Verso il referendum. La Buona Scuola è anche una Scuola Legittima? Mettiamo in fila i sospetti, i dubbi di legittimità che ci attraversano già a prima lettura
di Michele Ainis *
La Buona Scuola è anche una Scuola Legittima? C’è insomma un vizio di legittimità costituzionale sotto la virtù di cui s’ammanta, fin dal suo nome di battesimo, la riforma congegnata dal governo? Impossibile rispondere in modo perentorio, perché l’incostituzionalità delle leggi rimane un sospetto, fin quando la Consulta non la dichiari con una specifica sentenza. Però possiamo mettere in fila i sospetti, i dubbi di legittimità che ci attraversano già a prima lettura.
Dubbi formali, innanzitutto. Che in questo caso pesano come una trave, perché la democrazia – come ci ha insegnato Hans Kelsen – è essenzialmente una modalità procedurale. E perché la forma è garanzia di libertà, diceva Calamandrei. Ma è una forma deforme, quella con cui il legislatore italiano confeziona i suoi provvedimenti. Dal «Cresci Italia» di Monti (decreto legge n. 1 del 2012: quell’anno l’Italia continuò a decrescere) alla «Buona Scuola» di Renzi, i nostri governanti meriterebbero un’incriminazione per truffa delle etichette, reato punito dal codice penale. Anche perché non è affatto fortuita l’assonanza fra leale e legale. Non a caso il tribunale costituzionale, in oltre 500 decisioni, ha evocato il principio dell’affidamento, della reciproca fiducia cui devono improntarsi i rapporti fra le istituzioni e i cittadini.
Secondo dubbio formale: la quantità di deleghe che la legge n. 107 del 2015 elargisce nei confronti del governo. Il comma 181 ne detta i principi e i criteri direttivi, come impone l’art. 76 della Costituzione; sennonché talvolta queste linee guida appaiono sin troppo sfumate, ambigue, reticenti. È il caso, per esempio, della delega ad accorpare in un futuro testo unico le disposizioni vigenti sulla scuola, autorizzandolo però ad apportarvi «modifiche innovative» per garantirne la coerenza: una delega in bianco, né più né meno.
Terzo dubbio formale: il maxiemendamento dal quale discende, come un frutto dal seme, la riforma della scuola. Rinverdendo così una prassi deteriore che i costituzionalisti denunziano da tempo, e su cui la Consulta farebbe bene ad accendere il rosso del semaforo. Perché tale prassi consuma una frode in danno dell’art. 72 della Costituzione: le leggi s’approvano «articolo per articolo», ma ogni articolo dovrebbe esporre un unico oggetto, un’unica materia. Perché in caso contrario viene confiscata la libertà di voto dei parlamentari, costretti ad esprimere un «sì» o un «no» in blocco, senza separare il loglio dal grano. E perché il risultato finale non è una legge, bensì un elenco del telefono, oltretutto scritto in ostrogoto: un solo articolo, 212 commi che ti fanno ammalare di commite.
E nel merito? Sulla legge n. 107 sono piovute, fin dalla sua gestazione in Parlamento, accuse d’ogni sorta. Talora pretestuose, quantomeno sul piano della legittimità costituzionale. È il caso dell’alternanza scuola-lavoro, che Alberto Lucarelli (nel suo blog sul Fatto quotidiano) giudica in contrasto con il diritto allo studio. E gli stage che le università italiane propongono da anni ai loro studenti, sono anch’essi incostituzionali? Attenzione a non trasformare il diritto allo studio nel dovere alla disoccupazione. È il caso, per fare un altro esempio, del Comitato per la valutazione dei docenti. Ne fanno parte un rappresentante dei genitori e uno degli studenti, e ciò secondo alcuni offenderebbe la libertà d’insegnamento. Che tuttavia non coincide con l’insindacabilità di cui godono i parlamentari, non è un ombrello da aprire in tribunale. D’altronde pure all’università gli studenti giudicano i loro professori, compilando una scheda di valutazione.
Rimangono però altre due obiezioni, e non di poco conto. In primo luogo circa il finanziamento agli istituti scolastici privati (il buono scuola), vietato dall’art. 33 della Costituzione: «Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato». Un divieto che il nostro legislatore si è messo sotto i tacchi fin dalla legge n. 62 del 2000, firmata dal governo D’Alema; ma nel diritto la recidiva è un’aggravante, non un’attenuante. In secondo luogo, c’è il punto più controverso della Buona Scuola: i poteri del dirigente scolastico. Che gestirà l’organico, assegnando le cattedre ai docenti; li premierà a sua discrezione con un bonus in denaro; formerà la sua squadra di governo scegliendo i docenti da promuovere al rango di ministro.
Insomma, un presidenzialismo nemmeno tanto mascherato; ma senza l’impeachment con cui il Congresso americano può licenziare Obama. Da qui i sospetti d’incostituzionalità, perché il principio democratico – che l’art. 1 della Carta pone a fondamento della nostra convivenza – vale per ogni istituzione pubblica, non solo per le assemblee legislative. E perché la scuola non è un’azienda, perché i docenti dipendono dallo Stato anziché da un manager privato, perché la loro libertà d’insegnamento si svuoterebbe come un uovo se un capoccia potesse dispensare premi e castighi in base a fedeltà politiche, o più semplicemente culturali. «Io non vivo, che per scrivere dei canti» diceva un verso di Béranger, poeta popolare francese vissuto al tempo della Restaurazione «ma se voi, Monsignore, mi togliete il posto, scriverò dei canti per vivere». Ecco, auguriamoci che nella scuola italiana sia ancora possibile cantare.
