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venerdì 30 dicembre 2022
VINTA VERTENZA DAI COBAS TERNI: I PERMESSI PERSONALI DI DOCENTI E ATA SONO UN DIRITTO NON A DISCREZIONE DEI DS
sabato 24 dicembre 2022
verità e giustizia per l'agguato mortale che ha colpito la comunità curda di Parigi
giovedì 22 dicembre 2022
LA FORMAZIONE E’ UN DIRITTO NON UN OBBLIGO!!
LA FORMAZIONE E’ UN DIRITTO NON UN OBBLIGO!!
la legge 107/2015.
La questione dell’obbligatorietà della formazione in servizio era stata già oggetto di discussione e analisi quando la Legge 107/2015 aveva introdotto la formazione obbligatoria per tutti i docenti. All’articolo 1, comma 124, la Legge 107/2015 recita: “Nell’ambito degli adempimenti connessi alla funzione docente, la formazione in servizio dei docenti di ruolo è obbligatoria, permanente e strutturale. Le attività di formazione sono definite dalle singole istituzioni scolastiche in coerenza con il PTOF e con i risultati emersi dai piani di miglioramento delle istituzioni scolastiche previsti dal regolamento di cui al DPR 28 marzo 2013, n. 80, sulla base delle priorità nazionali indicate nel Piano nazionale di formazione, adottato ogni tre anni con decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, sentite le organizzazioni sindacali rappresentative di categoria”.
La norma introduceva un nuovo obbligo di servizio, ma in maniera del tutto generica, non indicando alcun monte ore minimo di aggiornamento – formazione in servizio.
A questo presunto obbligo faceva seguito, a distanza di un anno la Nota Miur n. 2915 del 15 settembre 2016 “Prime indicazioni per la progettazione delle attività di formazione destinate al personale scolastico”, in cui si prospettava una formazione triennale di 125 ore, suddivise in almeno 40 ore in presenza (8 ore x 5 UF) e 85 ore in attività di ricerca e riflessione sulla professionalità (85 ore), articolate in unità formative di 25 ore.
Ma a questo programma non è mai stato data alcuna applicazione. In alcune scuole i dirigenti hanno convinto i collegi docenti a deliberare l’attivazione di corsi di formazione, che venivano presentati come obbligatori. Ma, laddove venivano poste obiezioni e si faceva valere il principio della libertà di insegnamento, e quella di apprendimento e formazione, l’obbligo svaniva istantaneamente.
Il nuovo Decreto ministeriale 2021
Ora sembra che il Ministero dell’Istruzione abbia ripreso quel programma, con l’emanazione del D.M. 188 del giugno 2021. All’articolo 1 del Decreto Ministeriale 188/2021 si legge:
Il presente decreto disciplina le modalità attuative degli interventi di formazione obbligatoria del personale docente impegnato nelle classi con alunni con disabilità, per l’anno scolastico 2021/2022, finalizzati all’inclusione scolastica dell’alunno con disabilità e a garantire il principio di contitolarità della presa in carico dell’alunno stesso.
All’articolo 2, comma 1 viene definito il personale destinatario:
Le attività formative di cui all’articolo 1 sono destinate al personale docente impegnato nelle classi con alunni con disabilità non in possesso del titolo di specializzazione sul sostegno.
E al comma 3 viene precisato:
La partecipazione alle attività formative assume carattere di obbligatorietà e non prevede esonero dal servizio.
Queste nuove norme secondo cui la formazione si configura come obbligatoria, senza retribuzione aggiuntiva e senza nemmeno esonero dal servizio, dipendono da una norma di una legge finanziaria, e quindi si presentano come imperative, ma sono in patente contrasto con i principi costituzionali, con le norme del Testo Unico 297/1994, che affermano la libertà di insegnamento, con le norme del Regolamento sull’autonomia scolastica, con le norme contrattuali che definiscono gli obblighi di lavoro del personale docente, anche sulla formazione, e con il codice civile.
