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mercoledì 5 marzo 2014

Giorgio Israel: Invalsi all’esame di terza media errore da matita blu. Su DSA, BES: “Occorre un deciso passo indietro”. La legge 170/2010 andrebbe rivista prevedendo commissioni miste e sanzioni per diagnosi ingiustificate




Studiare a fondo quel che si è fatto all’estero per non ripetere errori che poi costano cari, ecco uno dei suggerimenti di Giorgio Israel se si parla di valutazione e di valorizzazione del merito dei docenti. Il sistema migliore restano le ispezioni: commissioni composte da docenti di altre scuole, da docenti in pensione, da ispettori, che esaminano i testi adottati, assistono alle lezioni, interrogano gli studenti, discutono con i colleghi e poi fanno un rapporto.
Ma in questo suo lungo intervento il noto studioso di matematica professore alla Sapienza di Roma e membro dell’Académie Internationale d’Histoire des Sciences ci parla ancora di scuola media (non è lì l’anello debole), di scuola primaria (basta col mito della scuola elementare migliore del mondo pensano agli anni ‘50!), di come sarebbe insensato portare il liceo a 4 anni. Seguici su FaceBook News in tempo reale.
La sua posizione riguardo alle misurazioni standardizzate degli apprendimenti è ben nota. Nelle sue prime affermazioni da ministro, Stefania Giannini ha parlato proprio di Invalsi e di cultura della valutazione, puntualizzando però che i test vanno perfezionati. Un’ipotesi del genere la soddisfa?
È importante che il ministro accenni a una riflessione, diversamente dagli ammonimenti intimidatori con cui taluno ha voluto far credere che toccare anche un minimo tassello dell’Invalsi sia un sacrilegio. Non mi è però chiaro cosa voglia dire “perfezionare”. Siamo ancora nel vago. Se si tratta di produrre test migliori, la cosa è benvenuta, ma questo significa anche ripensare alla selezione di chi li prepara. A mio avviso, si tratta però di affrontare a fondo alcune questioni come il test Invalsi all’esame di terza media, che interviene nella valutazione. Si tratta di un errore da matita blu che va cancellato: come può un ente che è preposto alla valutazione della qualità del sistema fare questo sulla base di dati comprendenti una prova d’esame da esso stesso proposta?
Sul suo blog ha affermato che i quiz distraggono dallo studio perché, anche se in teoria non dovrebbero avere niente a che fare con la didattica ordinaria, spingono i docenti a orientarsi verso il cosiddetto ‘teaching to the test’. Pensa che la nomina della Professoressa Anna Maria Ajello alla testa dell’Invalsi possa favorire un ritorno allo spirito originario dei quiz? Quanto è verosimile un nuovo corso?
Questo punto è strettamente collegato alla domanda precedente: il disastro didattico prodotto dal dilagare del “teaching to the test”. Attenzione: non ho mai detto che i quiz non debbono aver nulla a che fare con la didattica ordinaria. Al contrario: i test dovrebbero servire a valutare il successo della didattica ordinaria, a valutare la qualità degli apprendimenti conseguiti con la didattica ordinaria. Questo esclude in maniera tassativa che ci si prepari al test medesimo: è una cosa assurda, ridicola.
È del tutto comprensibile che l’insegnante e lo studente che temono un insuccesso nel test siano tentati dall’addestramento. Ma proprio per questo esso non deve essere prova d’esame, il cui esito fa media! Altrimenti, prevale la tentazione disastrosa di lasciar da parte la didattica ordinaria e di allenarsi a superare i test anziché studiare propriamente italiano, letteratura, matematica: i test non sono una materia, e invece qui li si sta facendo diventare una nuova materia dell’esame di terza media.
Non so se sia verosimile un nuovo corso. In un paese vischioso come il nostro è difficile sperarci, ma se non crediamo alla possibilità di cambiare e migliorare tanto vale non sprecare neppure il fiato. Se mi è permessa una battuta marginale, si potrebbe almeno chiedere ai vertici dell’Invalsi di smettere di fare una figura ridicola usando il termine grottesco “somministrare” i test, che testimonia di un uso misero e burocratico della lingua: si somministrano medicine, purganti, fleboclisi, perfusioni. Basterebbe dire: “assegnare” i test…
Proprio la valutazione esterna e il merito dei docenti, anche considerate in rapporto tra loro, sono indicate come le strade maestre per la modernizzazione della scuola da una parte significativa dell’opinione pubblica e degli addetti ai lavori. Lei su che cosa punterebbe?
