN, Andersen ribadisce che intendono spostare maggiori risorse verso i business più redditizi, come l’oil and gas ed i terminal, ma che nello shipping non rinunceranno a difendere la loro posizione di leader di mercato. Aggiunge che il problema dell’economia mondiale è soprattutto l’Europa ma di ritenere che già nella seconda metà del 2013 i volumi dei traffici container da e per l’Europa riprenderanno a crescere.
Andersen lo può ammorbidire fin che vuole ma ormai il messaggio è lanciato, lo si interpreti come si vuole, è un segnale inequivocabile. Il problema è che certe conseguenze disastrose provocate dal gigantismo navale le pagheremo tutte noi, cittadini di paesi a vocazione marittimo-portuale.
Lo studio Alix Partner
A ottobre la società Alix Partner pubblica uno studio che fa il punto della situazione, Sailing in a Sea of Red. The Alix Partner Container Shipping Study. Il giudizio è impietoso: solo due su sedici compagnie analizzate hanno portato a casa risultati positivi nella gestione operativa. Esaltate dalla crescita dei volumi sulle due rotte principali, transpacifica Asia-Americhe e Far East-Europa, le compagnie hanno acquisito capacità di stiva e l’eccesso di offerta ha fatto crollare i noli, solo nel 2012 sono entrate in servizio ben 59 nuove navi da più di 10.000 TEU di capacità. E qui finalmente una stoccata al gigantismo navale: puntando ad uniformare le flotte nelle due rotte più redditizie su livelli di capacità superiori ai 10.000 TEU le compagnie hanno introdotto nei moduli operativi una rigidità che rischia di diventare una trappola[18] : “le rotte che segnano la crescita più elevata sono quelle da paese emergente a paese emergente e riguardano le direttrici Nord-Sud. Ma queste rappresentano nel loro insieme solo un quarto dei volumi complessivi. Una gestione operativa efficiente di questi traffici richiede navi adatte, più piccole, più flessibili, guarda caso proprio il tipo di naviglio che le compagnie stanno buttando via”.
Nel 2011 le perdite delle sedici compagnie che lo studio ha preso in esame sono stimate in 6 mld di dollari. L’indebitamento totale è raddoppiato rispetto al 2007 ed ha toccato i 90 miliardi di dollari (escluse le perdite operative). CIRCA LA META’ DELLE COMPAGNIE ANALIZZATE DALLO STUDIO NON E’ IN GRADO DI PAGARE GLI INTERESSI DEL DEBITO (are unable to cover the interest payments). L’indice di Altman che segnala il rischio d’insolvenza mette in luce una situazione di estremo distress.
E qui comincia il bello, le compagnie non hanno liquidità, debbono ricorrere al prestito bancario ma molte banche si sono ritirate dal business o hanno ridotto la loro esposizione nel settore dello shipping, che noi già conosciamo, la Royal Bank of Scotland, la Lloyd Bank, la Commerzbank e HSH Nordbank. Per uscire dai pasticci le compagnie provocano altri danni, peggiorano il servizio, ridotto ai basic services, scaricano sui clienti le loro contraddizioni. Merita riportare integralmente la citazione: “riconquistare un livello di redditività è d’obbligo, ma, a causa della sovracapacità che ha effetti devastanti sul settore, i carrier decidono semplicemente di tagliare i costi dei servizi in essere, riportandosi indietro a una mentalità da “servizio basic”. In certi casi ci sono servizi very basic e quindi il valore aggiunto di tutti quei ‘fronzoli’ (bells and whistles) con cui una compagnia dice di essere meglio dell’altra sono stati eliminati. Effetto non previsto: i caricatori vedono accrescere il loro rischio finanziario ogni volta che un servizio viene cancellato o modificato e ogni volta che un carrier, per migliorare il tasso d’utilizzazione della capacità, preferisce i carichi che pagano meglio a quelli dei caricatori che cercano il nolo migliore.”