L’obbligo formativo e la libertà di insegnamento
In primo luogo: le norme che considerano obbligatoria una determinata forma di aggiornamento o formazione sono in contrasto con gli articoli 3 e 33 della Costituzione[1], che impediscono che un qualsiasi corso di formazione possa diventare obbligatorio, anche se deliberato dal Collegio docenti.
Nessun/a docente può essere obbligato a seguire un determinato corso di formazione senza il suo consenso.
Il Testo Unico 297/1994 riprende questa impostazione costituzionale recitando, all’articolo 1 (che funge da principio generale per interpretare tutte le norme successive):
- Nel rispetto delle norme costituzionali e degli ordinamenti della scuola stabiliti dal presente testo unico, ai docenti è garantita la libertà di insegnamento intesa come autonomia didattica e come libera espressione culturale del docente.
- L’esercizio di tale libertà è diretto a promuovere, attraverso un confronto aperto di posizioni culturali, la piena formazione della personalità degli alunni.
- È garantita l’autonomia professionale nello svolgimento dell’attività didattica, scientifica e di ricerca.
Dunque, sia la Costituzione sia le norme basilari sull’insegnamento garantiscono la libertà di insegnamento: da ciò deriva l’illegittimità di qualsiasi imposizione di un corso di formazione.
Le competenze del collegio docenti in materia di formazione e aggiornamento
In secondo luogo, che la formazione e l’aggiornamento rientrano nelle competenze del collegio docenti. Tra le competenze indicate dall’articolo 7. Comma 2 del DPR 297/1994 si legge:
Il collegio dei docenti
- a) ha potere deliberante in materia di funzionamento didattico del circolo o dell’istituto. In particolare cura la programmazione dell’azione educativa anche al fine di adeguare, nell’ambito degli ordinamenti della scuola stabiliti dallo Stato, i programmi di insegnamento alle specifiche esigenze ambientali e di favorire il coordinamento interdisciplinare. Esso esercita tale potere nel rispetto della libertà di insegnamento garantita a ciascun docente;
(…)
- g) promuove iniziative di aggiornamento dei docenti del circolo o dell’istituto.
Dalle norme citate si evince che le iniziative promosse dalle istituzioni scolastiche relative all’aggiornamento e alla formazione in servizio dei docenti passano per il collegio dei docenti. In forza dell’autonomia scolastica, che ha assunto rango costituzionale, non può essere il Ministero a imporre un corso che non sia approvato dal collegio docenti. E il collegio esercita il suo potere nel rispetto della libertà di insegnamento garantita a ciascun docente.
E tale norma è ribadita nell’articolo 28 del CCNl del 29.11.2007 che recita ai commi 3 e 4
- Gli obblighi di lavoro del personale docente sono correlati e funzionali alle esigenze come indicato al comma 2.
- Gli obblighi di lavoro del personale docente sono articolati in attività di insegnamento ed in attività funzionali alla prestazione di insegnamento. Prima dell’inizio delle lezioni, il dirigente scolastico predispone, sulla base delle eventuali proposte degli organi collegiali, il piano annuale delle attività e i conseguenti impegni del personale docente, che sono conferiti in forma scritta e che possono prevedere attività aggiuntive. Il piano, comprensivo degli impegni di lavoro, è deliberato dal collegio dei docenti nel quadro della programmazione dell’azione didattico-educativa e con la stessa procedura è modificato, nel corso dell’anno scolastico, per far fronte a nuove esigenze. Di tale piano è data informazione alle OO.SS. di cui all’art. 7-.
Le norme sull’autonomia scolastica
L’imposizione di un corso da parte del Ministero appare in patente conflitto con le norme dell’autonomia scolastica, le quali riconoscono che l’autonomia delle istituzioni scolastiche è garanzia di libertà di insegnamento, di pluralismo e realizzazione di interventi di educazione, istruzione adeguati ai diversi contesti:
- L’autonomia delle istituzioni scolastiche è garanzia di libertà di insegnamento e di pluralismo culturale e si sostanzia nella progettazione e nella realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione mirati allo sviluppo della persona umana, adeguati ai diversi contesti, alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti, al fine di garantire loro il successo formativo, coerentemente con le finalità e gli obiettivi generali del sistema di istruzione e con l’esigenza di migliorare l’efficacia del processo di insegnamento e di apprendimento.
