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sabato 10 aprile 2021

L’INVALSI nella pandemia, che fare?

 di Gianluca Gabrielli da comune-info.net

Qualche giorno fa, mentre come le altre duecentomila maestre d’Italia stavo preparando l’ennesimo intervento a distanza, alcune colleghe mi hanno segnalato un articolo pubblicizzato nella pagina facebook di una delle riviste più seguite dagli insegnanti di scuola primaria. L’articolo sosteneva fin dal titolo l’assoluta necessità e la cruciale importanza di disputare anche quest’anno le prove Invalsi. Non ci volevo credere. Piuttosto, con un’ingenua fede illuministica attendevo già da tempo e consideravo imminente l’annuncio dell’annullamento dei test in ogni ordine di scuola – causa pandemia. Mi pareva semplice buon senso e non mi sforzavo neppure di articolare dentro di me le ragioni per cui davo per scontata questo cancellazione.JPEG - 102.9 Kb

Poiché insegno quest’anno proprio in una classe seconda di scuola primaria, il mio interesse è aumentato. Le bambine e i bambini di sette e otto anni che frequentano la classe seconda infatti sono destinate dai protocolli ad essere sottoposte ai test. Sono però anche bambini e bambine reduci dall’anno di accesso alla scolarità (lo scorso anno) caratterizzato da più di quattro mesi didattica a distanza, e di nuovo quest’anno sono stati costretti a fare didattica da casa insieme alla mamma o al papà, con un dispositivo a volte funzionante e altre traballante, con una connessione più o meno precaria. Sono classi composte dai giovani del 2013, annata che verrà ricordata in futuro come quella che ha subito la pandemia nel momento dell’apprendimento della letto-scrittura. Così mi sono chiesto la ragione di questa decisione – ai miei occhi di maestro del tutto incomprensibile – ed è cresciuta l’inquietudine e la voglia di capire come si sarebbe potuta articolare una tale giustificazione. Mi sono registrato sul sito dell’importante casa editrice e ho potuto leggere le motivazioni che dovrebbero spingere me e tutti i docenti italiani a desiderare anche quest’anno di fare svolgere i test ai propri allievi e alle proprie allieve.

A cosa servono le prove Invalsi nell’era della pandemia

L’articolo è firmato dal dottor Paolo Mazzoli, che nel recente passato è stato Direttore generale dell’Invalsi, e già mi è parso di cominciare a comprendere da dove veniva la motivazione a glorificare lo svolgimento delle prove. Ma rimaneva il dubbio più serio: come si poteva giustificare in termini pedagogico didattici la conferma dei test?

Il dottor Mazzoli nell’articolo sostiene che la somministrazione di questi test sarebbe decisiva per farci capire l’effetto di questi due anni di pandemia sulle diminuite conoscenze delle alunne e degli alunni. Secondo Mazzuoli “le prove INVALSI […] forniranno i primi dati italiani sulla qualità degli apprendimenti dell’epoca Covid-19”. Egli ci spiega che l’Invalsi ha individuato attraverso i test (in questo caso quelli di comprensione) l’esistenza di sei fasce di alunni, dagli “alunni più deficitari” agli “alunni eccellenti”; ci rivela poi che nel 2019 il 5% degli alunni si collocava nella fascia di eccellenza e un altro 5% si collocava “al livello più basso”. Inoltre ci spiega che una seconda elaborazione dei dati fornisce addirittura una “misura della diseguaglianza scolastica”, tanto da svelarci che nel 2019 “un ragazzo di condizioni socio-economiche alte conseguiva mediamente 27,9 punti in più di un suo compagno in condizioni socio-economiche basse” … E chi se le aspettava tutte queste incredibili scoperte!

Mazzoli è orgoglioso di questi risultati del pachidermico e ormai più che decennale sistema di raccolta dati dell’Invalsi, e afferma che i “due grafici forniscono un quadro abbastanza completo dell’efficacia del sistema scolastico, sia in termini di competenze conseguite dagli alunni che in termini di equità del sistema”.

