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mercoledì 14 dicembre 2022

Scuola democratica, universalismo e lotta di classe

Marco Maurizi critica il recente volume di Christian Raimo, L’ultima ora. Scuola, democrazia, utopia (Ponte alle Grazie, Milano 2022) un testo che rappresenta i difetti di tutta una schiera di aspiranti riformatori della scuola che si autodefiniscono progressisti e democratici con poche idee ben confuse o totalmente sbagliate. È l’opera di un autore che si concepisce “di sinistra” ma di una sinistra talmente annacquata e approssimativa nelle proprie analisi socio-economiche da condividere molto, fin troppo, con i suoi presunti avversari “conservatori” e che finisce per adeguarsi perfettamente a prassi ministeriali che sono invece totalmente reazionarie, utilizzando proprio lo spauracchio dei “nostalgici” della vecchia scuola gentiliana come meccanismo di auto-legittimazione ideologico. Un classico rappresentante di quegli “ultra-pedagogisti” nostrani che sono il perfetto contraltare dei “neogentiliani”: perché il dibattito sulla scuola possa fare degli effettivi passi avanti bisogna liberarsi da questa falsa opposizione

Scuola democratica, universalismo e lotta di classe

di Marco Maurizi

SCUUOLA 1100x7331. Né concretezza, né utopia

Il recente volume di Christian Raimo, L’ultima ora. Scuola, democrazia, utopia (Ponte alle Grazie, Milano 2022) è un testo che rappresenta perfettamente i pregi, pochi, e i difetti, moltissimi, di tutta una schiera di aspiranti riformatori della scuola che si autodefiniscono progressisti e democratici. Tra i loro pregi sicuramente le buone intenzioni, il desiderio di migliorare un’istituzione che è “in crisi” da tempo (o forse, come suggerisce Raimo stesso, da sempre), l’attenzione al disagio giovanile, la preoccupazione per il razzismo e l’esclusione, la speranza che la scuola possa farsi argine alle vecchie e nuove diseguaglianze. Tra i loro difetti il non sapere assolutamente come realizzare tutto questo, tranne poche idee che o sono molto confuse o sono totalmente sbagliate.

Il libro di Raimo permette di dare un’occhiata a questo laboratorio di analisi e strumenti concettuali con cui il pedagogismo “di sinistra” affronta la realtà scolastica. Nonostante il progetto di un libro che vuole guardare da vicino il mondo della scuola senza perdere di vista l’orizzonte ideale di una società futuribile si può dire che esso fallisca miseramente il compito, non riuscendo ad essere né abbastanza concreto, né sufficientemente utopico. Il problema, come vedremo, è l’inadeguatezza del quadro sociologico di fondo: la totale incapacità dell’autore di cogliere le questioni di classe là ove si producono, nel meccanismo di autovalorizzazione del capitale, per ridurre il proprio “anticapitalismo” a vaghe suggestioni relative ad un non meglio identificato “classismo” o, addirittura, al “conformismo”. Questa lacuna di fondo determina, a cascata, tutti gli errori di prospettiva sul mondo della scuola e i tre grandi assenti di questo libro: il lavoro docente, la soggettività studentesca, l'universalità del sapere.

Sicuramente è l’opera di un autore che si concepisce “di sinistra” ma di una sinistra talmente annacquata e approssimativa nelle proprie analisi socio-economiche da condividere molto, fin troppo, con i suoi presunti avversari “conservatori” e che finisce per adeguarsi perfettamente a prassi ministeriali che sono invece totalmente reazionarie, utilizzando proprio lo spauracchio dei “nostalgici” della vecchia scuola gentiliana come meccanismo di auto-legittimazione ideologico. Un classico rappresentante di quegli “ultra-pedagogisti” nostrani che sono il perfetto contraltare dei “neogentiliani”: perché il dibattito sulla scuola possa fare degli effettivi passi avanti bisogna liberarsi da questa falsa opposizione.

 

2. I docenti: un po’ Eichmann, un po’ Signorina Silvani

Sintomatico dei testi degli ultra-pedagogisti è il continuo attacco agli insegnanti considerati autoritari e recalcitranti all’aggiornamento professionale. Nella retorica di Raimo vediamo così convergere un linguaggio anarcoide e uno simil-liberista: questa convergenza tende a sopprimere da due lati opposti l’elemento di autonomia del lavoro docente.

Da un lato, infatti gli insegnanti entrano nel campo visivo della pedagogia esclusivamente come portatori di autoritarismo. Una visione caricaturale e imbarazzante che diventa addirittura un vero e proprio sistema di interpretazione della realtà sociale. Raimo non si scandalizza di affermare che l’autoritarismo scolastico è stato una delle cause del fascismo (p. 15, p. 98). Giustifica anzi questa sparata da bar difendendo il punto di vista secondo cui non è la società a determinare la scuola, ma è la scuola che “determina la società”. Di più, citando Dewey, Raimo sostiene che le istituzioni politiche vanno intese “come effetto e non come causa”. Ora, questa idea, spacciata per un “punto di vista nuovo” altro non è il vecchio arnese dell’individualismo metodologico, cioè l’idea liberale secondo cui le forme sociali derivano dalle interazioni tra gli individui.

Eppure, leggendo il libro si resta confusi. Anzitutto, ma la scuola non dovrebbe essere essa stessa un’istituzione politica? Lo è e non lo è. Perché l’ottica di Raimo gli fa concepire la scuola come puro luogo di relazioni in cui l'elemento del sapere è secondario e derivato. Ed è in quanto luogo di relazioni e formazione di prospettive personali sul mondo che la scuola lo interessa, cioè come vivaio delle esistenze adulte che andranno a costituire il mondo di domani. Viceversa, è solo in quanto luogo di trasmissione del sapere che la scuola mostra di essere a tutti gli effetti e inevitabilmente un'istituzione politica. Anzi, come scriveva Calamandrei, la scuola è addirittura un “organo costituzionale”1. Perché il sapere ha una sua forma di esistenza oggettiva, si incarna nelle istituzioni incaricate della sua produzione e riproduzione, è uno dei luoghi fondamentali in cui l'universale si realizza e produce i propri effetti. L’ultra-pedagogista non si rende conto che le istituzioni esistono effettivamente come “soggetti astratti” e funzionano proprio perché sono tali2. Mentre ad essere “astratta”, in senso negativo, rozzamente empirico, è piuttosto l'idea vetusta e ideologica di Raimo secondo cui le istituzioni sono fatte “di persone in carne e ossa” (p. 153).