Quindi non è possibile che un corso deciso a livello centrale ministeriale diventi immediatamente obbligatorio per una scuola autonoma e i suoi docenti. Occorre, per effetto della combinazione delle norme citate, una delibera collegiale che recepisca e faccia propria la proposta ministeriale. E l’organo competente è il collegio docenti, che delibera nel rispetto della libertà di insegnamento e comprende e riconosce le diverse opzioni metodologiche, anche di gruppi minoritari, valorizza le corrispondenti professionalità:
- Ogni istituzione scolastica predispone, con la partecipazione di tutte le sue componenti, il piano triennale dell’offerta formativa, rivedibile annualmente. Il piano è il documento fondamentale costitutivo dell’identità culturale e progettuale delle istituzioni scolastiche ed esplicita la progettazione curricolare, extracurricolare, educativa e organizzativa che le singole scuole adottano nell’ambito della loro autonomia.
- Il piano è coerente con gli obiettivi generali ed educativi dei diversi tipi e indirizzi di studi, determinati a livello nazionale a norma dell’articolo 8, e riflette le esigenze del contesto culturale, sociale ed economico della realtà locale, tenendo conto della programmazione territoriale dell’offerta formativa. Esso comprende e riconosce le diverse opzioni metodologiche, anche di gruppi minoritari, valorizza le corrispondenti professionalità e indica gli insegnamenti e le discipline tali da coprire:
il fabbisogno dei posti comuni e di sostegno dell’organico dell’autonomia, sulla base del monte orario degli insegnamenti, con riferimento anche alla quota di autonomia dei curricoli e agli spazi di flessibilità, nonché del numero di alunni con disabilità, ferma restando la possibilità di istituire posti di sostegno in deroga nei limiti delle risorse previste a legislazione vigente;
il fabbisogno dei posti per il potenziamento dell’offerta formativa.
Gli obblighi di servizio definiti nel contratto collettivo di lavoro e la formazione.
In quarto luogo una norma di legge che impone un obbligo di lavoro supplementare e per di più non retribuito contrasta con le norme contrattuali, e come vedremo, con le norme del codice civile. La determinazione dell’obbligo formativo istituito dal D.M. 188/2021 lede le prerogative contrattuali dei docenti (art. 62 e seguenti del CCNL 2007) e degli organi collegiali, tendendo a ridurre la formazione a obbligo assoluto dipendente da rapporto gerarchico tra docente e Amministrazione Scolastica.
Gli articoli 62 e seguenti del Contratto Nazionale di lavoro del comparto scuola del 29.11.2007, tuttora vigenti, confermati dal CCNL del Comparto Istruzione ricerca del 19.04.2018, configurano la formazione come “una leva strategica fondamentale per lo sviluppo professionale del personale, per il necessario sostegno agli obiettivi di cambiamento, per un’efficace politica di sviluppo delle risorse umane.” Prosegue il contratto: L’Amministrazione è tenuta a fornire strumenti, risorse e opportunità che garantiscano la formazione in servizio.(..,) Per garantire le attività formative di cui al presente articolo l’Amministrazione utilizza tutte le risorse disponibili, nonché le risorse allo scopo previste da specifiche norme di legge o da norme comunitarie. (…) Le iniziative formative, ordinariamente, si svolgono fuori dell’orario di insegnamento. Il personale che partecipa ai corsi di formazione organizzati dall’amministrazione a livello centrale o periferico o dalle istituzioni scolastiche è considerato in servizio a tutti gli effetti. Qualora i corsi si svolgano fuori sede, la partecipazione ad essi comporta il rimborso delle spese di viaggio.
Gli insegnanti hanno diritto alla fruizione di cinque giorni nel corso dell’anno scolastico per la partecipazione a iniziative di formazione con l’esonero dal servizio e con sostituzione ai sensi della normativa sulle supplenze brevi vigente nei diversi gradi scolastici. Con le medesime modalità, e nel medesimo limite di 5 giorni, hanno diritto a partecipare ad attività musicali ed artistiche, a titolo di formazione, gli insegnanti di strumento musicale e di materie artistiche.