Può darsi che questi giudizi non siano del tutto esatti, gli stessi autori mettono in guardia dal prenderli per oro colato, la situazione evolve di giorno in giorno. A me sembrano coerenti con tanti altri segnali e tante altre informazioni che provengono dal mercato, mi sembrano coerenti con dei ragionamenti generali che già facevo nel libro “Le multinazionali del mare”, con le previsioni d’ordine generale che avanzavo in quella sede, puntualmente verificatesi. Lo studio, in realtà un Libro Bianco, si conclude con la proposta di 5 azioni urgenti: una gestione aggressiva della liquidità (cash management), un taglio drastico di tutte le attività non core, la formulazione di business plan molto focalizzati su obbiettivi raggiungibili, la rifocalizzazione sull’ottimizzazione del capitale investito, l’immediata ristrutturazione del debito con una politica di accordi con le banche (even if financial restructuring is not required negotiate with the banks!).
Non so giudicare se questi consigli sono utili al malato o no, mi limito ad osservare che la crisi del 2008 ci ha dimostrato quanto è difficile per le grandi società di dimensione internazionale cambiare il proprio stile di lavoro ed i propri criteri di giudizio. Vanno verso il baratro, lo sanno, lo vedono, ma sono incapaci di cambiare, di dare una violenta sterzata per evitare il salto nel vuoto. Tanto c’è sempre qualcuno che paga per loro.
Supply chain disruption
All’inizio di quest’anno DHL Deutsche Post ha pubblicato uno studio che vuole essere di grande respiro, Delivering Tomorrow. Logistics 2050. A scenario Study. Coinvolge università, imprese, testimoni privilegiati, il suo stesso top management a livello planetario. DHL è oggi certamente uno dei protagonisti principali della contract logistics, che prova a immaginare il futuro. I cambiamenti climatici vi svolgono un ruolo importante perché uno degli interrogativi fondamentali dello studio è: dobbiamo continuare a sforzarci di ottimizzare le catene di fornitura, le supply chain o dobbiamo concentrare ogni sforzo sui sistemi di risk mangement, sulle misure da prendere in caso di forti perturbazioni (disruption) del funzionamento delle filiere? L’uragano Sandy, per esempio, ha creato problemi non indifferenti sulla costa orientale degli USA, migliaia e migliaia di container con bill of lading New York, secondo il “LLoyd’s List” del 14 novembre, hanno dovuto esser sbarcati altrove, per ragioni di forza maggiore, perché il porto di destinazione era bloccato. In casi come questo i destinatari o gli speditori, a seconda del contratto, debbono recuperarli a proprie spese e riportarli al punto di consegna giusto.
Tra le ipotesi formulate dallo studio DHL non c’era quella di un collasso economico delle compagnie marittime, ma il fatto stesso che il risk management possa essere considerato priorità numero uno della logistica la dice lunga sullo stato di insicurezza in cui questo mondo così sicuro di sé, dove tutto dovrebbe funzionare come un orologio, ormai è immerso. Ma proviamo a immaginare se davvero una delle prime 20 compagnie mondiali dello shipping del container dovesse fare la fine di Lehman Brothers, assisteremmo non a un cataclisma dell’universo immateriale del denaro ma della circolazione “fisica” delle merci. Basta quel che accade in Cina, del resto, per avere nozione dei movimenti tellurici che stanno agitando l’universo della logistica: sul mercato cinese i prezzi del trasporto hanno cominciato a variare all’impazzata, come dichiara un manager di Hellmann Worldwide Logistics a “Lloyd’s List” del 23 novembre, l’intero paese è in ebollizione per l’inflazione che cresce, la domanda che cala, l’insofferenza dei lavoratori ed altro. I servizi della compagnia collassata sarebbero rapidamente ripresi dai famelici competitori ma lo choc sarebbe egualmente importante.
Le conseguenze per i porti marittimi
Negli ultimi dieci anni almeno i porti europei si sono lasciati trascinare da visioni del futuro dominate dal gigantismo navale. Accogliere navi sempre più grandi con banchine sempre più lunghe e fondali sempre più profondi è diventata quasi un’ossessione, che ha fatto perdere di vista altre priorità ed ha reso i decisori prigionieri di una semplicistica e quasi ipnotica fiducia in un’inarrestabile crescita, dei traffici e della dimensione delle navi. Si è perso il senso della realtà, perché proprio nel nuovo Millennio, a partire dall’11 settembre 2001, il mondo ha cominciato a prendere tutt’altra direzione, di eventi imprevisti – prima di tutto quelli climatici – di crisi regionali o planetarie, in una specie di danza del dragone sempre più convulsa e imprevedibile. Consegnandosi alla prospettiva di un destino immutabile che procede in maniera lineare verso il gigantismo, i decisori hanno trasformato i porti non solo in enormi cantieri sempre aperti ma in sistemi sempre più rigidi e meno flessibili, sempre più costosi per il contribuente.