La valutazione del merito è assolutamente inderogabile. Tuttavia, non si può procedere in modo confuso e pasticciato. Bisogna studiare a fondo quel che si è fatto all’estero e gli esiti: arrivare per ultimi può essere un vantaggio. Non credo che i sistemi automatici di valutazione, con indicatori meramente statistici, abbiano dato buoni risultati. Non credo neppure che si possa parlare di valutazione “esterna”: chi sarebbero questi “esterni”, che qualifica avrebbero, in che modo l’avrebbero ottenuta, e a quali controlli successivi sarebbero sottoposti?
L’idea di affidare la gestione della valutazione a organizzazioni manageriali “esterne” che agiscono in totale arbitrio non può portare a nulla di buono. Non c’è nulla da fare: l’unico sistema di valutazione è quello interno, ma da condurre con regole rigorose e trasparenti. Il principio da cui partirei è che la valutazione è un processo di crescita culturale in cui i migliori producono un effetto di trascinamento verso l’alto.
Da studioso e docente di lungo corso, qual è la sua idea su come definire, misurare e premiare il merito di un insegnante di scuola?
Sarebbe troppo lungo entrare nei dettagli: ho delineato un possibile approccio in vari documenti e articoli. Mi limito a dire che, secondo me, il migliore sistema è quello delle ispezioni in senso lato. Anche il giudizio degli studenti e delle famiglie è importante, a condizione che non sia anonimo, altrimenti si rischiano situazioni devastanti (vendette, ritorsioni, con calunnie coperte dall’anonimato, come si è già verificato in esperienze universitarie): si può garantire l’anonimato di fronte al docente valutato ma non di fronte a una commissione di valutazione.
Inoltre, per esperienza, so che non soltanto il giudizio degli studenti spinge un docente a migliorarsi, ma anche il confronto con i colleghi: quando mi è capitato che un collega venisse ad ascoltare alcune mie lezioni, mi sono sentito impegnato a dare il massimo. Questo significa che il sistema migliore è quello delle ispezioni: commissioni di valutazione composte da docenti di altre scuole, da docenti in pensione, da ispettori, ecc., che esaminano ogni aspetto di un istituto, esaminano i testi adottati, assistono ad alcune lezioni, interrogano gli studenti, discutono con i colleghi, nel corso di una settimana e poi fanno un rapporto. Si possono pensare molte altre forme di valutazione di questo tipo.
Per esempio, le prove scritte di una classe con le valutazioni dell’insegnante possono essere sottoposte (a campione) a docenti di altre scuole – anche qui con modalità precise – in modo da ottenere un giudizio comparativo. In breve, si tratta di mettere in piedi un sistema interattivo di valutazione che costringa ogni insegnante a misurarsi e farsi valutare, eventualmente anche difendendo il proprio operato, in caso di critiche.
Ripeto, tutto questo va definito con modalità precise ma non si tratta di nulla di inedito: il sistema Ofsted inglese ha molti tratti in comune con le idee che sto proponendo, salvo che Ofsted è del tutto esterno e autonomo, e questo non va bene, come si è visto da alcuni gravi inconvenienti che l’hanno messo sotto accusa. Proprio per questo è un vantaggio arrivare dopo gli altri.
Tornando alle dichiarazioni del ministro Giannini, concorda con l’idea che la scuola media sia l’anello debole del sistema d’istruzione italiano – cosa affermata di recente anche da Renzi - e che possa essere opportuno il taglio di un anno?
L’idea che la scuola media sia l’anello debole del sistema italiano dell’istruzione deriva dal recepimento acritico di statistiche, nell’ignoranza dello stato effettivo di questo segmento, come del resto sa la maggioranza degli insegnanti e dei dirigenti della scuola secondaria di primo grado. Vorrei, al riguardo, citare le frasi di un celebre storico della medicina, Mirko Grmek, che mi paiono assai appropriate al nostro argomento: «Qualcuno ha affermato, giustamente, che la statistica è spesso un calcolo molto preciso con dati falsi. Se in un villaggio si trova che, in un determinato periodo storico compaiono malattie che non c’erano, se cambia notevolmente il numero di queste, la prima cosa da chiedersi è se è cambiato il medico. Se in un Paese si introduce un servizio-sociale sanitario pubblico, il risultato sarà un aumento statistico delle malattie, un apparente peggioramento dello stato generale di salute, perché la gente che prima non andava dal medico adesso ci va!». Il giudizio sulla scuola media italiana è basato sui cattivi rendimenti degli studenti, attestati dalle statistiche.