Il dirigente scolastico assicura, nelle forme e in misura compatibile con la qualità del servizio, un’articolazione flessibile dell’orario di lavoro per consentire la partecipazione a iniziative di formazione anche in aggiunta a quanto stabilito dal precedente comma 5.
Le stesse opportunità, fruizione dei cinque giorni e/o adattamento dell’orario di lavoro, devono essere offerte al personale docente che partecipa in qualità di formatore, esperto e animatore ad iniziative di formazione. Le predette opportunità di fruizione di cinque giorni per la partecipazione ad iniziative di formazione come docente o come discente non sono cumulabili. Il completamento della laurea e l’iscrizione a corsi di laurea per gli insegnanti diplomati in servizio hanno un carattere di priorità.
Quindi le norme contrattuali vigenti da una parte garantiscono la formazione come diritto del docente, riconoscono che è parte del servizio, che per espletarla si può fruire di 5 giorni di esonero dall’insegnamento, e che, se si svolge fuori sede, si deve essere rimborsati delle spese di viaggio. Dall’altra la formazione si configura come attività funzionale al lavoro docente, non compresa però né nelle 40 ore collegiali né nella 40 ore utili per la partecipazione alle attività dei consigli di classe, previste dall’art. 29 del vigente CCNL del 29.11.2007.
Dunque, in analogia con la formazione per la sicurezza sul lavoro, deve essere considerata a tutti gli effetti, come attività lavorativa. Se un lavoratore viene obbligato a partecipare ad un corso per disposizione del dirigente, qualora abbia luogo oltre l’orario di servizio, deve essere retribuito.
Gli obblighi di lavoro e il Codice civile.
La formazione coatta e senza retribuzione accessoria, come viene configurata dal Decreto Ministeriale 188/2021, è in patente contrasto con quanto previsto dall’art. 2113 del Codice civile, che sanziona prestazioni gratuite o retribuite in misura inferiore a quello ordinario, norma che si ispira all’articolo 36 della Costituzione. Le rinunzie e le transazioni, che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all’articolo 409 del codice di procedura civile, non sono valide. Dunque, il codice stabilisce che né le norme di legge né quelle contrattuali possono essere in contrasto con il principio secondo cui ad ogni prestazione di lavoro deve corrispondere un’equa retribuzione.
La nota Ministeriale del 14 settembre
Anche al Ministero dell’Istruzione la questione di una norma che impone un obbligo formativo deve essere apparsa foriera di contenziosi, se nella Nota emanata il 14 settembre, a firma di Filippo Serra, si evita di formulare il termine obbligo. Recita la Nota:
Con l’emanazione del Decreto del Ministro n. 188 del 21.06.2021 è stata data attuazione all’art. 1, comma 961, della legge di Bilancio 2021 che delinea per l’anno 2021 un sistema formativo che garantisca una conoscenza di base relativa alle tematiche inclusive per il personale docente non specializzato su sostegno e impegnato nelle classi con alunni con disabilità. Una preparazione di base di questo tipo è auspicata sin dai primi anni dei percorsi di inclusione e costituisce uno strumento di lavoro per rispondere a tutti gli alunni, in un’ottica di piena inclusione e a garanzia del principio di contitolarità nella presa in carico dell’alunno stesso.
Il personale docente in questione, per l’anno scolastico 2021/2022, sarà invitato a frequentare un percorso di formazione su tematiche inclusive, secondo quanto previsto dal DM 188 citato tenendo conto delle indicazioni fornite con la presente nota e rivolta alle scuole polo per la formazione che avranno il compito di organizzare le attività formative.
Appare chiaro che lo stesso Ministero pone la questione più come un’esigenza generale di garantire la formazione del personale da parte dell’Amministrazione, piuttosto che di obbligo per i singoli docenti. E dunque implicitamente sconsiglia ai dirigenti di proporre la formazione prevista dal D.M. 188/2021 in termini impositivi.