La parola-sintomo che guida il discorso di Raimo è “progressista” e viene usata nei momenti decisivi del testo per coprire questo tipo di contraddizioni ed ambiguità, buttata sempre lì come un giudizio apodittico indubitabile: io difendo la posizione “progressista” chi non è con me è contro di me e dunque reazionario. Ma cosa significhi “progressista” nel discorso di Raimo non è dato sapere. Il suo insistente tentativo di sovrapporre “attivismo” e “marxismo” (p. 60) è fallace perché non solo assume come un dato di partenza l’individualismo metodologico anti-marxiano nella sua interpretazione della realtà scolastica ma addirittura lo trasforma in una concezione sociologica complessiva, scadendo nella metafisica sociale. Marxismo e attivismo pedagogico, invece, costituiscono atteggiamenti del tutto opposti rispetto al problema del cambiamento sociale.

La cosa divertente, ma sintomatica, è che su questo Raimo la pensa esattamente come il suo presunto avversario Galli Della Loggia. Per entrambi attivismo e marxismo vogliono un po’ la stessa cosa: divergono solo sul giudizio che ne danno. Raimo suggerisce che la scuola autoritaria produce “conformismo” (p. 43), che sia proprio questo aspetto “totalitario” dell’educazione tradizionale a tradursi nel germe del fascismo (p. 100). Per Galli Della Loggia, specularmente, è l’aspetto “totalitario” della scuola democratica a tradursi nel germe del “collettivismo”. Al che, bisognerebbe rispondergli, magari lo facesse davvero! Ma è proprio l’individualismo metodologico che Raimo condivide con il liberale Galli Della Loggia ad impedirgli di rispedire al mittente quell’accusa: siamo infatti di fronte ad un pensiero che non è in grado di distinguere “collettivo” e “conformista”, in cui, a guardar bene, è persistente la critica alla “massa indiscriminata” contro cui occorre “favorire lo sviluppo di ogni individuo” (p. 236). Non a caso, nel testo di Raimo, quando viene evocato il socialismo è sempre un socialismo “utopistico” che predica il “superamento” dell'opposizione tra “collettivismo e individualismo” partendo dalla banalità secondo cui non si danno società senza individui e individui senza società (p. 223).

Il marxismo è un’altra cosa: le forme oggettive della vita sociale ne rappresentano sempre la dimensione universale, perfino nella modalità alienata del capitalismo. L’incapacità di Raimo e degli ultra-pedagogisti di articolare la distinzione tra concreto e astratto è solo l’altra faccia della loro incapacità di pensare le forme del sapere oggettivo come possibilità di realizzazione e non di negazione dell’individuale.

Per parlare di critica all’autoritarismo e al fascismo con un minimo di cognizione di causa marxista bisognerebbe aver letto i testi della Scuola di Francoforte che pure qui si citano di striscio. Ma Raimo è convinto per qualche misterioso motivo che Adorno e Marcuse non abbiano scritto nulla sulla scuola3. E quindi L’ultima ora ricorre alla teoria adialettica di Althusser sugli apparati ideologici di Stato (p. 81): una teoria che comunque Raimo fraintende, traducendo la visione marxiana sulla priorità delle strutture oggettive rispetto alla coscienza in quella anarcoide secondo cui la scuola attraverso la ripetizione conformistica degli atti produrrebbe uniformizzazione e standardizzazione sociali. Una lettura talmente banale e così poco marxista che nel giro di due pagine diventa indistinguibile da quella di Ivan Illich in cui la scuola come agente dello Stato moderno funziona “analogamente” alla Santa Inquisizione (p. 84).

Con una critica talmente superficiale e unilaterale dell’autoritarismo non sorprende che i docenti appaiano tanti piccoli Eichmann inconsapevoli. E diventa anche patetica l’incapacità di Raimo di rispondere a Galli Della Loggia quando questi, nel tentativo di difendere la “predella” sotto la cattedra, afferma sarcasticamente che essa viene considerata dai pedagogisti “la premessa del Terzo Reich” (p. 211). Questo è letteralmente ciò che Raimo stesso dice, purtroppo non ironicamente, in tutto il resto del libro. Ed ecco che Raimo si scalda e parla di reductio ad Hitlerum: ciò che è raffinata argomentazione per l'ultrapedagogista di sinistra diventa rozza fallacia logica per il reazionario di destra.

Questa convergenza paradossale appare ancora più evidente rispetto all’altro chiodo fisso dei pedagogisti: il problema dell’aggiornamento professionale dei docenti. Ne L’ultima ora gli insegnanti non vengono mai presi in considerazione nel loro ruolo strutturale all’interno della società capitalistica, ovvero come erogatori di lavoro intellettualeimproduttivo4, come intellettuali sui generis5, ma sempre e solo come polo di una relazione educativa le cui forme vengono loro dettate dall’esperto pedagogista, come esecutori di un progetto didattico burocraticamente teorizzato e disposto altrove.

Del docente-lavoratore si parla solo come un soggetto che difende degli “interessi di categoria” (p. 36), messo alla stessa stregua dei “nostalgici” e “classisti” reazionari che cantano la bella scuola di una volta in cui nessuno ne controllava l’operato e l’efficacia. Da qui, l’insistente retorica dell'innovazione, la critica alla mancanza di aggiornamento dei docenti e tutta la chiacchiera giornalistica sull'era del lifelong learning che malcela un giudizio ideologico, tipico dell'egemonia neoliberista in cui presunte tendenze oggettive della società vengono spacciate per naturali, ovvie, inevitabili6. Raimo si beve questi pregiudizi e li spaccia come dato di realtà.

Il fatto che la critica alla pigrizia dei docenti possa sfociare in una concezione reazionaria e liberista viene appena accennata ma ugualmente valorizzata come pars destruens di una possibile exit strategy dalla scuola attuale (p. 85). In realtà la pedagogia dei Raimo condivide la stessa sociologia atomistica dei reazionari liberali come Della Loggia: tra i valori fondanti della scuola democratica rientrano, ad es., “adattabilità” e “flessibilità” (p. 235); contro le “resistenze” (ovviamente “corporative”) dei docenti le parole di Raimo sono in fondo le stesse di un Brunetta qualsiasi sugli impiegati fannulloni.

Emerge così la grande petitio principii che fa da fondamento al libro e che esprime alla perfezione l’ideologia degli ultra-pedagogisti. La pedagogia viene considerata a priori la chiave di volta per affrontare e risolvere i problemi della scuola (e della società!). Non è assolutamente possibile opporre a questa convinzione alcuna critica né del suo psicologismo, né della sua tendenza allo svuotamento formale della relazione educativa, né del suo idealismo sociologico7: ogni critica viene respinta sdegnosamente come “incompetente”, soprattutto quando va a colpire i fondamenti di tale presunzione di competenza.