* Professore ordinario di Istituzioni di Diritto Pubblico all’ Università degli Studi di Roma III, editorialista de “ Il Corriere della sera” e de “ L’ Espresso”
La Buona Scuola è anche una Scuola Legittima? C’è insomma un vizio di legittimità costituzionale sotto la virtù di cui s’ammanta, fin dal suo nome di battesimo, la riforma congegnata dal governo? Impossibile rispondere in modo perentorio, perché l’incostituzionalità delle leggi rimane un sospetto, fin quando la Consulta non la dichiari con una specifica sentenza. Però possiamo mettere in fila i sospetti, i dubbi di legittimità che ci attraversano già a prima lettura.
Dubbi formali, innanzitutto. Che in questo caso pesano come una trave, perché la democrazia – come ci ha insegnato Hans Kelsen – è essenzialmente una modalità procedurale. E perché la forma è garanzia di libertà, diceva Calamandrei. Ma è una forma deforme, quella con cui il legislatore italiano confeziona i suoi provvedimenti. Dal «Cresci Italia» di Monti (decreto legge n. 1 del 2012: quell’anno l’Italia continuò a decrescere) alla «Buona Scuola» di Renzi, i nostri governanti meriterebbero un’incriminazione per truffa delle etichette, reato punito dal codice penale. Anche perché non è affatto fortuita l’assonanza fra leale e legale. Non a caso il tribunale costituzionale, in oltre 500 decisioni, ha evocato il principio dell’affidamento, della reciproca fiducia cui devono improntarsi i rapporti fra le istituzioni e i cittadini.
Secondo dubbio formale: la quantità di deleghe che la legge n. 107 del 2015 elargisce nei confronti del governo. Il comma 181 ne detta i principi e i criteri direttivi, come impone l’art. 76 della Costituzione; sennonché talvolta queste linee guida appaiono sin troppo sfumate, ambigue, reticenti. È il caso, per esempio, della delega ad accorpare in un futuro testo unico le disposizioni vigenti sulla scuola, autorizzandolo però ad apportarvi «modifiche innovative» per garantirne la coerenza: una delega in bianco, né più né meno.
Terzo dubbio formale: il maxiemendamento dal quale discende, come un frutto dal seme, la riforma della scuola. Rinverdendo così una prassi deteriore che i costituzionalisti denunziano da tempo, e su cui la Consulta farebbe bene ad accendere il rosso del semaforo. Perché tale prassi consuma una frode in danno dell’art. 72 della Costituzione: le leggi s’approvano «articolo per articolo», ma ogni articolo dovrebbe esporre un unico oggetto, un’unica materia. Perché in caso contrario viene confiscata la libertà di voto dei parlamentari, costretti ad esprimere un «sì» o un «no» in blocco, senza separare il loglio dal grano. E perché il risultato finale non è una legge, bensì un elenco del telefono, oltretutto scritto in ostrogoto: un solo articolo, 212 commi che ti fanno ammalare di commite.
E nel merito? Sulla legge n. 107 sono piovute, fin dalla sua gestazione in Parlamento, accuse d’ogni sorta. Talora pretestuose, quantomeno sul piano della legittimità costituzionale. È il caso dell’alternanza scuola-lavoro, che Alberto Lucarelli (nel suo blog sul Fatto quotidiano) giudica in contrasto con il diritto allo studio. E gli stage che le università italiane propongono da anni ai loro studenti, sono anch’essi incostituzionali? Attenzione a non trasformare il diritto allo studio nel dovere alla disoccupazione. È il caso, per fare un altro esempio, del Comitato per la valutazione dei docenti. Ne fanno parte un rappresentante dei genitori e uno degli studenti, e ciò secondo alcuni offenderebbe la libertà d’insegnamento. Che tuttavia non coincide con l’insindacabilità di cui godono i parlamentari, non è un ombrello da aprire in tribunale. D’altronde pure all’università gli studenti giudicano i loro professori, compilando una scheda di valutazione.
Rimangono però altre due obiezioni, e non di poco conto. In primo luogo circa il finanziamento agli istituti scolastici privati (il buono scuola), vietato dall’art. 33 della Costituzione: «Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato». Un divieto che il nostro legislatore si è messo sotto i tacchi fin dalla legge n. 62 del 2000, firmata dal governo D’Alema; ma nel diritto la recidiva è un’aggravante, non un’attenuante. In secondo luogo, c’è il punto più controverso della Buona Scuola: i poteri del dirigente scolastico. Che gestirà l’organico, assegnando le cattedre ai docenti; li premierà a sua discrezione con un bonus in denaro; formerà la sua squadra di governo scegliendo i docenti da promuovere al rango di ministro.
Insomma, un presidenzialismo nemmeno tanto mascherato; ma senza l’impeachment con cui il Congresso americano può licenziare Obama. Da qui i sospetti d’incostituzionalità, perché il principio democratico – che l’art. 1 della Carta pone a fondamento della nostra convivenza – vale per ogni istituzione pubblica, non solo per le assemblee legislative. E perché la scuola non è un’azienda, perché i docenti dipendono dallo Stato anziché da un manager privato, perché la loro libertà d’insegnamento si svuoterebbe come un uovo se un capoccia potesse dispensare premi e castighi in base a fedeltà politiche, o più semplicemente culturali. «Io non vivo, che per scrivere dei canti» diceva un verso di Béranger, poeta popolare francese vissuto al tempo della Restaurazione «ma se voi, Monsignore, mi togliete il posto, scriverò dei canti per vivere». Ecco, auguriamoci che nella scuola italiana sia ancora possibile cantare.
* Professore ordinario di Istituzioni di Diritto Pubblico all’ Università degli Studi di Roma III, editorialista de “ Il Corriere della sera” e de “ L’ Espresso”
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