In pratica, come ci si può opporre alla eventuale imposizione di corsi presentati impropriamente dai dirigenti scolastici come obbligatori?
- Si può far inserire in ogni PTOF la propria proposta formativa, anche in forma sintetica (su tempi generali, per esempio: “La scuola in carcere”, “La scuola della meritocrazia”, “Didattica delle conoscenze o delle competenze?”; “Scuola della Costituzione o Scuola aziendale”?, “Sviluppo e ambiente” ecc, oppure su temi disciplinari o interdisciplinari specifici di ciò che si insegna) ai sensi dell’art. 3 del DPR 275/99 (come modificato dall’articolo 1, comma 14 della Legge 107/2015) che riconosce le diverse opzioni metodologiche di gruppi
- Si possono ribadire in sede di collegio, o di comunicazione al dirigente scolastico, i principi costituzionali (artt. 3 e 33) sulla pari dignità sociale e sulla libertà d’insegnamento, da cui si deduce l’illegittimità di qualsiasi imposizione in termini di formazione.
- Si può e si deve sottolineare l’illegittimità costituzionale della norma del Decreto Ministeriale 188/2021 che dispone l’ampliamento e l’aggravamento della prestazione senza prevedere alcuna retribuzione aggiuntiva (così come della norma della legge 107/2015). A tal fine giova ricordare che ai sensi dell’art. 64 del CCNL 29/11/2007 la formazione è un diritto, non un
- Si deve comunque chiedere la delibera del collegio docenti su ogni corso di formazione, ricordando che la delibera collegiale deve tener conto della libertà di insegnamento e delle diverse opzioni culturali metodologiche didattiche
- Si può e si deve osservare che la formazione coatta e senza retribuzione accessoria è in contrasto con le norme degli obblighi contrattuali e con l’art. 2113 del Codice civile che sanziona prestazioni gratuite o retribuite in misura inferiore a quello ordinario, evidenziando che secondo l’art. 36 della Costituzione la retribuzione deve essere proporzionata alla quantità e qualità della
- Nella scongiurata ipotesi di una delibera collegiale a favore della obbligatorietà e gratuità della partecipazione ad azione formativa, si deve ricordare che le disposizioni d’incremento d’orario di lavoro non vincolano tutti i docenti del collegio. Il vincolo sussiste solo per coloro che abbiano votato a Chi vota contro, deve farlo verbalizzare, così si libera dai relativi obblighi (art. 24 DPR 3/1957).
- In ultimo, qualora un dirigente imponga come obbligatoria la partecipazione al corso attraverso una circolare o altra disposizione, e venga prospettata una sanzione disciplinare per chi non aderisce al corso proposto, si può presentare rimostranza scritta ai sensi del Testo Unico n. 3 del 1957. Se l’ordine viene reiterato, si può ottemperare, riservandosi di impugnare l’ordine di servizio in altre sedi e chiedere la retribuzione delle ore svolte fuori dal proprio orario di servizio.
In sintesi: si può contrastare l’obbligatorietà dei corsi di formazione imposti dal Ministero, e decidere di partecipare solo ai corsi che si considerano una opportunità di formazione professionale, e considerando illegittima ogni disposizione che configuri come obbligatoria la partecipazione ad un corso specifico.
Pare improbabile che i dirigenti insistano per l’obbligo dopo la circolare ministeriale che parla di semplice invito ai docenti.
Nel caso si opti per partecipare comunque ad un corso di formazione, si può chiedere la retribuzione delle ore svolte fuori dal proprio orario di servizio.
I corsi di formazione sulla sicurezza
Per quanto riguarda i corsi di formazione sulla sicurezza, rimandando ad altre note specifiche, già elaborate negli anni scorsi, ricordiamo che essi sono qualificati come obbligatori ai sensi dell’art. 37 del D.Lgs. 81/2008, nel quale però si chiarisce che tale formazione va espletata in orario di servizio e senza oneri per i lavoratori. Quindi un corso sulla sicurezza che si svolga fuori dall’orario di servizio deve essere retribuito, e non deve comportare nessun onere per il lavoratore. Altrimenti non può considerarsi obbligatorio.
