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martedì 13 giugno 2023

Appunti per la ripresa della discussione e del conflitto . Coordinamento sedi Cobas Scuola autoconvocate

 L’ultima Assemblea Nazionale del 29 e 30 ottobre 2022 a Firenze ha sancito una  divisione significativa all’interno dei Cobas Scuola, tant’è che non sono stati eletti, come sarebbe dovuto avvenire, i nuovi organismi. A questo punto una risicata maggioranza, che nelle votazioni non avevaraggiunto il 50% + 1 dei voti (46 a favore, 39 contrari, 9 astenuti) ha deciso che, contrariamente a quanto previsto dallo Statuto, il quale afferma che «Ogni mandato non può avere durata superiore ad un anno e non è tacitamente rinnovato», per l’anno successivo sarebbero restati in carica gli organismi eletti precedentemente. In precedenza, nell’assemblea provinciale di Napoli, addirittura, dopo l’elezione dei delegati, che aveva visto prevalere la mozione alternativa a quella proposta dai componenti della maggioranza dell’esecutivo provinciale, l’assemblea è stata sciolta d’imperio, impedendo la votazione del nuovo organismo provinciale, punto regolarmente presente nell’O.d.g.

Infine, al termine dell’Assemblea Nazionale è stato prodotto un verbale che non corrispondeall’andamento dei lavori (mettiamo a disposizione di quante/i fossero interessate/i una registrazione dell’assemblea).

Pur avendo chiesto più volte che si procedesse alla convocazione di una nuova Assemblea Nazionale, deliberante e con delegati, abbiamo ricevuto solo risposte negative.

Si tratta di tre fatti molto gravi, e molte altre cose gravi sono accadute al nostro interno. Per discutere le iniziative da intraprendere, al fine di superare le contraddizioni e i limiti di questa situazione, rappresentanti delle diverse sedi e singoli militanti nei giorni 27 e 28 maggio si sono dati appuntamento a Roma.

L’autocritica dei Cobas Scuola

Occorre, innanzitutto, prendere atto che la difficoltà di estensione e radicamento del sindacalismo dibase (e dei movimenti in generale) necessita di un’analisi approfondita e complessa che non può essere ulteriormente rinviata. Il riconoscimento diffuso della realtà del sindacalismo di base (che eredita l’esperienza di consigli di fabbrica e simili) viene solitamente datato alla metà degli anni ‘80 con la nascita dei Cobas Scuola. Una valutazione dell’agire teorico e pratico si rende quindi necessaria dopo 37 anni di presenza nello scenario sindacale e politico italiano, cercando di comprendere i motivi che oggi ne determinano una quasi insignificanza nel contesto attuale.

Noi ne individuiamo in particolare due: le difficoltà interne, determinate dalla scarsa capacità di riuscire a superare modelli verticistici tipici di altre organizzazioni, e le difficoltà esterne, rappresentate dalla non comprensione della fase politica degli ultimi decenni.



Le difficoltà interne

La critica al modello competitivo di relazione sociale, tipico della società capitalistica, non è riuscita a produrre anche un’autocritica in riferimento alle modalità di relazione interne, nonostante la puntuale e ormai consolidata produzione teorica del movimento femminista su questa questione. Invece si tende a riprodurre una modalità di organizzazione verticistica e centralizzata secondo gli schemi consolidati che contestiamo e che spesso, in modo perfino più subdolo, si attua con il riconoscimento “carismatico” del leader all’interno di organizzazioni e movimenti che si definiscono di base.

Riteniamo che questi rischi riguardino il sindacalismo di base, ma anche i movimenti tout court e quindi anche i Cobas Scuola in cui, come afferma Stefano Boni in “Orizzontale e verticale. le figure del potere”, emerge una certa «insofferenza con cui un processo decisionale orizzontale viene accolto da alcune istituzioni, abituate a considerare la parola pubblica come una prerogativa

di un capo che la impone verticalmente a un uditorio passivo»[1].

Di fronte all’evidente tentativo di restringimento degli spazi di democrazia in atto nel nostro Paese ci sarebbe, invece, necessità sempre più urgente di capacità di coinvolgimento, di momenti che favoriscano la partecipazione personale e collettiva.