L’entusiasmo non è limitato al valore euristico dei risultati del passato, ma proprio alla possibilità di paragonare questi milioni di dati ai nuovi risultati che ritiene doveroso raccogliere anche quest’anno. L’obiettivo socio-scientifico che l’Invalsi si pone infatti è scoprire “come potrebbero modificarsi questi risultati in seguito alla lunga chiusura delle scuole a causa della pandemia”. Qualche idea Mazzoli ce l’ha: “Molti indizi inducono a pensare che anche questa volta si è confermato il fenomeno, più volte documentato dagli storici, per il quale nei momenti più critici le diseguaglianze riemergono, più forti di prima”. Ma va! Davvero un’ipotesi geniale che non ci sarebbe mai venuta in mente senza il supporto dei dati Invalsi… un’ipotesi però che non potremmo certo sostenere senza milioni di nuove somministrazioni, e quindi milioni di nuovi numeretti da mettere in tabella. Mazzuoli conclude: “Vale dunque la pena leggere con attenzione i risultati della propria classe, della propria scuola e del nostro sistema scolastico nel suo insieme colpito così duramente dalla pandemia”.

Ma come si possono fare i test come se nulla fosse?

La fede degli uomini esperti di statistica sui loro strumenti a volte supera quella di tutte le chiese sull’efficacia delle preghiere.

Prima di tutto è incredibile vedere che un giro di milioni di euro per un processo mastodontico di raccolta dati alla vecchia maniera viene confermato in una stagione tanto eccezionale per l’unico scopo di confermare con dei numeri quello che il senso comune dell’ultima persona che passa in strada può già dirci chiaramente: cioè che gli stravolgimenti di questi due anni hanno aumentato la forbice del sapere e che la tenuta delle classi sociali più alte è maggiore di quella delle classi sociali più basse. Sarebbe come se il governo decidesse quest’anno di investire milioni in una ricerca che in maggio sospendesse per tre giorni l’attività di tutti i ristoranti italiani per verificare se in questi due anni gli affari siano aumentati o diminuiti. Anche qui l’uomo o la donna della strada potrebbe dire: “Lascia perdere, risparmia quei soldi e lascia lavorare quei ristoranti, te lo dico io: sono diminuiti”.

Ma anche non considerando l’inutilità dei test rispetto al fine dichiarato, è proprio la loro stessa pseudo struttura scientifica che mostra ingenuità imbarazzanti. L’idea che test di apprendimento preparati per classi che funzionavano normalmente possano essere validi con classi in pandemia e produrre una raccolta di dati “oggettivi” utili a “diagnosticare” il ritardo di apprendimento causato dalla didattica a distanza (addirittura “misurarlo”) è puerile, ridicola agli occhi di chi abbia un minimo di infarinatura dei principi della sociologia dell’educazione e una decente conoscenza della complessità dei processi di apprendimento.

I bambini non sono provette. Fare quest’anno, a valle di due anni di pseudo-didattica intermittente, prove preparate per una stagione normale produrrà frustrazione, senso di inadeguatezza, sofferenze ulteriori a quelle già accumulate. Mi pare molto semplice da capire, anche un esperto di analisi statistica dovrebbe riuscire a cogliere questa realtà. Tra l’altro quale validità potrebbe mai avere un risultato di un test fatto in queste precarie condizioni sociali e affettive? Qualsiasi preparatore atletico che dovesse fare svolgere un test di forza ad un allievo stressato da una notte in cui non ha dormito e da una situazione emotiva fragile saprebbe benissimo di non poter utilizzare per confronti i risultati che scaturiscono da quelle prove, perché non venendo fatte in condizioni standard, non rispetterebbero tutti quei principi di somministrazione corretta di cui vanno blaterando proprio i teorici dell’Invalsi nelle proprie istruzioni come presupposti per le presunte oggettività e validità dei risultati. Quindi è davvero difficile capire come mai gli stessi scienziati Invalsi non si siano affrettati a comunicare che quest’anno, viste le condizioni generali in cui si sarebbero svolti, non avrebbe avuto senso svolgere i test.