[1] Articolo 3: Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. (…)
Articolo 33: L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento.
La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi.
martedì 20 dicembre 2022
ARRETRATI CCNL: LA SORPRESA DI NATALE
ARRETRATI CCNL: LA SORPRESA DI NATALE
👉Tantissimi colleghi, docenti e ATA ci stanno contattando perché nella visualizzazione degli arretrati su Noipa si ritrovano dalle 400 alle 500 euro in meno rispetto alle tabelle diffuse dai sindacati firmatari di contratto
👉 Come purtroppo avevamo anticipato nei nostri precedenti comunicati -e anche nella piattaforma dello sciopero del 2 dicembre- gli aumenti previsti dal nuovo CCNL sottoscritto da CGIL-CISL-UIL, SNALS, GILDA e ANIEF e conseguentemente anche gli arretrati per i 4 anni di ritardo dalla scadenza del CCNL 2018, non sono quelli sbandierati da ministero e sindacati firmatari.
👉Occorrerebbe chiedere ai
firmatari di contratto perché hanno deciso di sottoscrivere un
contratto-miseria, con un aumento medio netto di 50 euro al mese e
arretrati ridicoli, che spesso per gli ultimi quattro anni si
aggirano mediamente sui 1.100 euro netti: circa 60 euro per tutto il
2019, 150 per il 2020, 450 per il 2021 e 500 per il 2022.
👉In più (fonte NoiPA):
❌I supplenti temporanei dovranno attendere non si capisce fino a quando
❌A chi ha aderito al fondo Espero - cosa sconsigliata dai Cobas – gli aumenti saranno decurtati della percentuale da versare al fondo
❌Per i periodi di sospensione gli arretrati non sono riconosciuti
COBAS SCUOLA TERNI
giovedì 15 dicembre 2022
LA SUPERCAZZOLA DELLA FUSIONE NUCLEARE: OVVERO CONTRO L'APPARATO MILITAR NUCLEARE
Condividiamo, come COBAS SCUOLA TERNI la dichiarazione di Angelo Baracca (riportata qui sotto) che denuncia il dispositivo militare della ricerca sulla fusione per confinamento inerziale, evitando la spettacolarizzazione acritica che va contestualizzata nella tradizione critica all’uso capitalistico della scienza dell’ “L’ape e l’architetto”di Marcello Cini e ci preoccupa come la “notizia” amplificata sui mezzi di informazione di massa in maniera apologetica e senza alcun riscontro critico e/o informativo non abbia informato sul reale impatto e le finalità della ricerca da parte di un'azienda governativa USA che fa parte strutturale dell'apparato militar-nucleare.
Si è scatenato sulla questione un processo di disinformazione di massa che è una preoccupante mistificazione, un'enorme supercazzola, senza ci sua stato spazio per voci critiche.
Un'operazione di greenwashing mediatica, fatta passare come rivoluzione energetica, che si configura come una grave e inaccettabile legittimazione della ricerca militare, un’operazione che ha l’obiettivo di convincere delle magnifiche sorti e progressive di una ricerca nuclear-militare, effettuata anche in violazione del trattato sul bando dei test nucleari del '96.
Angelo Baracca, classe 1939 è uno dei decani della fisica delle energie, che ha smontato l’inganno nucleare e denunciato gli interessi economici, i pericoli per la società, la sanità pubblica e la militarizzazione dei territori, partecipando con Giorgio Ferrari (coautore con lui di SCRAM, ovvero La Fine del Nucleare) sin dagli anni '70, alle prime lotte antinucleari e contro le centrali nucleari in Italia (la centrale di Montalto di Castro..), lotte che hanno contribuito successivamente alla doppia vittoria referendaria contro il nucleare, che il sistema politico e l'apparato economico-militar-nucleare hanno tentato (e stanno tentando nuovamente) di imporre nel nostro paese.
Se oggi non abbiamo pericolose e letali centrali nucleari in Italia, lo dobbiamo alle lotte collettive e del movimento degli anni '70, dell'autonomia, dei lavoratori autorganizzati dell'ENEL, dei tanti movimenti NONUKE che sono cresciuti da quelle lotte, ma anche per l'apporto che a questi movimenti hanno dato, tra gli altri Angelo Baracca e Giorgio Ferrari, che ancora oggi smontano il feticismo del nucleare e gli interessi dell’apparato militare e economico.