La società di consulenza fiamminga Adstrat Consulting, in uno studio sugli investimenti nei 5 porti del Nord, Rotterdam, Anversa, Zeebrugge, Amburgo, Bremerhaven, reso pubblico nell’autunno del 2012, ha dimostrato quali danni possono produrre certi sovrainvestimenti in opere portuali. Anversa e Zeebrugge, quelli messi peggio, con un tasso di utilizzazione inferiore al 50%, hanno fatto aumenti di capacità che abbasseranno ulteriormente questo tasso di utilizzazione e quindi saranno in perdita cronica. Chi compenserà queste perdite se non il contribuente? Il tasso di utilizzazione medio dei terminal container dei 5 porti del Nord già nel 2015 sarà del 66%! Quale gestore può reggere una situazione del genere?[19] Quindi il paradosso è che da un lato con nuovi investimenti mal programmati si aumentano i costi del trasporto (e dunque si allontanano i clienti dai nostri porti) e dall’altro si costruiscono porti dove non si raggiungono livelli di redditività accettabili. Anche Bremerhaven, che dei 5 è quello con il tasso di utilizzazione più elevato, oggi rischia di subire l’effetto concorrenziale del nuovo porto di Wilhelmshaven, Jade-Weser Port, che a sua volta, entrato in funzione in ritardo per dei gravi difetti di costruzione, si trova confrontato con una situazione di mercato in piena crisi e non riesce ad acquisire clienti in misura sufficiente a giustificare l’enorme spesa che la finanza pubblica si è accollata.
In Italia invece, nel Mediterraneo, la rincorsa del gigantismo navale sta portando a situazioni grottesche. Progetti faraonici di dubbia realizzabilità tengono banco per mesi e mesi, pretendono di ricevere risorse straordinarie dallo stato, azzerando ogni possibilità di programmazione da parte di governi, che già di per sé hanno le idee poco chiare[20]. A Venezia, Ravenna, Ancona, Napoli, Civitavecchia, Livorno, Genova, si scava per approfondire i fondali, con ambizioni talvolta realistiche talaltra fantasiose. Di questi porti solo Genova può pensare di veder arrivare a scadenze regolari navi sopra i 12.000 TEU, perché la nave cerca la merce non cerca i fondali, perché la toccata di una ULCC non è economica al di sotto di una certa soglia di volumi da sbarcare e imbarcare e nessuno di questi porti, tranne Genova, ha un Hinterland capace di alimentare volumi di questa dimensione. Protèsi con lo sguardo verso l’orizzonte marino, nella speranza di veder spuntare una megacarrier, i decisori hanno dimenticato di guardare alle spalle, verso l’entroterra, vera linfa vitale di un porto, tanto più ampia come catching area quanto più efficienti sono i servizi ferroviari di quel porto. In 10 anni i porti italiani hanno perduto il 50% del traffico ferroviario. Nemmeno Genova riuscirà a smaltire il traffico delle ULCC se non riesce a potenziare i suoi servizi ferroviari. Oggi dal VTE, il terminal di Voltri, più di 24 treni al giorno non possono entrare o uscire. Non è detto poi che, giunti a destino, possano entrare ovunque, nemmeno nell’area di Milano. I terminal, quelli buoni, di una certa capacità, sono una risorsa scarsa. Solo La Spezia e Trieste hanno aumentato sensibilmente la loro quota di traffico su rotaia, La Spezia supera il 24% e Trieste a fine 2012 avrà realizzato più di 3.900 treni di unità intermodali. Venezia, la sua rivale in Alto Adriatico, zero. Non è sbagliato potenziare i porti, è sbagliato farlo sotto l’ipnosi del gigantismo navale, è sbagliato aumentare la capacità senza aver allungato i tentacoli sui mercati potenziali del retroterra e costruito alleanze nelle filiere logistiche, è sbagliato puntare solo su container e crociere, trascurando tutto il resto. Ma su questi argomenti e sul rapporto tra portualità, gigantismo navale e crisi dello shipping, mi sarà necessario tornare con un secondo intervento.____________________________________
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