Nessuno si chiede se ciò non derivi dal fatto che ragazzi impreparati si trovano improvvisamente ad affrontare un livello di studio più pesante e difficile, senza aver mai avuto gli strumenti per affrontarlo, non essendo abituati a studiare a casa, e ignorando completamente cosa sia un approccio disciplinare. Se si guardassero attentamente i programmi (indicazioni nazionali) e le pratiche didattiche prevalenti nella prassi, ci si dovrebbe chiedere se, al contrario della vulgata comune, il guaio non stia tutto nella scuola primaria. C’è ancora chi si balocca col mito della “scuola elementare migliore del mondo”, pensando agli anni ’50 e ignorando che nessun segmento di scuola è stato tempestato di riforme quanto quello.
Limitandoci agli ultimi anni, basti vedere le indicazioni nazionali della legge Moratti (roba da far rabbrividire), migliorate da quelle Fioroni (un miglioramento peraltro modesto) e di nuovo peggiorate dalle ultime, riguardo alle quali piacerebbe sapere chi ha avuto l’ardire di scrivere certe indicazioni sulla matematica. Cosa di buono può uscire da tutto questo? È la scuola della pura didattica, del far poco o niente, della credenza che la via per indorare la pillola sia presentare tutto come un gioco, della miriade di attività alternative. Casomai, va detto con forza che la scuola media è stata disastrata dalla riduzione di orari introdotta per meri motivi economici. E vogliamo rimediare questa infezione curabile tagliando una gamba al malato?... Conosco bene le ricette peggiori del male che circolano in certi ambienti: per esempio, fondere primaria e medie in un solo ciclo più corto di un anno, o anche accorciare di un anno i licei.
Viene da dire: fermatevi prima di fare altri sconsiderati pasticci. Nessuno si chiede cosa succederebbe dei contenuti con simili alchimie. Per esempio, la questione dei cicli in storia è fondamentale. È inutile negare che la storia ripetuta per tre cicli, sulle tre sezioni scolastiche, corrispondeva a fasi determinante di maturità intellettuale dei bimbi e dei ragazzi. Ora si studiano le civiltà greche e latine quando si è bambini e la storia moderna e contemporanea a 13 anni, e poi ci si lamenta pure che gli studenti arrivino alle medie ignorano la storia antica, e come se si potesse capire il Medioevo, il Rinascimento o la modernità senza conoscere la civiltà greca a un livello diverso del raccontino per bimbi!
E potrei continuare con altre materie, per esempio con la matematica, che meglio conosco. Accorciando di un anno i licei, si massacrerà la filosofia – come denunciato in un appello di noti intellettuali e professori – ridotta a uno spezzoncino biennale in via di eliminazione. Occorre fermare questi apprendisti stregoni che ragionano in termini tecnocratici e che, probabilmente, posti davanti a un’interrogazione disciplinare non supererebbero un esame di terza media.
In un suo recente intervento si è soffermato sui cosiddetti Bes, ponendo il problema dei rischi per la didattica ordinaria se l’insegnante deve concentrarsi su troppi percorsi personalizzati, e ha detto che spesso questi bisogni sono riconducibili semplicemente alle differenze individuali. Ci vuole spiegare meglio? Consiglierebbe al neoministro di fare un passo indietro (cosa in parte già fatta anche dall’ex ministro Carrozza, che né ha voluto spingersi a una normativa né ha lasciato un quadro limpido sulla materia)?
L’argomento è complesso e meriterebbe un trattamento a fondo. Mi permetto di rinviare a un discussione dettagliata che ne ho fatto in un video. In linea generale, sono fermamente contrario alla tendenza di trasformare la scuola da luogo di insegnamento e apprendimento a centro di assistenza sociale e alla tendenza alla medicalizzazione della scuola. Sono convinto che occorra fare un deciso passo indietro sui Bes, e non soltanto.
Rilevava poi una contraddizione tra l’ossessione per le misurazioni standardizzate e la tendenza a una didattica sempre più individualizzata. Come se la spiega?
È forse la contraddizione tra due ideologie che si contendono il campo della scuola. È una contraddizione bizzarra: da un lato, si critica tutto ciò che non è “oggettivo” (con una concezione puerile e rozza dell’oggettività che nessuna persona che abbia una seria cultura scientifica potrebbe condividere), proscrivendo i giudizi dell’insegnante in quanto soggettivi e indicando come stella polare l’ideale della standardizzazione; e, dall’altro, si pensa a una scuola in cui tutto sia plasmato su percorsi strettamente individuali. Sono due punti di vista inconciliabili. Di fatto, l’unico approccio che può conciliarli è proprio quello del buon senso del buon insegnante, che persegue obbiettivi il più possibile comuni e tendenti verso l’ottimo e tenta di elevare tutti gli allievi verso questi “standard” più elevati, con un’attenzione speciale ai singoli casi e cercando di recuperare gli allievi in maggiore difficoltà.