Questo meccanismo di autodifesa nel discorso di Raimo diventa ossessivo e puerile: se cancellassimo dal suo libro tutte le lamentele sul fatto che tizio o caio “non conosce la letteratura sull’argomento” il suo testo sarebbe lungo la metà. Raimo e gli ultrapedagogisti si trincerano dietro il proprio specialismo in modo non dissimile da come il Mago Otelma difenderebbe l’esoterismo: specializzazione diventa sinonimo di “scientificità”. Sintomatica è l'aggettivazione scomposta che cala dalla penna quando il pur “pessimo” Galli Della Loggia osa esprimere legittimissimi dubbi in proposito: “tronfio”, “irriverente”, “osceno”, “infelice ignoranza”, “mancanza di studio”, “impegno”, “serietà” e “rispetto” (p. 203). Se avesse avuto una bacchetta Raimo lo avrebbe percosso sulle dita. Ora, si può anche convenire che Galli Della Loggia non conosca ciò di cui parla: la sua confutazione qui equivale logicamente alla scomunica del sacerdote di un culto esotico.

Ciò che interessa Raimo, infatti, è l’effetto-ideologico di questo modo di argomentare: esso intende creare una spuria convergenza tra la sinistra e la prospettiva pedagogica da lui difesa. Gli basta evidenziare che Della Loggia se la prende con il “pedagogichese” (p. 209) per accusare tutti gli insegnanti che condividono la medesima insofferenza per il gergo pedagogico di dellaloggismo. Che l’avversione alla pedagogia salga dal mondo della scuola praticamente ovunque non può infatti diventare un argomento contro l’ultra-pedagogismo, la sua vuotezza, la sua inefficacia ecc. ma solo e sempre deve dimostrare che i docenti non si “mettono in discussione”, non vogliono “aggiornarsi” e “formarsi” ecc. (p. 38).

Generalizzando nello stesso “modo impressionistico” (p. 37) dei suoi avversari “passatisti”, Raimo si relaziona ai docenti con la modalità “autoritaria” e “nozionistica” di cui continuamente li accusa. Ergendosi a loro insegnante, ne ignora totalmente il ruolo di intellettuali subalterni, i problemi relativi alla forma, ai tempi, ai modi e ai contenuti del loro lavoro intellettuale, alla continua dequalificazione cui questo lavoro va incontro: l’unico capitolo in cui esprime solidarietà nei loro confronti, guarda caso, è quando parla della loro formazione (pp. 102 e sgg).

 

3. L’autoritarismo pedagogico

Come abbiamo visto, Raimo difende esplicitamente l’'idea “trans-storica” secondo cui sarebbe possibile far “evolvere” un paese attraverso una riforma dell'educazione (p. 60). Non è un caso che ritrovi e rilanci questa concezione idealistica e anti-marxiana nella letteratura utopistica (86 e sgg). L’unica volta che l’orizzonte socialista si fa spazio nel libro esso assume la forma utopista e anarchica in base alla quale si tratterebbe di partire dall'idea per adeguarvi la realtà: esattamente il contrario di quanto Marx ed Engels notoriamente scrivono nell’Ideologia tedesca: “Il comunismo non è per noi uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti”8. Citando Margherita Zoebli, Raimo afferma invece placidamente che occorrerebbe “determinare il piano sociale, urbanistico, gestionale - e quindi il piano politico - a partire dal piano pedagogico” ( p. 225).

Il delirio di onnipotenza dell’ultra-pedagogismo raggiunge così l'apice. A cosa serve fare una battaglia politica per la democrazia nella società quando possiamo già realizzarla nella scuola? Anzi, quando realizzandola nella scuola la realizziamo ipso facto nella società? In realtà questa pseudo-politicizzazione coincide con una spoliticizzazione integrale della scuola. La visione apparentemente limitata ed “economicista” del marxismo che pretende affrontare le storture nella scuola a partire da quelle nella società preserva l’autonomia dei due momenti senza confonderli. Non risolve di per sé i problemi ma li imposta in modo da permettere di analizzarli nella loro autonomia interdipendenza. La separazione teorica tra il mondo intra- ed extra-scolastico è necessaria per una corretta lettura della funzione politica dell'insegnamento intesa sia dal lato del corpo docente che di quello studentesco. Essa emerge con chiarezza solo quando la dimensione del sapere viene anche concepita come una sfera a sé stante e non come variabile dipendente della relazione e del metodo. È questa sfera a costituire il legame reale tra l’interno e l’esterno collegandoli in modo dialettico: e se la “neutralità” del sapere costituiva un tempo lo strumento ideologico delle classi dominanti, oggi esse intendono piuttosto dissolvere questa alterità, rendendo il sapere scolastico pratico, omogeneo al mondo delle relazioni su cui il capitale esercita già direttamente il proprio influsso modellatore. Se si perde questa specificità della scuola rispetto al mondo si producono inevitabilmente una serie di confusioni politiche.

La pretesa di realizzare un “metodo globale” nell’insegnamento si scontra con la realtà non globale che è la scuola. Un’ovvietà che può essere dimenticata solo da chi trasforma la scuola in una fucina delle relazioni sociali complessive. Quel sapere risulta perciò impotente di fronte al potere di auto-posizione e auto-riproduzione del capitale, ovvero un potere che agisce già in modo globalizzante astratto: nel senso di produrre relazioni universalizzanti anche se distorte da interessi economici particolaristici. Messo a confronto con tale dinamica universalizzante ogni cambiamento “dal basso”, ogni sperimentazione “locale”, ogni piccola comunità utopistica non può essere considerata efficace riuscita se non rinunciando alla dimensione universalistica, che è invece la stessa in cui si riproduce il processo di autovalorizzazione capitalistico.

Come già Gramsci osservava, realizzare una “scuola modello” in un luogo e tempo determinato non significa automaticamente realizzare un modello replicabile altrove9, né tanto meno poterlo usare come sguardo critico nei confronti della scuola pubblica esistente. Significa piuttosto costringere la scuola esistente, i lavoratori della scuola e la componente studentesca dentro il letto di Procuste di un'idea prefabbricata di relazione educativa “ideale”.

Il totale disinteresse degli ultra-pedagogisti per l’ingresso degli studenti nel loro complesso nella dimensione collettiva e universale del sapere e della cultura li spinge a focalizzarsi in modo esclusivo sul vissuto soggettivo dello studente rispetto ad un processo di apprendimento vissuto in forma di competenze individuali da spendere in una generica esperienza di cittadinanza. Anche la costante negazione della soggettività studentesca è un’ovvia conseguenza dell’individualismo metodologico da cui muove l’intero discorso attivistico. Quale ruolo assegna la pedagogia agli studenti che intende individualmente “difendere” senza dar loro la parola con cui potrebbero costituirsi come soggetto collettivo del proprio apprendimento? Il silenzio di Raimo su questo, l’approccio paternalistico dell’esperto di pedagogia nei confronti della componente studentesca, è imbarazzante.