L’esperienza dei Comitati di Base della Scuola, consapevolmente o inconsapevolmente, era nata anche con questi paradigmi, come tutte le esperienze storiche “dal basso”. Più in generale le agitazioni promosse dai Cobas Scuola avevano sì lo scopo di produrre un risultato a breve termine di miglioramento delle condizioni del personale scolastico, ma erano concepite come parte di un processo a lungo termine di autoeducazione collettiva. La partecipazione e la condivisione non erano pertanto elementi di contorno, ma essenza dell’azione politico-sindacale: i mezzi e il fine rappresentavano due poli dialettici e non un nesso causale.

Il ribaltamento critico delle scelte dei soliti Cgil, Cisl e Uil non era solo nel merito di un contratto (1987), già allora orrendo e aziendalistico, ma era anche determinato dalla totale assenza di condivisione di tali scelte: si decideva nelle segrete stanze delle segreterie e poi, attraverso assemblee sindacali nelle scuole, si tentava la classica operazione di convincimento del personale sulla bontà delle piattaforme.

L’originalità del nostro percorso si era ulteriormente manifestata negli anni ‘90 e 2000, quelli dell’egemonia “neoliberista”, che hanno messo in luce i limiti delle organizzazioni operaie tradizionali che, nel migliore dei casi, hanno tentato di resistere agli attacchi padronali, ma che non erano in grado di fornire una visione alternativa all’impianto teorico egemone a causa dell’accettazione della narrativa del mercato come sistema economico autonomo e autoregolatorio.

I confederali (e i loro riferimenti partitici) sono anche riusciti a depoliticizzare le proprie politiche, che sono state presentate come mere espressioni di scelte economiche razionali, la cui logica era appannaggio esclusivo di una classe di teorici, tecnocrati, esperti. In tale contesto si sono anche ripristinate gerarchie di valori e di ruoli, esplicitando i limiti della democrazia parlamentare e

partecipativa con tendenze a restringere a numeri sempre più ristretti luoghi e poteri decisionali in relazione a ciò che deve rimane di competenza collettiva.

Ora, tornando all’oggi e osservando l’attuale situazione dei Cobas e del sindacalismo di base in generale, ci pare che alcune delle difficoltà che incontriamo, e che stanno determinando addirittura un regresso nella nostra capacità di rappresentanza (vedasi ultime elezioni RSU), siano determinate da una “normalizzazione” della nostra prassi e da una silente accettazione dello status quo. Nello specifico della scuola attribuire la responsabilità delle nostre difficoltà alla categoria che sarebbe ormai non coinvolgibile sul terreno sindacal-politico è una scorciatoia teorica autoassolutoria che non serve a nessuna/o. Dobbiamo, invece, recuperare la dimensione dei Comitati di Base come luogo di riflessione e azione in un’ottica educante ed autoeducante, così come è stato fatto da quel personale scolastico, seppur non maggioritario, che si è reso protagonista delle lotte nei decenni passati quando siamo stati in grado sia di elaborare contenuti propositivi che di opporre resistenza aiprocessi di ristrutturazione capitalistica in atto.

I Cobas Scuola, infatti, pur largamente minoritari per voti e numero di iscritti, sino ad un certo punto sono stati credibili nel contrastare politiche nefaste in ambito scolastico e ciò sia dal punto di vista della difesa materiale sia della battaglia culturale, come è accaduto nel caso della lottaall’Invalsi. I Cobas Scuola hanno rappresentato, al di della quantità di adesioni, un punto di riferimento per quanti, prescindendo dalla loro collocazione, avevano, e hanno, un’altra idea di scuola rispetto a quella governativa, cioè credono in una scuola democratica, orizzontale e con l’obiettivo di sviluppare la soggettività critica degli studenti e delle studentesse.

Le elezioni RSU del 2018, pur con un risultato distante dalla soglia della rappresentatività del 5%, avevano confermato una presenza sufficientemente diffusa e credibile. E ciò nonostante la lotta contro la Legge 107/2015 non avesse mantenuto le potenzialità emerse con gli scioperi del 5 maggio e quelli degli scrutini. I referendum avrebbero potuto rappresentare una prosecuzione possibile della lotta, ma in quel caso abbiamo sottovalutato il fatto che insieme con noi raccoglieva le firme chi aveva condiviso (si pensi alla FLC),

e spesso promosso, quanto prodotto da Luigi Berlinguer in poi.

