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mercoledì 3 febbraio 2016

Mobbing, quando se ne può parlare nelle scuole? Leggi e sentenze

Avv. Marco Barone
Con il passare degli anni i casi malattia professionale correlati a situazioni di stress che vedono il nesso di causalità in climi ambientali e lavorativi ostili ed azioni vessatorie sono certamente cresciuti.
E sicuramente con la Legge 107 del 2017, visti i poteri in chiave fortemente decisionista ed autoritaria che vanno a rinforzare in modo improprio il ruolo della dirigenza scolastica, la situazione non può che peggiorare. In termini generali il mobbing “ designa un complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori protratti nel tempo posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all'obbiettivo primario di escludere la vittima del gruppo (cfr. fra tutte Corte Cost. n. 359/2003)”.

Il Tribunale di Milano con la sentenza del 19-01-2015 rileva che ai fini della configurabilità de mobbing lavorativo, in merito ad un caso che riguardava un contenzioso all'interno della scuola devono ricorrere molteplici elementi:
a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio illeciti o anche leciti se considerati singolarmente che, con intento vessatorio siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto (che può essere anche il collaboratore del Ds) o anche da parte di altri dipendenti sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima; d) il suindicato elemento soggettivo cioè l'intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi (cfr. Cass. 21.5.2011, n. 12048; Cass. civ., 23.3.2010, n. 7382).

Il Tribunale di Cassino, con Sentenza del 16-09-2015 rileva che “sulla scorta degli indirizzi giurisprudenziali di legittimità, per mobbing si intende l'insieme degli atti e comportamenti posti in essere dal datore di lavoro, capi, intermedi e colleghi, che si traducono in atteggiamenti persecutori, attuati in forma evidente, con specifica determinazione e carattere di continuità, atti ad arrecare danni rilevanti alla condizione psico-fisica del lavoratore, ovvero anche al solo fine di allontanarlo dalla collettività in seno alla quale egli presta la propria opera. Se ne ricava, dunque, che, ai fini della configurabilità della condotta di mobbin rilevano: "... a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio." (cfr., ex pluribus, Cass., Sez. L, 17 febbraio 2009, n. 3785, Rv. 606624)”.

Si è anche distinto tra atti e comportamenti tipici, ossia inerenti alla gestione del rapporto di lavoro, e fra questi rientra il demansionamento, il trasferimento, l'adozione di provvedimenti disciplinari, etc., ed atti atipici che non hanno un'attinenza diretta con il rapporto di lavoro, quali ad es. quello di evitare di parlare con la vittima, ridicolizzarla, etc..

E' opportuno precisare, tuttavia, che il demansionamento, od atti similari, “ quando è assistito dall'intento vessatorio, di cui sopra, ossia dalla precisa finalità di danneggiare il lavoratore, integra una delle possibili modalità di estrinsecazione del mobbing come sopra definito. In difetto di una specifica intenzionalità lesiva, il demansionamento, al di fuori delle ipotesi in cui è consentito per espressa previsione di legge o per costante orientamento giurisprudenziale (ad es. quando motivato dalla tutela dello stato di salute delle lavoratrici durante il periodo di gestazione e fino a sette mesi dopo il parto ex art. 7 del D.Lgs. n. 151 del 2001), costituisce pur sempre un illecito di natura contrattuale violativodell'art. 2103 c.c.. Sotto quest'ultimo profilo, la colpa, sufficiente ai fini dell'addebito di responsabilità, soggiace allo schema presuntivo prefigurato dall'art. 1218 c.c., con conseguente inversione dell'onere in capo al datore”.

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