A sua volta, l’insufficienza politica di questo discorso è inseparabile dai suoi evidenti limiti antropologici e, oserei dire, perfino pedagogici. Dopo aver accusato Della Loggia di interpretare rozzamente Rousseau come capostipite della scuola democratica e di una certa ideologia del “naturale” Raimo cita positivamente un testo in cui il bambino viene definito “di natura pieno di fantasia e creatività. Ama ciò che è vivo e concreto” (p. 234). Dopodiché, ammesso e non concesso che questa descrizione sia scientificamente inappuntabile, non si capisce perché l'insegnamento debba inseguire queste caratteristiche del bambino cancellando l'elemento negativo che nel sapere opera oggettivamente contro quelle disposizioni e tendenze “naturali”, che lavora mettendo in forma, e dunque sempre anche strutturando, cioè in parte necessariamente limitando, l'immaginazione piuttosto che dandole libero sfogo. Tutta la riflessione gramsciana sul problema della pseudo-spontaneità infantile e sulla duplice valenza della disciplina come coercizione e come autodisciplina10 alla libertà viene bellamente ignorata.

Da questo punto di vista, Raimo non è neanche un buon difensore della tradizione attivista in cui si iscrive. L'attivismo non ha lo stesso significato se applicato a campi disciplinari diversi e sicuramente non ha lo stesso significato in contesti sociali e storici diversi. Emma Castelnuovo, che pure Raimo cita (p. 66), prendeva posizione ad es. contro la “rivoluzione insiemistica” nella matematica del dopoguerra. Ora, l'eccessiva astrazione di questa prospettiva (che rappresenta un problema disciplinare ed epistemologico della storia della matematica contemporanea) è altra cosa dalle richieste di maggiore “realismo” e “riduzione del carico contenutistico” che avanza oggi nella scuola da parte dei pedagogisti. Ma chi tratta le questioni didattiche in modo generico e metodologico queste differenziazioni non riesce neanche a vederle.

 

4. La lotta al classismo senza lotta di classe

L’immagine della scuola che filtra dal libro è quella di un sistema autoritario “che boccia” e in cui i docenti sono fissati col sapere “nozionistico” (p. 17). Autoritaria perché boccia, ovviamente, non perché bocci tanto o poco. Perché se l'accusa è che la scuola italiana abbia una predilezione per le bocciature11 mi chiedo in quale scuola viva e di quale scuola parli Raimo. Non a caso, per illustrare questa sua immagine della scuola L’ultima ora ricorre, seriamente, ad una scena di Totò e i re di Roma presentandoci per l’ennesima volta l'immagine del docente sadico (p. 16). Ora, questa scena totalmente anacronistica non ci dice solo molto sul modo caricaturale con cui gli ultra-pedagogisti insultano i lavoratori della conoscenza ma è anche rivelatrice della loro concezione del sapere disciplinare.

L’accusa di Raimo contro la visione della scuola dei neogentiliani è che essi considerano la scuola un “esperimento in vitro” (p. 27) avulso dalla società e che così facendo non si rendono conto di riprodurre nella loro critica al “buonismo” scolastico atteggiamenti di tipo classista. Ma è chiaro che qui il termine “classismo” è usato in modo sofistico. Esso indica, infatti, da un lato ciò che è relativo alle dinamiche oggettive dei rapporti tra le classi (la dimensione dello sfruttamento della classe subalterna), dall’altro fa riferimento alle dinamiche soggettive di tali rapporti (la dimensione della discriminazione di cui la classe subalterna è fatta oggetto). Come accade sovente con la sinistra liberal, Raimo non sa distinguere le due cose. E quindi il movimento del suo pensiero passa dal rintracciare nell’avversione dei Galli della Loggia e dei Mastrocola verso la scuola di massa e la pedagogia “progressista” un moto di sdegno soggettivo di tipo classista all’identificare nella difesa della grammatica, del lessico, della capacità di espressione e astrazione degli strumenti di potere classista, ovvero forme di perpetuazione di un rapporto oggettivo di sfruttamento.

Ora, mentre si può concordare con la premessa del ragionamento di Raimo, da ciò non deriva che sia necessariamente vera la conclusione. Essa anzi fa acqua da tutte le parti. Il fatto che Mastrocola non guardasse con simpatia i moti studenteschi della sua giovinezza non autorizza a considerare la capacità di astrazione logica – cui la stessa Mastrocola è per altro poco incline – una forma di subalternità al padrone. Invece nel libro di Raimo la difesa della grammatica e del lessico diventano di per sé problemi di “classismo” e vittima di ideologia è chi li considera strumenti di espressione e conoscenza, strumenti di emancipazione, cioè di accesso delle classi subalterne alla struttura del reale, premessa indispensabile al cambiamento degli assetti di potere della società. La critica di Raimo è su questo punto totalmente fuori fuoco e anacronistica. Bollare la richiesta di adeguate capacità espressive e logico-argomentative negli studenti come ideologia che maschera interessi di classe dietro la “neutralità” del linguaggio è una sciocchezza da fricchettoni fuori tempo massimo. In primo luogo, perché non è affatto necessario considerarli strumenti “neutrali” per difenderne l'acquisizione: essi sono piuttosto prerequisiti di accesso al sapere che ne rende possibile proprio una torsione conflittuale. È cioè attraverso di essi, non fuori di essi, che le classi subalterne possono costruire la propria soggettività antagonista. In secondo luogo, si ripetono in modo completamente decontestualizzate e astoriche le posizioni di Don Milani sulla cultura e il linguaggio “dei padroni”. In realtà basta uno sguardo alle attuali classi dirigenti per rendersi conto come grammatica, lessico e capacità di astrazione logica siano ormai orpelli inutili di cui le classi dominanti si sono da tempo disfatte allegramente.

Per questo è da rispedire al mittente la boutade populista di Raimo: il problema non è “se le persone siedono a tavola in modo più o meno appropriato, ma se sono o no in grado di procurarsi da mangiare” (p. 35). Si tratta di un paragone fuori luogo: le competenze logico-linguistiche che sono essenziali per “mangiare” e che casomai andrebbero equiparate agli strumenti di cottura o alle posate vengono identificate con il “galateo” per evocare gli scenari ottocenteschi che tanto piacciono agli ultra-pedagogisti in cerca di fantocci da sconfiggere con comodo.