Si è così determinata una sorta di paradosso: la lotta contro la Legge 107/2015 ha ottenuto risultati importanti (fine della chiamata diretta, abolizione del bonus premiale, riduzione dell’alternanza) chenon sono stati valorizzati, contribuendo così a far crescere l’idea dell’inutilità delle lotte e degli scioperi e il conseguente approssimativo giudizio che siamo di fronte a una categoria interessata ormai solo a difendere piccoli, e personali, obiettivi materiali. Un’idea che ha fatto strada anche al nostro interno, per cui bisognava fare attività strettamente sindacale e dall’altro utilizzare il CESP per una battaglia politico-culturale di “nicchia”, come se si trattasse di due momenti separati: da un lato i microconflitti, dall’altro la riflessione sui temi generali.

In sostanza, a prescindere dal dibattito e dal confronto interno, è prevalsa l’idea che il conflitto non fosse più possibile all’interno delle scuole e che chi non era d’accordo rappresentava un romantico nostalgico del passato, dimenticando che la scuola è una delle principali casematte per rimettere in discussione il presente, anche, e forse soprattutto, quando sembra prevalere l’idea della Fine della storia[2].

Invece noi riteniamo che oggi, come ieri, non hanno senso le battaglie sindacali, se non sono parte di un’idea complessiva di trasformazione, in grado, nel nostro caso, di contestare alla radice competenze e merito e di rimettere al centro la questione della funzione sociale della scuolapubblica. Un terreno, quest’ultimo, progressivamente espulso dalle nostre riflessioni. A questo deficit teorico/concreto è seguita una progressiva difficoltà nelle mobilitazioni, basti ricordare l’enorme differenza della nostra (e dell’intero movimento) partecipazione al primo e al secondo corteo romano degli Indivisibili.

Tutte queste difficoltà, peraltro, sono ulteriormente cresciute con la diffusione del Covid. Soprattutto perché non abbiamo messo al centro la difesa della sanità pubblica di prossimità (come tutti, ci siamo concentrati sulle terapie intensive) e contrastato adeguatamente quell’idea di società chiusa e repressiva che è cresciuta, anche nel linguaggio - si pensi al termine coprifuoco o alla “guerra” al virus - durante la pandemia. Con riluttanza si è

accettata la scelta delle quattro sospensioni di componenti l’EN (nella conferenza stampa fatta a Roma, erano presenti testate delle province dei quattro, ma nessun mass-media romano, neanche una radio di quartiere, per non parlare delle testate nazionali); non si è fatta una coerente battaglia contro il green pass e contro l’obbligo vaccinale introdotto, pena la sospensione da lavoro e stipendio: siamo stati troppo timidi di fronte a lavoratori cui, caso unico, è stato tolto l’intero stipendio. Insomma, un pasticcio che, per evitare scelte chiare e per preservare una unità interna, dimostratasi solo di facciata, alla fine non hapagato in nessuna direzione.

Non solo, l’avvento del Covid ha evidenziato anche altre nostre fragilità, tra cui quella di non saper gestire collettivamente una situazione che aveva determinato letture differenti, difficili da ricondurre a sintesi. Abbiamo ripercorso pratiche di esternazioni individuali con poco o scarso confronto e molto avventurismo, come, ad esempio, la fuorviante lettura del PNRR, come “reale” opportunità che avrebbe messo in discussione i parametri neoliberisti, rilanciando la spesa in deficit e determinando un positivo ritorno economico per le masse popolari.

La mancanza di confronto politico collettivo e il tentativo stesso di negare le differenze, riducendo la dialettica interna ad un mero scontro di potere, ha determinato a questo punto il prevalere di una banale logica dei numeri, che, una volta applicata, determina schieramenti preventivi: non si interviene in base ai contenuti, ma in rapporto a chi li propone. In sostanza, la nostra fragile democrazia interna ha funzionato solo sino a quando c’è stata una larga maggioranza concorde, capace eventualmente di accettare i singoli dissenzienti.

Anche la gestione della guerra ha riproposto questi stessi meccanismi. Non colpisce tanto il fattoche alcuni (pochi) al nostro interno si siano dichiarati a favore dell’invio delle armi all’Ucraina, quanto la diffusione di critiche, che non tenendo conto della realtà e di quanto prodotto (si pensi ai convegni CESP La scuola laboratorio di pace e alla costruzione dell’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole, che pure sta avendo ottimi riscontri nazionali), utilizzano la banalizzazione delle posizioni altrui (l’adozione acritica del termine di “putiniani” usato dal

mainstream) che, oltre a fare giustamente indignare chi le subisce, non permette certo lo sviluppo di una dialettica necessaria.