Ha criticato l’ambiguità della definizione di dislessia (non è un disturbo, non è una disabilità, ma poi la si tutela come se lo fosse) sottolineando che molte diagnosi vengono certificate con eccessiva leggerezza. Rimetterebbe perciò mano alla legge del 170/2010? In che modo?
Non contesto affatto la definizione di dislessia. Contesto la definizione assurda che si dà dei DSA (Disturbi specifici di apprendimento) nella legge. Chi abbia un minimo di cultura storica sa che l’uso del prefisso “dis” risale alla medicina ippocratica che concepiva la malattia come una perdita dell’armonia naturale: rottura dell’“eucrasia” (come equilibrio armonico del corpo) verso la “discrasia” (prevalenza o insufficienza di una delle componenti che determinano quell’equilibrio). Come tale è rimasta nella medicina (anche in inglese, malattia come “disease”): il dis-turbo è una rottura della “normalità”, una malattia. Secondo la legge i DSA si manifestano in presenza di capacità cognitive adeguate, in assenza di patologie neurologiche o di deficit sensoriali.
Quindi non sono un “disturbo”, non sono una malattia. Ma non sono neppure riconducibili a una mera difficoltà di apprendimento. Non si sa cosa siano. La verità è che chi ha trovato una simile formula insensata l’ha fatto per aderire a un punto di vista demagogico: i vostri figli, pur se DSA, sono normalissimi – anzi, come si dice spesso, sono più intelligenti degli altri – ma hanno delle “difficoltà”. Per reggere in piedi questa assurda baracca concettuale c’è chi poi parla (in contraddizione con la legge) di “diversità” neurologiche, chi di “diversità” genetiche, non portando alcuna prova seria di tali affermazioni. Peraltro, mentre la dislessia è un disturbo noto e accertato, gli altri DSA sono di recente definizione, e di definizione discutibilissima, in certi casi evanescenti e inafferrabili, come nel caso della discalculia. Non c’è dubbio che molte diagnosi sono effettuate con leggerezza e che questa legge induca le famiglie che non vogliono avere problemi a far diagnosticare i loro figli di discalculia, così non dovranno vedersela con un 4 in matematica, e anche alcuni insegnanti pigri a liberarsi dei casi difficili. Come al solito, è molto difficile pensare che si possa rimettere mano a una legge demagogica, dopo che si sono aperte le porte della stalla: è una legge che prevede addirittura facilitazioni sul lavoro per le famiglie con DSA…
Se prevalesse un atteggiamento serio però qualcosa potrebbe essere fatto. Per esempio, definendo in modo diverso le commissioni preposte alla diagnosi, oppure sottoponendo a revisione attenta da parte di commissioni con una composizione mista le diagnosi effettuate da psicologi o neuropsichiatri che spesso non hanno alcuna competenza matematica o lessicale. Occorrerebbe prevedere una normativa con sanzioni nel caso di diagnosi ingiustificate, proprio come accade quando si conferiscono pensioni di invalidità sulla base di false certificazioni. Questo è tanto più necessario in quanto ci si muove su un terreno molto più scivoloso e ambiguo delle malattie puramente fisiche: non è difficile verificare se uno è cieco o no, ma la diagnosi di discalculia o disgrafia è altamente opinabile. D’altra parte, se si è voluto scendere su questo terreno il rigore è doppiamente d’obbligo. Altrimenti, si dovrebbe tornare a una definizione seria e approfondita di questi “disturbi”, senza linciare chi vuole discuterne razionalmente.
Si pensi all’altro “disturbo” accreditato, l’ADHD, o sindrome del bambino agitato. Questo fu introdotto a partire dagli studi dello scienziato statunitense Leon Eisenberg, deceduto nel 2009. Di recente il giornalista tedesco Jörg von Blech ha pubblicato un’intervista di Eisenberg da lui raccolta pochi mesi prima della morte, in cui Eisenberg si mostrava preoccupato di aver aperto un vaso di Pandora di quella che chiamò “fabrizierte Erkrankung”, ovvero una “malattia inventata”!… Quindi, in un ambito così ambiguo nulla è scontato. Tanto dovrebbe bastare per assumere un atteggiamento critico circa una tendenza alla medicalizzazione dell’istruzione che è stimolata da pesanti interessi economici.

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