I numeri e le dimensioni fanno una certa impressione. La Walmart è la più grande multinazionale al mondo che opera nel settore della grande distribuzione. Ha 10 mila punti vendita in 27 paesi, 4 mila negli Stati Uniti, più di due milioni di dipendenti, un milione e 400 mila negli USA, un fatturato di 440 miliardi di dollari nel 2011 che la collocherebbe tra i primi 30 paesi al mondo per prodotto interno lordo. Walmart è famosa anche per altri motivi. È la catena commerciale che pratica i prezzi più bassi, l’azienda con un tasso di sfruttamento della forza lavoro tra i più alti e un’organizzazione del lavoro molto simile a una caserma. Le merci sugli scaffali della Walmart vengono prodotte in Cina, nelle Filippine, in Vietnam e nel Bangladesh a dei costi bassissimi e, sembra quasi inutile dirlo, con salari irrisori per lavoratori costretti in terribili luoghi di lavoro. Il sistema degli appalti e dei subappalti sembra una matrioska con bambole infinite. Le fabbriche cinesi o filippine, per fare degli esempi, nella maggioranza dei casi non sono a conoscenza del vero committente.La settimana scorsa in una fabbrica di abbigliamento nel Bangladesh, che lavora esclusivamente per Walmart, sono morte in un incendio 112 persone, in gran parte lavoratrici, perché le uscite di sicurezza erano bloccate dall’esterno. Mike Duke, amministratore delegato della Walmart, si è affrettato a dichiarare che un fornitore, a tutt’oggi sconosciuto, aveva appaltato a quella fabbrica il confezionamento di capi di abbigliamento senza la sua autorizzazione. Se non ci fosse di mezzo la tragedia di 112 vittime sarebbe da prendere come una barzelletta. Chi invece non sta scherzando sono i lavoratori americani della Walmart che per la prima volta, dalla fondazione della società 50 anni orsono, sono scesi in sciopero. E lo hanno fatto nel giorno in cui potevano recare maggiore danno all’azienda, il Black Friday. Il venerdì dei grandi sconti, dopo il Giorno del ringraziamento, che negli Stati Uniti coincide con i maggiori incassi dei grandi centri commerciali. Si sono svolte iniziative con cortei, picchetti e flash mob dentro i punti vendita in 46 città coinvolgendo migliaia di lavoratori con anche il supporto di parecchi attivisti del movimento Occupy. La maggior partecipazione e radicalità delle iniziative si sono avute nel New Jersey, in California e nella zona di Chicago. Nel New Jersey, a pochi km da New York, i lavoratori in sciopero insieme a 99 Pickets – il gruppo di sostegno alle vertenze sui luoghi di lavoro di Occupy Wall Street che si rifà alle pratiche dei vecchi wobblies – hanno bloccato per un paio di ore le casse della più grande Walmart della costa orientale. In California e nella zona di Chicago si è registrata la più alta partecipazione allo sciopero. Il motivo è presto detto. Tutto è iniziato un paio di mesi fa alla Walmart di Pico Rivera, un quartiere di Los Angeles, quando una trentina di lavoratori si sono messi spontaneamente in sciopero per protestare contro orari di lavoro di una durata e di una flessibilità insostenibili con un salario che non arriva a 9 dollari all’ora senza assicurazione sanitaria e fondo pensione. Nei giorni successivi ci sono state le prime Wal-March di protesta nella zona di Chicago. Nel mese di ottobre ci sono stati scioperi nei magazzini e nei punti vendita di Seattle, con 17 arresti, Dallas e Elwood – un sobborgo di Chicago – dove la Walmart ha truffato decine di lavoratori non pagandogli gli straordinari, peraltro obbligatori. Fino ad arrivare allo sciopero del Black Friday che ha interessato tutta la catena americana con il timido sostegno esterno del WWU, uno dei sindacati del commercio. Scioperi illegali secondo la legislazione americana, senza copertura sindacale anche perché la Walmart si è sempre opposta alla sindacalizzazione dei propri dipendenti. Lo ha potuto fare perché, secondo le leggi in vigore, un sindacato per essere riconosciuto dall’azienda deve indire e organizzare un referendum e ottenere il consenso dei due terzi dei lavoratori. In queste condizioni è fin troppo facile per la Walmart imporre che i due terzi siano calcolati sui 2 milioni e 200 mila di dipendenti in 27 paesi. Una legge che Obama, sull’onda della vittoria nel 2008, si era solennemente impegnato a modificare. Le cose, come si è visto, sono andate in modo diverso, e non solo su questo aspetto. E dopo la rielezione, con scioperi locali e marce di protesta contro la Walmart, si è ben guardato dal fare altre promesse del genere. I lavoratori della Walmart sono in gran parte ispanici e afroamericani con un’alta percentuale di donne con contratti precari o part-time. L’organizzazione del lavoro nei centri commerciali, nei magazzini di stoccaggio just in time, nella vendita online è un manuale di taylorismo applicato fino alla tempistica dei bisogni corporali. Uno spaccato di medioevo nella postmodernità? Molto più probabilmente una subordinazione del lavoro vivo all’altezza di una data composizione sociale e di classe della forza-lavoro. di FELICE MOMETTI
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domenica 2 dicembre 2012