In conclusione, crediamo che vada portata avanti una seria autocritica su un duplice terreno: da una parte, occorre fare i conti con i residui teorici del passato, cioè con la parte “consapevole” dell’intellighenzia che si fa depositaria della “Verità assoluta” e che prefigura già in partenza un’organizzazione verticistica, al di là di come ci si autodefinisca. Dall’altra parte, occorre riconoscere le incrostazioni che questo modello sociale ha introdotto anche nei nostri rapporti, riproducendo competitività e leaderismo dove dovrebbero prevalere solidarietà e condivisione. Il paradosso determinato dalla sincronizzazione di questi due aspetti ha come conseguenza il soggettivismo esasperato che contraddistingue il sindacalismo di base, creando le difficoltà precedentemente evidenziate sia nella gestione dei processi democratici interni alle singole organizzazioni sia in riferimento alle difficoltà di relazione tra le organizzazioni.

In sostanza crediamo che vadano cercate e praticate nuove forme di relazione, di confronto e di rappresentanza atte a concretizzare una struttura organizzativa che sia partecipata e di “base”. Nel merito vi sono esperienze interessanti a livello mondiale dal Chiapas al Sudamerica, dal Kurdistan alle comunità berbere ed anche in alcuni paesi europei alcune esperienze costruite dal basso stanno cercando di affrontare questa questione anche attribuendo a rotazione ad un membro dell’assemblea il ruolo di portavoce con un semplice sorteggio, prassi considerata da molti studiosi il correttivo necessario per innestare il meccanismo della responsabilità politica e sociale sugli automatismi elettorali, sempre più inficiati dall’egemonia economica e mediatica neoliberista di grandi centri di potere[3]. Potrebbe essere un modo per superare l’attuale incancrenimento?

Le difficoltà esterne

In merito a questo, non possiamo non vedere come le difficoltà dei movimenti sindacali di base, ma, in generale, di tutte le associazioni/organizzazioni che si occupano della questione sociale, si intrecci inevitabilmente con la questione politica. I

“movimenti” che dagli anni Sessanta fino, per qualche aspetto sociale, agli anni Novanta, avevano in qualche modo un interlocutore nella sinistra istituzionale e, quindi, una concreta sponda alle rivendicazioni e alle lotte, oggi sono del tutto privi di riferimenti all’interno delle istituzioni o, addirittura, come per alcuni movimenti dei precari della scuola, gli interlocutori vengono paradossalmente cercati a destra. Va da sé che anche la dinamica sociale del capitale, che ha consentito in quegli anni una redistribuzione di parte della ricchezza prodotta, oggi, all’interno della crisi globale in atto, non è più proponibile.

Per questi motivi i movimenti hanno di fatto dismesso di intraprendere azioni “offensive”, volte a cambiamenti normativi ispirati al bene comune (l’ultimo tentativo è stato quello dei referendum sull’acqua pubblica). Tuttavia, permane una necessità di mobilitazioni “difensive”, ma spesso anche queste non riescono a centrare l’obiettivo e, comunque, sono in genere prive di prospettiva politica (ad eccezione forse dell’esperienza della GKN). Sembra, però, che in generale i movimenti tendano a replicare schemi del passato in una parodia di quanto accaduto negli anni Sessanta e Settanta, senza che ci si renda conto della nuova fase antropologica, sociologica, economica e politica in cui versiamo, completamente diversa rispetto al passato e per cui è necessario un rinnovato spettro di lettura con un margine più ampio.

Non possiamo non notare, ad esempio, come anche l’unico tentativo di costruire una sponda politicaalle istanze sociali (Potere al Popolo nel 2017-18) sia scarsamente riuscito, da un lato a causa di diatribe soggettive di chi aveva cercato di dare vita a quell’esperienza, dall’altro, a causa delle differenze di analisi politica. Non vogliamo dilungarci nel merito su questa questione specifica, tuttavia l’abbiamo citata solo per concretizzare quanto affermato in relazione agli strumenti di lettura della realtà, che mettono in circolo meccanismi che passano dall’analisi biopolitica ad un approccio che si allarga anche alla dimensione psicopolitica[4].