In sostanza, il discorso di Raimo è una lotta al classismo senza lotta di classe. Esso predica un’opposizione all'espressione ideologica di una classe che non c'è più, come se oggi l’egemonia della borghesia si fondasse sull'appropriazione di Dante o di Kant. E come se Marx e Gramsci non avessero già ammonito che la contestazione dell'ideologia culturale egemone passa attraverso l'appropriazione del suo valore universalistico. L'elemento critico-negativo si costituisce a partire dalle contraddizioni interne all'ideologia dominante e certo non possono essere viste se non da chi, in una condizione sociale di subalternità, quell’ ideologia intenda smascherare.

Ciò rende il discorso contro il classismo di Raimo anni luce distante da quello dei suoi decantati maestri che, certo, avevano il vantaggio di vivere in un’epoca in cui il conflitto di classe aveva ben altra ampiezza e profondità. Quando De Mauro e la linguistica democratica evocavano il problema della lingua e delle élites lo facevano immaginando “forze sociali” ben determinate e una dialettica politica ancora viva e conflittuale. L'idea sbagliata ed idealistica di Dewey sulla riforma politica attraverso l'educazione (p. 50) viene applicata al contesto del dopoguerra in cui invece il fattore di democratizzazione proviene dalla forza materiale delle sinistre comuniste e socialiste nel paese. Raimo lamenta il fatto che le ricostruzioni storiche contemporanee ignorino il mondo della scuola ma la sua idea di storia della scuola democratica ignora totalmente la realtà materiale delle società in cui quella scuola ha tentato di farsi strada. Tutti i “santini” evocati da Raimo nella sua contro-storia della scuola hanno operato in una realtà in cui i cambiamenti decisivi avvenivano nella sfera delle relazioni produttive, la democrazia avanzava dalla lotta di classe nella società verso la scuola rendendone possibile la democratizzazione interna, non viceversa. L’approvazione dei “decreti delegati”, da questo punto di vista, è il canto del cigno di tale processo, rappresenta per un verso il riconoscimento formale e giuridico nella scuola di un movimento conflittuale che si sta già esaurendo nella realtà sociale12.

Le idee “progressiste” nate all'epoca della ricostruzione del dopoguerra, quando masse di diseredati uscivano dalla miseria, in cui il “socialismo” era una parola d'ordine corrente (p. 235) vengono invece riproposte come se nulla fosse cambiato, come se quelle stesse idee, amputate della propria base materiale nella società, potessero essere applicate alla scuola di oggi. Nel libro di Raimo, invece, la società diventa un indistinto agglomerato di soggetti a vario titolo subalterni cui si vorrebbe, in linea con la declinazione liberal dell'intersezionalismo, offrire opportunità emancipative “oltre la classe” (p. 292). Nella citazione di vita bell hooks che chiude il libro la “classe” appare mescolata alla “razza”, al “genere” e all’appartenenza “religiosa”: come se fossero concetti intercambiabili, come se ciò che può fare la scuola contro il razzismo e il sessismo o in favore dell’istruzione laica fossero anche solo lentamente paragonabili a ciò che la scuola non può fare contro l'oppressione di classe (p. 338). Secondo Raimo occorrerebbe “imparare tecniche di liberazione” (p. 46). Ma liberazione da cosa? e per fare cosa? Che cosa vuol dire “trasformare radicalmente il mondo” (p. 320)? Chi è il soggetto di questa trasformazione?

Ignorare il fatto brutale che la scuola oggi resiste ad una definitiva assimilazione al produttivismo capitalistico e alle logiche di mercato, immaginando che essa possa essere riformata in modo puramente pedagogico significa operare una mistificazione. L'idea che il lavoro docente rappresenti una sorta di “ideologia della scuola” che “sembra annullare qualunque istanza di contestazione davanti ai modelli sociali dominanti” (p. 320) è insulsa e offensiva.

Esattamente come i neogentiliani anche gli ultrapedagogisti non vedono i rapporti di classe, pensando di poterli superare con la buona volontà. Il vero “esperimento in vitro” non sarà forse quello di Raimo che vede nella scuola confusamente uno specchio delle relazioni sociali ma anche la causa delle relazioni sociali e propone di alambiccare innovazioni nelle aule per produrre cambiamenti fuori dalla scuola?

Ovviamente Raimo dirà che questo non lo ha mai scritto, che la sua visione è più profonda rinviandoci sdegnosamente alla “vasta letteratura” che dovremmo leggerci prima di osare rivolgerci a lui. Il problema è che invece Raimo queste banalità le scrive e le dà ad intendere ad ogni pagina: si volta e si rivolta in questa ambiguità e confusione continuamente. Da un lato si afferma che la “funzione primaria” della scuola è “l’istruzione”, la scuola “non può fare tutto” (p. 33). Dall'altro, lo stesso cambiamento sociale è visto tramite le lenti distorcenti della pedagogia. La scuola non va perché ci vorrebbe una “città educante” (p. 237), anzi una “società educante” (p. 31) In finale anche i problemi della scuola non sono problemi “sociali” ma di mancate “politiche educative per la società” (p. 33).

Ma l’istruzione in questo discorso alla fine cos’è? Deve garantire “i diritti primari dei cittadini”, deve garantire la literacy, termine asettico che indica le competenze necessarie a chi vuol far parte del mondo così com’è. L’opposizione tra la cultura e il mondo non è prevista, il mondo come dovrebbe essere scompare dall’orizzonte politico e anche dalla scuola. L’astrazione del punto di vista pedagogico è perfettamente speculare a quello formale dell’ideologia liberale in cui tutte le opinioni sono ammesse purché non mettano in discussione la cornice in cui si muove la visione del mondo dominante, fatta di “cittadini” e “relazioni” che essi liberamente stabiliscono vicendevolmente. Perfino la citazione di Biesta va in questa direzione: “il compito educativo consiste nel rendere possibile l’esistenza adulta di un altro essere umano nel e con il mondo” (p. 40). Mai contro. Per accorgersi che il sapere ha una funzione critico-negativa, serve cioè a visualizzare strutture di oppressione (che agiscono per altro all’interno del sapere stesso), non basta guardare dall’alto il mondo della scuola e della società ma bisogna che tale sguardo abbia un contenuto determinato: è solo all’interno di quel contenuto che quell’elemento critico-negativo si manifesta nella relazione educativa e la modella. Basta poi fare un passo per rendersi conto degli effetti spoliticizzanti di questo sguardo iperuraranico sulla società. Le solite “ricerche internazionali” (p. 36) dimostrano che brevità della vita, ammalarsi, anomia sociale ed essere sottopagati dipendono dalla mancanza di literacy.

Le domande che Raimo considera centrali rispetto alla scuola, non a caso, sono invece “come si insegna?” e “come si impara?”, “a che serve la scuola?”, “qual è il compito dell’educazione?”. Il cosa si insegna, quale fine abbia la scuola in sé, la libertà della scuola - e dunque del docente oltre che dello studente - sono domande che non interessano il progetto di scuola democratica degli ultrapedagogisti.

