La riforma della “buona scuola” non cessa mai di stupirci. E non solo per il suo nome: che, nella
miglior tradizione orwelliana, chiama le cose con i nomi invertiti (“la guerra è pace”, “la schiavitù è libertà”, ecc.).
A destare stupore e, insieme, scandalo, è un altro aspetto della riforma con cui il governo ha scelto consapevolmente di “rottamare” la scuola, la formazione e l’istruzione, peraltro proseguendo con coerenza sulla linea dei precedenti governi di centro-destra e di centro-sinistra.
Il fanatismo economico mira a distruggere la scuola e l’università come momenti etici. I continui tagli dei finanziamenti destinati alla cultura e all’istruzione – tagli coerenti con il paradigma neoliberista e con l’assunzione del momento economico come unica sorgente di senso – rispondono essi stessi a questo programma politico di annichilimento della formazione come momento etico, opportunamente mascherato dietro le leggi anonime dell’economia.
Il potere nichilistico della finanza e del capitale mira a decapitare ogni testa pensante, sostituendola con il “cretinismo economico” (Gramsci) delle teste calcolanti, organiche alla nuova razionalità neoliberista: ecco perché tra gli obiettivi ministeriali della scuola figura la promozione del “pensiero computazionale” (sic!).
Il capitale non può accettare l’esistenza di teste pensanti, di soggetti formati e portatori di identità culturale e di spessore critico, consapevoli delle loro radici e della falsità del tempo presente.
Aspira, invece, a vedere ovunque il medesimo, vale a dire atomi di consumo senza identità e senza cultura, pure teste calcolanti e non pensanti, in grado di parlare unicamente l’inglese dei mercati e della finanza.
Per questo, nell’ultimo ventennio la scuola è stata sottoposta a una radicale dinamica di aziendalizzazione, che l’ha rapidamente riconfigurata nelle sue stesse fondamenta. Da istituto di formazione di esseri umani in senso pieno, consapevoli del proprio mondo storico e della propria storia, la si è trasformata in azienda erogatrice di abilità e competenze indisgiungibilmente connesse con il dogma utilitaristico del “servire-a-qualcosa”.
È, dunque, del tutto coerente con questa dinamica che la neo-orwelliana riforma detta della “buona scuola” ha introdotto un aspetto sul quale troppo poco si è insistito. Ed è questo: i commi dal 33 al 41 prevedono l”alternanza scuola-lavoro’.
In concreto, i minorenni dovranno per legge lavorare gratis per 200 ore nelle aziende se frequentanti i licei, e 400 ore se frequentanti gli istituti professionali. Sarà il dirigente scolastico a individuare le imprese disponibili all’attivazione di percorsi di alternanza e a stipulare apposite convenzioni.
L’alternanza si farà in azienda, di modo che i giovani si abituino a quel mondo aziendale sul quale la scuola stessa è sempre più massicciamente modellata e che diventa paradigma universale delle esistenze esse stesse aziendalizzate. L’alternanza potrà essere svolta durante la sospensione dell’attività didattica, anche con la modalità – ancora con gergo neo-orwelliano- dell’“impresa formativa simulata”.
Si tratta, è evidente, dell’introduzione di nuove forme di lavoro coatto minorile, di pura estorsione di pluslavoro peraltro non retribuito. Ritorna la corvée, peraltro ai danni dei minorenni, un po’ come con lo stage, che è anch’esso una forma di volgare sfruttamento del lavoro di giovani per di più umiliati dall’ossequiosità che è loto richiesta.
Definire criminale la “alternanza scuola-lavoro” come sfruttamento del lavoro minorile significa, in fondo, essere ancora politicamente corretti.
di Diego Fusaro, Il Fatto Quotidiano 6.3.2016
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