Ci troviamo, quindi, di fronte ad una evidente contraddizione: da una parte, nella scuola come in altri settori, domina una politica istituzionale compattamente schierata a difesa del modello di

rapporti sociali capitalistici; dall’altra si continua a perpetrare una prassi di rivendicazioni rivolte alle principali istituzioni per l’adozione di politiche di segno opposto, attente al sociale, quando sono proprio le attuali forze politiche istituzionali, con scarse o nulle differenziazioni, che rappresentano il motore cosciente della ristrutturazione capitalistica in atto.

Autonomia differenziata, quiz Invalsi, scuola delle competenze, Alternanza scuola lavoro/PCTO, “merito” e carriere, attacco alla scuola della Costituzione, tagli al comparto istruzione e all’organico, digitalizzazione sono solo alcune delle iniziative condivise, nella sostanza, da tutti i governi succedutisi da oltre vent’anni in Italia. Insieme all’attacco “ideologico” si è venuto a determinare il progressivo impoverimento dei salari (tranne, ovviamente, per i Dirigenti Scolastici)e la graduale “emarginazione sociale” dei lavoratori della scuola.

L’Italia governata dalla destra vuole fare a pezzi il Paese togliendo il reddito di cittadinanza, promuovendo la flat tax, respingendo gli immigrati e riscrivendo la storia italiana. Nell’Europa attraversata dalla guerra e dall’economia di guerra, sempre più subordinata alla NATO, i lavoratori non hanno più rappresentanza nei parlamenti.

Queste considerazioni sono necessarie anche per introdurre una riflessione su alcuni aspetti della vita politica italiana. Le lacrime di coccodrillo sul decremento pressoché costante della partecipazione al voto denotano una lettura dei fatti distorta: le cose vanno male perché le persone non partecipano alle elezioni, sostengono alcuni politici e relativi commentatori. Si tratta dell’ennesima immagine capovolta della realtà, che si impone attraverso quella che potremmoormai definire una pervasiva guerra cognitiva ai danni delle soggettività. Noi diciamo che le persone non partecipano alle elezioni proprio perché queste sono, di fatto, diventate una farsa in cui non si decide quali saranno le politiche governative (di fatto sempre le stesse appunto) ma solamente chi debba gestirle, evidenziando palesemente il contrasto alla radice dell’opposizione, funzionale al dominio neoliberista, tra government e governance.

La crisi di rappresentanza e il malessere della maggioranza della popolazione possono rappresentare una miscela pericolosa, ecco perché oggi come 100 anni fa si pone la necessità di un governo

“autoritario”, che gestisca la crisi capitalistica in atto e tutte le altre crisi concentriche e collaterali, difendendo gli interessi di una minoranza privilegiata in uno stato di eccezione ed emergenza continua. Ma questo governo e i rapporti sociali determinati dal capitalismo, non possono risolvere le crisi in atto, in quanto sono essi stessi la causa della crisi.

Per questo pensiamo che non ci si possa limitare ad una sorta di geremiade sulla latitanza di partecipazione e di opposizione delle masse popolari, ree anche di aver scelto Giorgia Meloni come unica novità in cui sperare! Piuttosto non possiamo non constatare come a tale non irresistibile esito politico abbiano appunto contribuito anche errori di analisi, pochezza politica, disorganizzazione e protagonismo leaderistico che pure alberga nella sinistra anticapitalistica, sinistra da ripensare e riorganizzare.

Riteniamo, infatti, che ricondurre teoria e pratica politica al solo

«uniamoci tutti contro i fascisti» in un neo frontismo degli anni Duemila possa essere estremamente fuorviante e sintomo di enorme cecità, non cogliendo, in concreto, dove sia riposta la radice del potere nel presente momento storico e, di conseguenza, mancando l’obiettivo strategico dell’azione politica.

Ci riconosciamo, pertanto, nella parte della comunità politica che coniuga antifascismo e anticapitalismo, pur vedendo di questa area i limiti, gli errori e le carenze che non hanno consentito di produrre un’analisi seria commisurata alla portata della situazione sociale, politica ed economica del Paese: sono venuti a mancare un dibattito accurato e un’analisi anche delle nostre responsabilità su come si è venuta a determinare la situazione attuale, mancanze riconducibili sia a singolisoggetti che a gruppi politici.