Ovviamente sarebbe ingeneroso pretendere da questo testo una coerenza eccessiva, considerata la sua natura composita e disorganica. Tuttavia è difficile sfuggire alla sensazione che il limite del libro non sia solo espositivo ma proprio teorico, che dietro passaggi ambigui e contraddittori ci sia una rappresentazione confusa e molto parziale della realtà sociale e politica dentro e fuori la scuola. Il discorso teorico qui appare sospeso tra affermazioni che vogliono essere provocatorie ed altre che sono invariabilmente allusive e suggestive.

Una proposizione molto vera e profonda come “la relazione educativa è l'unica tra le relazioni che ha come scopo la sua stessa conclusione” (p. 332) viene buttata lì e completamente svuotata di significato, rimane sospesa a mezz'aria perché legata esclusivamente all'aspetto esistenziale-psicologico invece di essere messa alla prova dal punto di vista del contenuto di quel rapporto. La dipendenza del discente dal docente non ha modo di concludersi che nel momento in cui sopraggiunge l'autonomia. Ma la questione è: come si misura o ci si può avvedere della sopraggiunta autonomia? Quando si prova a porre questa autonomia come padronanza di tipo disciplinare ecco che scatta l'accusa di “nozionismo”, segno che si è completamente svuotato il rapporto educativo di ogni relazione interna con l’oggetto del sapere, con la sua struttura, cioè con una verità che non riguarda la relazione ma ciò verso cui quella relazione è diretta. Diventare “adulti liberi, soggetti autonomi” (p. 42) è davvero un processo che si compie attraverso la scuola? Ed è davvero un problema riducibile all’autoritarismo? Questo concetto non viene declinato ma usato come passe-partout per smontare qualsiasi forma di asimmetria da docente e discente: cosa che risulta sempre agevole quando in quel rapporto non entra minimamente il cosa ma ci si concentra esclusivamente sul come.

Il libro abbonda di metafore spacciate per costrutti teorici buttati lì come, ad es., il parallelismo tra “realismo capitalista” di Mark Fisher e il “realismo scolastico” (p. 79) cioè l’incapacità di pensare oltre l’orizzonte esistente della scuola. Ma mentre è possibile determinare con precisione in cosa consista l’oltre rispetto al modo di produzione capitalistico, non c’è alcuna idea determinata su cosa dovrebbe essere l’oltre rispetto alla scuola attuale. L’illusione che sia possibile porre quel parallelismo deriva sempre dal fatto di non considerare rilevante il rapporto tra la scuola e le dinamiche produttive del capitalismo e quindi la pretesa di intervenire sulla prima senza andare a toccare le seconde: una pretesa, come abbiamo già detto, a sua volta fondata sulla presunzione di possedere un sapere specialistico circa le “relazioni” scolastiche considerate avulse dal contesto sociale (anzi, come elemento generativo delle relazioni sociali complessive!). Di conseguenza, tutto ciò che nella scuola e nel sapere è alternativo al realismo capitalista, è cioè antirealistico, viene cancellato o denigrato come “astrazione” e “dogmatismo”. Il “cambiamento” invocato dai Raimo significa in sostanza smantellamento dell'alterità tra insegnamento disciplinare e capitalismo, significa permettere a quest'ultimo la colonizzazione integrale dello spazio scolastico.

 

5. La pedagogia come storia sacra

Lo stesso Raimo si rende conto che la domanda sulla “funzione della scuola” va posta in modo storico e che appena ciò accade viene necessariamente messa in crisi ogni idea di un progetto unitario e condiviso (p. 145). Questa mancanza di unità deriva proprio dalla natura contraddittoria e conflittuale della scuola in quanto espressione dei conflitti e delle contraddizioni sociali: la scuola rappresenta qualcosa di diverso a seconda che venga inserita in un progetto alternativo dal punto di vista della sfera produttiva. Se invece noi consideriamo gli “attori” della scuola semplicemente gli individui con i loro progetti di vita, ecco che quelle soggettività collettive, le classi, le forze sociali, scompaiono dall’orizzonte e la scuola perde il proprio aggancio ad una idea di trasformazione della società che investe anche le figure del sapere e che è irriducibile ai progetti riformatori della pedagogia di sinistra.

“La politica a scuola e la politica fuori dalla scuola” (p. 287) diventa così uno slogan vuoto in cui, come ormai è d'uopo in certa sinistra all'acqua di rose, i problemi importanti relativi alla discriminazione e all'inclusione, occupano l'intero orizzonte della riflessione politica. Non è affatto vero quindi che “i problemi della scuola sono i problemi della società tout court sia che li si studi con il metodo degli storici contemporaneisti sia che li si studi con lo strumentario dei pedagogisti” (p. 160). Contro lo sguardo generale degli storici sul mondo della scuola Raimo pretende enucleare un “fatto educativo” (p. 164), una “scatola nera” (p. 167) relativi all'attività quotidiana che si svolge in classe. Ma questi processi “micro” vengono “marginalizzati” dagli storici con cognizione di causa, non per ignoranza o superficialità: il metodo degli storici del tutto legittimamente assegna allo “strumentario” pedagogico un ruolo subalterno nelle spiegazioni sociologiche.

D'altro canto, mostrando la natura conflittuale di ciò che avviene nella scuola come riflesso di ciò che avviene nella società gli storici dovrebbero spingere a uscire dall'ottica formale, metodologica e ortopedica della pedagogia e reintrodurre le questioni politiche e la sociologia del sapere nel dibattito educativo. Occorre uno sguardo sociologico che, per essere progressista, dovrebbe tornare ad essere materiale e cogliere gli elementi strutturali che determinano il contesto in cui le relazioni accadono, rendendole possibili. Invece, quando emerge la natura conflittuale di quei processi ecco che Raimo ribadisce che la scuola è “il campo principale di quest'arena” (p. 146), mossa che gli permette di neutralizzare questa alterità tra scuola e società e trattare i problemi scolastici, ridotti a problemi didattico-relazionali, come problemi sociali. Il punto è che la durezza granitica dei rapporti di produzione blocca in partenza e distorce ogni tentativo di modificarne gli effetti a partire dalle relazioni infrascolastiche: le proposte pedagogiche potranno certo modificare questo o quell’aspetto, rendere “più” inclusiva la scuola sotto questo o quel punto di vista. Ma ogni volta che la causa dell’esclusione si lega a rapporti di classe ecco che il limite dell’intervento pedagogico diventa evidente e negarlo ci trasporta direttamente nell’idealismo, nell’utopismo, nel sogno ad occhi aperti di una democratizzazione senza conflitto. Oppure nell’ideologia.