È avvilente – anche per chi come me le ha da sempre contestate – vedere come i teorici dell’Invalsi considerino le prove come un qualsiasi kit per la rilevazione del numero di globuli rossi nel sangue o la quantità di glucosio nelle urine. Lo scientismo ingenuo che informa l’entusiasmo trionfante di questi “scienziati” fa cadere le braccia. Ma addolora soprattutto l’idea che questi teorici hanno delle piccole persone cui pensano di somministrare i test. Nei confronti dei bambini infatti la decisione della conferma rivela un atteggiamento di reificazione impietoso, che non si ferma neppure di fronte ai traumi di cui parlano ormai non solo i pedagogisti ma sempre di più i neuropsichiatri. Sono “tecnici” che pensano solo a fare ricerca sui bambini poiché solo quella sanno fare.

Allora perché non sospendono i test?

Quali sono allora le reali motivazioni che spingono questi pseudoscienziati dell’educazione a confermare ostinatamente le date delle prove Invalsi proprio nel momento in cui siamo stati costretti a tornare per l’ennesima volta a distanza e a inventarci una qualche didattica di prossimità affettiva con le nostre bambine e i bambini? Credo che la risposta sia da cercare nella disperata risolutezza delle gerarchie Invalsi nel confermare il loro ruolo, nella volontà di difendere nonostante tutto il potere che hanno acquisito negli ultimi quindici anni e che tutt’ora gestiscono; è la determinazione a riprodurre, nonostante tutto, un carrozzone che muove molti soldi, sostenuto dalle case editrici che producono eserciziari e quindi a loro volta guadagnano sull’indotto del carrozzone. Tutte cose che già sapevamo, nulla di nuovo. Eppure quest’anno, in questi giorni, possiamo scoprire qualcosa di inedito, di singolare. Possiamo vedere i risultati di un vero test: “sperimentare” fino a che punto la volontà di autoriprodursi di questo carrozzone riuscirà ad ignorare bellamente la tragedia della pandemia e l’angoscia delle bambine e dei bambini, delle insegnanti e dei genitori coinvolti.

La loro fredda determinazione nel ribadire lo svolgimento dei test e i comunicati stampa con la conferma delle date che uscivano – mentre facevamo salti mortali per consegnare i tablet mancanti – mi hanno rivelato un livello di distanza dalla scuola reale e di ridicola e imbarazzante rigidità, di scollamento dal contesto generale che, sinceramente, non pensavo arrivasse a questo livello.

Ma dove vivono?

“Ma dove vivono?” commentava sulla pagina facebook della casa editrice una lettrice dell’articolo di Mazzoli, incredula come tutti gli altri lettori. Già. Dove vivono? Scrivendo queste riflessioni sono andato a rivedermi quel post di facebook dove il 17 marzo avevo scoperto l’articolo e letto i moltissimi commenti indignati di insegnanti come me. Purtroppo però oggi il post non c’è più, e anche il link all’articolo che avevo caricato nel mio profilo non porta più ad una pagina attiva. Forse erano imbarazzanti i commenti critici? Sì, meglio fare così, cancellare il post con i commenti e cambiare il link e il titolo dell’articolo, che inizialmente era Prove invalsi 2021, più importanti che mai, mentre ora, se lo riuscite a trovare nel sito web, si intitola Prove invalsi 2021: facciamo il punto. Conviene fare così, nascondere le critiche, cambiare i titoli, fare finta di nulla e andare avanti, come se nulla fosse, pandemia compresa.

Mi viene in mente la chiusa del Diario di un pazzo di Lu Xun: “Salvate i bambini!…”. Chiamerò il telefono azzurro. Farò sciopero. Se mi nomineranno somministratore disobbedirò. Rivendicherò il diritto dei bambini e mio a tutelare quelle preziose ore di didattica che ci sono rimaste. Avete altre idee? Qualcosa bisogna fare…

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