Conclusioni

E veniamo al centro della questione che cerchiamo di denunciare: occorre urgentemente superare questa fase di smarrimento o, addirittura, di possibili ulteriori divisioni, che non sono minimamente contemplate nel nostro orizzonte di lettura della strategia politica e sociale; occorre, invece, creare sinergie e contatti tra le esperienze e le vertenze in atto; occorre realizzare forme di

coordinamento tra realtà diverse a partire dal sindacalismo di base, nel rispetto delle specificità di ciascuna, provando a essere presenti con iniziative di informazione, dibattito e lotta “in comune”, così come il coordinamento di molte sedi Cobas Scuola è stato capace di realizzare con l’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole. Così come molti Collegi Docenti, ancora non coordinati fra di loro, stanno rifiutando le figure dei Tutor e Orientatori, ultima realizzazione dell’idea di scuola-azienda, come altri docenti, insieme a studenti e famiglie, stanno esprimendo pesanti critiche e/o bocciando iprogetti del PNRR.

In questo contesto c’è tutto lo spazio necessario per un rinnovato impegno dei Cobas, ma per realizzarlo occorre sanare subito la situazione antidemocratica che abbiamo descritto. È anche sintomatico il fatto che un sindacato di base autorganizzato, che si è sempre opposto alla delega e ha negato il sindacalismo di professione, proprio per la necessità che i conflitti partano dai posti di lavoro, veda oggi una impossibilità nel rinnovo e una difficoltà di rotazione nelle cariche statutarie incistate da anni sugli stessi soggetti.

Le destre oggi stanno esercitando un potere reale, politico, economico e culturale, ma chi come noi vi si oppone non può autoassolversi da quanto successo, ponendosi come punto di osservazione esterno e illusoriamente estraneo: non è più pensabile affrontare l’attuale situazione lavorativa, ambientale, sociale, economica e politica con una miriade di comitati, associazioni, movimenti, sindacati, che agiscono in ordine sparso senza la capacità di sintesi culturale e politica e senza una dolorosa e stringente autocritica dell’operato individuale e di gruppo di ciò che non siamo state/i in grado di produrre in questi ultimi anni.

Il Coordinamento delle sedi Cobas Scuola autoconvocate, dunque, ritiene sia giunto il momento di avviare una profonda riflessione all’interno dei Cobas Scuola, non per dividere, ma per rilanciare l’attività politico-sindacale che ha sempre contraddistinto la nostra organizzazione.

Si tratta di riconoscere la profondità di analisi e l’ottimo lavoro strategico svolto in passato da tutti e tutte coloro che hanno fatto crescere i Cobas Scuola, ma si tratta anche di riconoscere, senza acrimonia, che il salto antropologico e sociologico attuale richiede un supplemento di analisi, richiede uno sguardo più lucido dentro la società, dentro i luoghi di lavoro, dentro il mondo dell’associazionismo e del sindacalismo di base, in grado di riallacciare legami proficui in vista di quegli obiettivi politico- sindacali che contraddistinguono la storica attività dei Cobas Scuola.

Perché questa discussione possa avvenire coinvolgendo l’intera organizzazione riteniamo perciò necessario che sia convocata, prima dell’inizio del nuovo anno scolastico, l’Assemblea Nazionale.


Firmato:

Coordinamento sedi Cobas Scuola autoconvocate


Esecutivi Provinciali di: Ancona, Arezzo, Bari, Catania, Genova, Grosseto, La Spezia, Lecce, Livorno, Macerata, Massa, Milano, Palermo, Perugia, Pisa, Reggio Emilia, Siracusa, Terni, Tuscia, Viterbo. Assemblea Provinciale di Varese

Mozione di maggioranza assemblea provinciale di Napoli Componenti Esecutivo Provinciale di Cagliari: Giovanna Liccardi,

Simona Loddo


  1. S. Boni, Orizzontale e verticale. Le figure del potere, Elèuthera, Milano 2021, p. 176.

  2. F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, De Agostini, Milano 2020.

  3. D. Van Reybrouck, Contro le elezioni. Perché votare non è più democratico, Feltrinelli, Milano 2015.

  4. B.C. Han, Psicopolitica, Nottetempo, Milano 2016.

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