Prendiamo il caso dei NEET (giovani non in formazione, né in cerca di impiego) che viene considerato uno dei tanti fallimenti del sistema educativo. Per darsi arie scientifiche Raimo evoca continuamente le parole magiche “ricerca” e “dati statistici” come se non fosse il senso, il metodo della ricerca e il fine con cui si selezionano e leggono i dati a dover essere anzitutto messi in discussione. Ma inevitabilmente, chi guarda questi fenomeni con lo sguardo parziale e ottuso del “riformismo” pedagogico si lascerà sempre sfuggire l’essenziale perché questo essenziale si gioca fuori dalle aule. Non è chiaro perché il fenomeno dei NEET sia un fenomeno “negativo”: in realtà noi non sappiamo cosa facciano i giovani che non si formano e non cercano impiego13. Che cosa ci convince che sia un fenomeno che, almeno in parte, non ha a che fare col desiderio di viaggiare per il mondo e vivere la vita ma sia piuttosto espressione di un disagio e di una mancanza di speranza? Che nelle regioni più ricche il fenomeno è notevolmente ridimensionato. Ora, se questo fattore ci insegna qualcosa è esattamente che non è una carenza scolastica a essere la causa, né a poter rappresentare una soluzione rispetto a tale problema. E che dunque ogni tentativo di affrontarlo aumentando l’appeal della didattica a suon di “innovazioni” è del tutto privo di senso.

Oppure, per fare un esempio ancora più radicale, prendiamo il caso della “disabilità” (pp. 297 sgg.). È chiaro che se consideriamo seriamente il tema della disabilità ci introduciamo in un orizzonte di riflessione che non può che mettere in discussione l’intero modo di produzione capitalistico. Quando si parla di disabilità e inclusione, allora, a quale modello14 ci si ispira? A quello liberal che ha come punto di riferimento l’accesso dei disabili alle risorse esistenti e la lotta culturale contro la discriminazione o quello socialista che lotta, sì, contro la discriminazione ma ha come obiettivo una critica radicale della performatività capitalistica e dell’ineguale distribuzione delle risorse? L'idea dell'inclusione entra necessariamente in contraddizione con la persistenza di un contesto extrascolastico fondato sull'idea di performance e competizione capitalistiche. Questo costringe a ripensare a fondo il problema della performance e sicuramente ha un profondo influsso sull'idea di cosa potrebbe essere la produzione e riproduzione del sapere in una società solidale. Ma se il tema della performance scolastica viene ridotto all'astratta relazione docente-discente, se essa viene trattata con i concetti inerenti al vissuto di chi apprende, al suo bisogno di inclusione, se, quindi, essa non concerne più l'oggetto del sapere nella sua universalità, la possibilità effettiva di padroneggiare i suoi nessi, è ovvio che si può pensare la performance come qualcosa di modellabile a piacere. Si può anche pensare di eliminarla completamente. Ma il punto non è questo. Il punto è che, come la si pensi rispetto a questo tema, pensare che l'abolizione di ogni tipo di performatività nella scuola possa preludere anche solo inizialmente ad una forma di cambiamento sociale rimane una pura fantasia. La differenza fondamentale tra Raimo e Ricolfi-Mastrocola è che per i primi “le disuguaglianze sociali [sono] in un qualche modo non modificabili radicalmente” (p. 311) mentre per Raimo esse lo sono tramite riforme scolastiche. Da questo punto di vista, la “selettività” dei neogentiliani è “l'inclusione” degli ultrapedagogisti vista di spalle.

 

6. Contro-storia della contro-storia

Come abbiamo già visto, per Raimo e gli ultrapedagogisti, il loro settore disciplinare è immune da critiche. Non a caso, ripercorrendo i momenti fondamentali e gli “appuntamenti mancati” della storia scolastica repubblicana, Raimo ci tiene a ribadire che la pedagogia ha già affrontato il nodo critico e auto-critico sulla natura dei processi educativi e sulla possibilità e i limiti del suo stesso sapere (p. 157). Ma da qui a dire che la risposta a questi problemi sia, di nuovo, affare della pedagogia e non invece qualcosa che strutturalmente deve sfuggirle, non rientra e non può rientrare nell'orizzonte di pensiero dei Raimo. Invece di chiedersi come mai gli insegnanti quando incontrano la pedagogia come prassi istituzionale non incontrino questa istanza auto-riflessiva ma un sapere calato dall'alto ed estraneo alle proprie esigenze lavorative e disciplinari, li si critica perché non si fanno carico della gloriosa storia dell’attivismo pedagogico (ibid.). Come se quella storia, avendo affrontato il tema del senso e della funzione della scuola, lo avesse già anche risolto e come se, conoscendo quelle pagine, i docenti potessero scoprirvi il senso del proprio operato nella realtà quotidiana, vedendoselo magicamente trasfigurato sotto gli occhi. Il fascista aveva teorizzato e imposto “l'uomo nuovo”, l'ultra-pedagogista ha teorizzato e imposto “la scuola nuova” e se i docenti non sono convinti è colpa loro: studiassero di più!

In questa storia sacra ci sono però interessanti lacune. Il periodo glorioso della “sperimentazione” degli anni ‘70, ovvero l’unico momento in cui l’idea di una riforma della scuola cresceva dal basso coinvolgendo docenti e studenti in un comune sforzo di ripensamento della scuola della società, delle relazioni dei contenuti disciplinari. Altrettanto significativo è il silenzio sulla svolta politica reazionaria degli anni ‘90. Si tratta del periodo in cui pedagogia diventa parte di un progetto di riforma internazionale perché l'UE costringe ad assumere un'ottica omogenea tra gli stati membri (p. 163). Che in questo processo di globalizzazione dell’istruzione siano evidenti anche effetti distorsivi, che lo svuotamento politico della scuola sia effetto di scenari di marginalizzazione della conflittualità delle classi subalterne ovviamente non rientra nell’interesse degli ultra-pedagogisti. Le “richieste dell’Unione Europea” - come le fantomatiche “ricerche” - vengono sempre chiamate in causa come la Santissima Trinità: tutto bello, tutto vero, tutto giusto. Esse sono il metro e la misura di tutto ciò che s’ha da fare per migliorar la scuola. Mai un dubbio sfiora l’ultra-pedagogista sui fini di tali “analisi” e “indirizzi”, sugli strumenti concettuali che vengono utilizzati, se, insomma, si possa avere un sapere critico su questa presunta critica della scuola.