La prima volta della Walmart
I numeri e le dimensioni fanno una certa impressione. La Walmart è la più grande multinazionale al mondo che opera nel settore della grande distribuzione. Ha 10 mila punti vendita in 27 paesi, 4 mila negli Stati Uniti, più di due milioni di dipendenti, un milione e 400 mila negli USA, un fatturato di 440 miliardi di dollari nel 2011 che la collocherebbe tra i primi 30 paesi al mondo per prodotto interno lordo. Walmart è famosa anche per altri motivi. È la catena commerciale che pratica i prezzi più bassi, l’azienda con un tasso di sfruttamento della forza lavoro tra i più alti e un’organizzazione del lavoro molto simile a una caserma. Le merci sugli scaffali della Walmart vengono prodotte in Cina, nelle Filippine, in Vietnam e nel Bangladesh a dei costi bassissimi e, sembra quasi inutile dirlo, con salari irrisori per lavoratori costretti in terribili luoghi di lavoro. Il sistema degli appalti e dei subappalti sembra una matrioska con bambole infinite. Le fabbriche cinesi o filippine, per fare degli esempi, nella maggioranza dei casi non sono a conoscenza del vero committente.La settimana scorsa in una fabbrica di abbigliamento nel Bangladesh, che lavora esclusivamente per Walmart, sono morte in un incendio 112 persone, in gran parte lavoratrici, perché le uscite di sicurezza erano bloccate dall’esterno. Mike Duke, amministratore delegato della Walmart, si è affrettato a dichiarare che un fornitore, a tutt’oggi sconosciuto, aveva appaltato a quella fabbrica il confezionamento di capi di abbigliamento senza la sua autorizzazione. Se non ci fosse di mezzo la tragedia di 112 vittime sarebbe da prendere come una barzelletta. Chi invece non sta scherzando sono i lavoratori americani della Walmart che per la prima volta, dalla fondazione della società 50 anni orsono, sono scesi in sciopero. E lo hanno fatto nel giorno in cui potevano recare maggiore danno all’azienda, il Black Friday. Il venerdì dei grandi sconti, dopo il Giorno del ringraziamento, che negli Stati Uniti coincide con i maggiori incassi dei grandi centri commerciali. Si sono svolte iniziative con cortei, picchetti e flash mob dentro i punti vendita in 46 città coinvolgendo migliaia di lavoratori con anche il supporto di parecchi attivisti del movimento Occupy. La maggior partecipazione e radicalità delle iniziative si sono avute nel New Jersey, in California e nella zona di Chicago. Nel New Jersey, a pochi km da New York, i lavoratori in sciopero insieme a 99 Pickets – il gruppo di sostegno alle vertenze sui luoghi di lavoro di Occupy Wall Street che si rifà alle pratiche dei vecchi wobblies – hanno bloccato per un paio di ore le casse della più grande Walmart della costa orientale. In California e nella zona di Chicago si è registrata la più alta partecipazione allo sciopero. Il motivo è presto detto. Tutto è iniziato un paio di mesi fa alla Walmart di Pico Rivera, un quartiere di Los Angeles, quando una trentina di lavoratori si sono messi spontaneamente in sciopero per protestare contro orari di lavoro di una durata e di una flessibilità insostenibili con un salario che non arriva a 9 dollari all’ora senza assicurazione sanitaria e fondo pensione. Nei giorni successivi ci sono state le prime Wal-March di protesta nella zona di Chicago. Nel mese di ottobre ci sono stati scioperi nei magazzini e nei punti vendita di Seattle, con 17 arresti, Dallas e Elwood – un sobborgo di Chicago – dove la Walmart ha truffato decine di lavoratori non pagandogli gli straordinari, peraltro obbligatori. Fino ad arrivare allo sciopero del Black Friday che ha interessato tutta la catena americana con il timido sostegno esterno del WWU, uno dei sindacati del commercio. Scioperi illegali secondo la legislazione americana, senza copertura sindacale anche perché la Walmart si è sempre opposta alla sindacalizzazione dei propri dipendenti. Lo ha potuto fare perché, secondo le leggi in vigore, un sindacato per essere riconosciuto dall’azienda deve indire e organizzare un referendum e ottenere il consenso dei due terzi dei lavoratori. In queste condizioni è fin troppo facile per la Walmart imporre che i due terzi siano calcolati sui 2 milioni e 200 mila di dipendenti in 27 paesi. Una legge che Obama, sull’onda della vittoria nel 2008, si era solennemente impegnato a modificare. Le cose, come si è visto, sono andate in modo diverso, e non solo su questo aspetto. E dopo la rielezione, con scioperi locali e marce di protesta contro la Walmart, si è ben guardato dal fare altre promesse del genere. I lavoratori della Walmart sono in gran parte ispanici e afroamericani con un’alta percentuale di donne con contratti precari o part-time. L’organizzazione del lavoro nei centri commerciali, nei magazzini di stoccaggio just in time, nella vendita online è un manuale di taylorismo applicato fino alla tempistica dei bisogni corporali. Uno spaccato di medioevo nella postmodernità? Molto più probabilmente una subordinazione del lavoro vivo all’altezza di una data composizione sociale e di classe della forza-lavoro. di FELICE MOMETTI
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