La straordinaria mobilitazione dello scorso anno scolastico aveva come obiettivo centrale
il ritiro del ddl sulla Buona Scuola e lo stralcio delle assunzioni dei precari con un decreto legge. Ma non si poteva chiedere per via referendaria l’abrogazione dell’intera legge perché la Corte costituzionale non accetta quesiti “non omogenei e non univoci”, perché ad esempio l’elettore/trice può essere d’accordo per l’abrogazione del premio di “merito”, ma favorevole all’obbligo della formazione. Oltretutto, sarebbe stato assurdo chiedere anche l’abrogazione delle assunzioni. Si è trattato, quindi, di scegliere dei quesiti che colpissero il cuore del modello di scuola proposto dalla 107: aziendalizzazione, gerarchizzazione, competizione individuale tra i docenti e competizione tra le scuole per la ricerca di finanziamenti sul mercato.
In tal senso, i primi due quesiti intendono abrogare i due più importanti superpoteri del preside: la scelta diretta dei docenti (chiamata nominativa) per incarichi solo triennali anche non rinnovabili e il premio del c.d. merito individuale. La non rinnovabilità dell’incarico mette i docenti in una condizione di continua ricattabilità sia negli organi collegiali che nel lavoro in classe. Se il primo quesito verrà approvato, sarà l’USR a conferire gli incarichi ai docenti, con criteri oggettivi e predeterminati. La formulazione finale del secondo quesito è sostanzialmente quella proposta dai Cobas: abrogazione del premio di “merito”, del potere del preside di assegnarlo, della competenza del Comitato di valutazione sui criteri per individuarlo. Il Comitato tornerebbe quello che era prima della 107: un organo composto da docenti e dal preside, che esprime un parere sul periodo di prova dei neo-assunti. Ipotesi diverse, sostenute da altre organizzazioni, sono state scartate per motivi di contenuto o per forti rischi di inammissibilità. Ad esempio, scegliendo l’abrogazione totale del comma sul Comitato, si sarebbe creato un vuoto legislativo sulla valutazione dell’anno di prova, rischiando di lasciare tutto il potere in merito ai soli presidi, o addirittura di sospendere l’assunzione stabile di tanti docenti “in prova” in attesa di una futura regolamentazione dai contenuti incerti. Nel caso di approvazione del secondo quesito resterebbe comunque in vigore lo stanziamento del fondo di 200 milioni annui e la natura di salario accessorio della relativa erogazione, rinviata alla contrattazione integrativa nazionale e tesa alla “valorizzazione del personale docente” anche precario, senza riferimenti al “merito”, che potrebbe comportare, con una adeguata mobilitazione, anche un aumento in paga base uguale per tutti.
La trattativa sul secondo quesito è stata laboriosa perché altre organizzazioni hanno proposto l’abrogazione del potere del preside di assegnare il premio, ma lasciando in piedi la valutazione del “merito” anche da parte di studenti e genitori. Abbiamo condotto una dura battaglia politico-culturale per far capire che il quesito proposto non era una rivendicazione “corporativa dei docenti” (come è stato detto), ma una difesa della scuola della Costituzione. Nella scuola pubblica vi sono diverse idee sulla programmazione didattica, sui saperi disciplinari, sulla tendenza a semplificare l’approccio o a preparare alla complessità, sull’approccio induttivo o deduttivo, sui criteri di valutazione. Se il preside giudica, premia e punisce il lavoro di un docente è altamente probabile che una buona parte dei docenti assimilerà le idee e i criteri di valutazione di chi dovrà giudicarli, con una drastica riduzione del pluralismo, della libertà di insegnamento e della democrazia collegiale.
La Costituzione ha dato centralità alla scuola pubblica perché garantisca il pluralismo, perché lo studente venga a contatto con diverse visioni del sapere, al contrario di quello che accade nelle scuole private di tendenza o in quelle “di mercato”, che vendono titoli di studio e non istruzione. Da questo modello ci allontaneremmo ancora di più se, poi, le valutazioni discrezionali dei presidi fossero caratterizzate da fattori personalistici, clientelari e servili.
Il terzo quesito richiede l’abrogazione dell’obbligo di almeno 400 ore di “alternanza scuola-lavoro” per il triennio di tecnici e professionali e di almeno 200 ore per i licei. Per i Cobas la formazione aziendale comporta il rischio della subordinazione degli obiettivi didattici e culturali agli interessi imprenditoriali. Gli studenti devono potersi inserire nella realtà lavorativa, forniti di strumenti cognitivi per capire in quale contesto si collocano, per chi si produce, per quali scopi, in quale modo. Invece, la formazione aziendale si caratterizza in genere per l’apprendimento generico di nozioni o di un “saper fare” decontestualizzati, da abbandonare rapidamente per adeguarsi a lavori massimamente flessibili e precari; oppure diventa crudamente richiesta di lavoro gratuito (come già accade in tanti “stage” aziendali dei tecnici e dei professionali) o sottopagato, come in varie sperimentazioni dell’apprendistato. Il quesito approvato, però, escludeun’abrogazione di tutta la normativa sull’”alternanza”, che comporterebbe alti rischi di inammissibilità e significativi problemi di consenso politico. Per cui, si propone l’abrogazione dell’obbligo alle 400/200 ore, un monte orario che comporta il rischio di una significativa riduzione delle ore d’insegnamento e che impedisce anche un’ efficace selezione di soggetti che garantiscano almeno una formazione organica con l’indirizzo di studio. Anche qui si è faticato a trovare un consenso unanime nel Comitato promotore perché un’organizzazione si è battuta fortemente per abrogare anche la possibilità di effettuare l’”alternanza” durante il periodo di sospensione dell’attività didattica, con l’intenzione – per i Cobas davvero inaccettabile - di riconoscerle una piena valenza didattica, alla stessa stregua dell’attività di insegnamento. Abbiamo sostenuto, insieme alla grande maggioranza delle altre organizzazioni, che l’alternanza può essere attività complementare, ma non sostitutiva dell’insegnamento curricolare e che tale proposta comportava una forte subordinazione delle finalità della scuola pubblica alle esigenze aziendali.
Il quarto quesito riguarda le “erogazioni liberali” alle singole scuole sia pubbliche che paritarie, per le quali la 107 prevede una consistente incentivazione fiscale. Con una sapiente operazione “taglia e cuci”, viene abrogata la destinazione alle singole scuole, senza toccare il credito d’imposta che è materia che non può esser oggetto di referendum. La donazione andrebbe al sistema nazionale di istruzione, che poi la assegnerebbe alle scuole secondo criteri generali di ripartizione, evitando la scelta della scuola da parte del donatore e una modalità privatistica di finanziamento. Non avremmo, così, scuole in competizione tra loro per accaparrarsi i denari sul mercato, con conseguenze didattiche immaginabili nella logica di mercato, e con la creazione di scuole di serie A di serie B, in base alla provenienza socio-economica degli studenti. Ma soprattutto eviteremmo il potenziamento economico delle scuole private, che con meccanismi elusivi potrebbero far risultare come donazione una parte delle spese di iscrizione, per le quali vi è già una detrazione d’imposta fino a 400 €. Cumulando i due meccanismi su 5000 € di iscrizione quasi la metà sarebbero di fatto a carico dello Stato e, in pratica, di tutti i contribuenti.
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