Altro esempio: la legge sull’autonomia, secondo Raimo, trasforma le scuole in “presidi di democrazia”. Viene da chiedersi: non lo erano già? C’era bisogno dell’autonomia e del legame socio-economico col territorio per renderle tali? Perché si criticano i tagli all’istruzione e non la legge sull’autonomia con i suoi effetti aziendalizzanti sulle scuole? (p. 34, p. 215). In quale scuola è entrato Raimo per sentenziare con tono apocalittico che “l'uguaglianza non è riconosciuta più come un valore” (p. 218)? Offensiva nei confronti di un corpo docente verso il cui lavoro non spende mezza riga di riconoscimento e solidarietà questo giudizio è integralmente ideologico: a partire dalla sua idea di una scuola interamente rifondata su un impianto pedagogico del tutto discutibile e calato dall'alto, investe la scuola di poteri che non ha e non può avere, rovescia su di essa l'effetto di ineguaglianze sociali ed economiche.

È sempre un generico “Potere”, è sempre un generico “governo” il fine verso cui si orienta la scuola. L'autorità viene insegnato insieme “all'alfabeto” (p. 100). Un radicalismo apocalittico e anarcoide che non costa niente nell’ultra-pedagogismo: una critica velleitaria e totalizzante al lavoro scolastico e poi un pragmatismo ottimistico e collaborazionista, pronto a sedersi ai tavoli del Ministero. Cecità nella teoria e nella prassi vanno a braccetto.

 

7. Pedagogia della miseria o miseria della pedagogia?

Mentre si legge il libro un pensiero nasce spontaneo: tutta questa insofferenza verso la scuola pubblica attuale, questa celebrazione del gioco, questa critica ai “programmi troppo gravosi”, alle aule sorde e grigie…non sarà che Raimo ci diventa un adepto delle “scuole del bosco”? Prontamente però (perché - per citare Gaber - Raimo “è cieco ma intelligente”) ecco che arriva il capitolo in cui prende posizione contro le scuole nel bosco (pp. 244 e sgg.). Indovinate con quali portentosi argomenti? La bibliografia non è sufficiente.

La critica di Raimo qui appare veramente forzata, quelle parole che, attaccando la scuola così com'è costruiscono una mistica delle scuole “libere”, sono le stesse con cui ha martellato finora il lettore. Al di là dell’osservazione snobistica che lui quelle idee le ha lette in serie ricerche accademiche mentre Casertano, Bello, Mai e Ronci sarebbero dei poveri sprovveduti senza “tituli”, al di là della precisazione di non voler (a parole) smantellare la scuola pubblica non si capisce davvero dove stia la differenza. Alla fine infatti, costretto dall'evidenza, Raimo si arrende: quelle esperienze “non sono da liquidare” (p. 261). Sorge il sospetto però che i pirla da cui prende altezzosamente le distanze, abbiano più intuito politico di lui15.

Lo stesso vale per il concerto di “povertà educativa” che torna a più riprese nel libro, assieme alla literacy, alle competenze “di cittadinanza” e altri costrutti cari alle agenzie internazionali sull’educazione e che presentano sempre una chiara matrice neoliberista. Il concetto di “povertà educativa” non viene criticato, infatti, a partire dai suoi presupposti epistemici (e quindi politici) bensì perché rischia di favorire i processi di “misurazione” dell'educazione (p. 269). La pedagogia della miseria con cui Raimo si erge a difesa degli ultimi è così interamente costruita da concetti e parole d’ordine che trovano ampia risonanza nel mondo blasonato delle istituzioni europee. Esse parlano di “povertà educativa” perché distolgono sdegnosamente lo sguardo dalla povertà reale. Da qui la miseria della pedagogia che non entra mai in conflitto con quelle istituzioni ma, anzi, vi si richiama costantemente. E anche in questo frangente, come nel caso delle scuole nel bosco, Raimo vorrebbe evitare di buttare il bambino insieme all’acqua con cui è stato lavato senza rendersi conto che il bambino è nato morto e la pedagogia che ci vende è imbevuta fin nelle più intime cellule di quell'acqua torbidissima.


Note

1 P. Calamandrei, Discorso al III Congresso dell’Associazione a difesa della scuola nazionale (ADSN), in Scuola democratica, iv, suppl. al n. 2 del 20 marzo 1950, pp. 1-5.

2 Per un primo orientamento sul concetto di “astrazione” cfr. Roberto Finelli, Astrazione e dialettica dal Romanticismo al Capitalismo. Saggio su Marx, Bulzoni, Roma 1987.

3 Cfr. invece M. Maurizi, Non diventare adulti senza restare infantili. Note sulla pedagogia di Adorno, in “Educazione Democratica”, Numero 7, gennaio 2014.

4 Su politiche della scuola e ristrutturazione del mercato del lavoro cfr. M. Dal Lago, La crisi degli insegnanti, in “Nuova Secondaria”, marzo 2013, anno XXX, numero 7, pp. 44-46.

5 Cfr. H. A. Giroux, Intellectual Labor and Pedagogical Work: Rethinking the Role of Teacher as Intellectual, in “Phenomenology+Pedagogy” 3, (1, 1985), pp. 20-32.

6 F. Rizvi, Lifelong Learning: Beyond Neo-Liberal Imaginary, in D. N. Aspin (a cura di), Philosophical Perspectives on Lifelong Learning, Lifelong Learning Book Series, vol. 11, Springer, Dordrecht 2007, 114 e sgg.

7 Su questi tratti generali dell’attivismo cfr. G. Chiosso, Novecento pedagogico. Profilo delle teorie educative contemporanee, Brescia, La Scuola, 1997, pp. 53 e sgg.

8 K. Marx – F. Engels, Ideologia tedesca; Editori riuniti, Roma 1972, p. 25.

9 A. Gramsci, Quaderni del carcere, , Einaudi, Torino 1975, 4 voll., q. 9, pp. 1183-85.

10 A. Gramsci, Quaderni dal carcere, cit., q. 22, p. 2163.

11 Costante calo delle bocciature: Bocciati alla maturità: solo lo 0,2% non passa. È il primo anno il più difficile (truenumbers.it); scuola italiana pienamente nella media OCSE: Quanti sono i ripetenti nelle scuole italiane - Openpolis

12 Di “anni di stallo” parla esplicitamente G. Ricuperati, Storia della scuola in Italia. Dall’Unità a oggi, Editrice La Scuola, 2015.

13 Giovani NEET: chi e quanti sono in Italia e in Europa? (lenius.it)

14 Cfr. R. Medeghini – E. Valtellina, Quale disabilità? Culture, modelli e processi d'inclusione, Franco Angeli. Milano 2016.

15 Per una critica senza sconti all’ideologia delle scuole nel bosco cfr. invece A. Pavesi e M. Dal Lago, Una selva molto oscura. Il neoliberismo comunitarista delle scuole parentali e libertarie - DINAMOpress


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