A PROPOSITO DI FUSIONE NUCLEARE
Sono, insieme a Giorgio Ferrari, sgomento di fronte alla campagna, internazionale, di disinformazione e mistificazione sul "grande" risultato sulla fusione nucleare! E non da ora. Al di là della questione generale della fusione, IN QUESTO CASO tutti i commenti, anche di specialisti, celano a un'opinione pubblica che non è in grado di valutare (o non ha gli elementi) alcuni fatti cruciali che cambiano radicalmente le cose.
Solo alcuno fatti:
-- la National Ignition Facility è un impianto MILITARE (poi concesso anche ad esperimenti di fisica fondamentale) dei Livermore laboratories, uno dei tre grandi laboratori (con Los Alamos e Sandia) di RICERCA SULLE ARMI NUCLEARI;
-- la fusione per confinamento inerziale - radicalmente diversa dal confinamento magnetico - anche se arriverà alla fusione "one shot" di un insieme di nuclei leggeri più piccolo di un grano di pepe, non è idonea alla realizzazione di impianti di produzione di energia: ma è la strada che perseguono i militari (dopo il trattato di bando dei test nucleari del 1996, ancorché mai ratificato dagli USA) per studiare il perfezionamento delle bombe a fusione, magari nella prospettiva di realizzare micro testate a fusione.
Stiamo cercando di scrivere articoli ma ovviamente non raggiungeremo le grandi testate. Gli scienziati, in generale, ci inzuppano il pane: del resto sono loro che hanno realizzato la bomba atomica!
Angelo Baracca
BIBLIOGAFIA di Angelo Baracca
- Manuale Critico di Meccanica Statistica, CULC, Catania, 1979;
- A Volte Ritornano, La Proliferazione Nucleare Ieri Oggi e Domani, Milano, Jaca Book, 2005;
- L’Italia Torna al Nucleare? I Rischi, i Costi, le Bugie, Milano, Jaca Book, 2008;
- Storia della Fisica Italiana, Un’Introduzione, Milano, Jaca Book, 2017;
- con S. Ruffo e A. Russo, Scienza e Industria, 1848-1915, Bari, Laterza, 1979;
- con A. Rossi, Materia e Energia, Milano, Feltrinelli, 1978;
- con G. Ferrari Ruffino, SCRAM, ovvero La Fine del Nucleare, Milano, Jaca Book, 2011.
- con R. Franconi, Cuba: medicina, scienza e rivoluzione, 1959-2014. Perché il servizio sanitario e la scienza sono all'avanguardia, Zambon, 2019
NON ESISTE ALCUN OBBLIGO PER I DOCENTI DI PRESENZA O SORVEGLIANZA DEGLI STUDENTI DURANTE LE ASSEMBLEE
I COBAS SCUOLA sono a fianco delle lotte studentesche per la difesa della scuola pubblica e partecipano liberamente alle assemblee, non come "sorveglianti", ma come soggetti della stessa comunità educante attivi contro le derive della scuola azienda, contro la riduzione del sapere critico a addestramento al lavoro e alle vuote competenze.
Chiariamo che non esiste alcuna norma contenuta in fonte primaria e/o secondaria del diritto, di natura legislativa e/o regolamentare, che preveda espressamente l’obbligo di presenza dei docenti e l’obbligo di vigilanza dei medesimi durante le assemblee studentesche.
Le disposizioni esistenti in merito, ovvero il DPR 416/74, gli artt.12,13 e 14 del Decreto legislativo 297/94 e il testo della Circolare Ministeriale 312/79 lo escludono con estrema chiarezza.
Le assemblee studentesche, rappresentano un diritto soggettivo degli studenti, diritto che va esercitato nell’ambito delle norme che lo regolano; l’art.13 comma 8 del Decreto legislativo 297/94 recita testualmente, “all’assemblea di classe o di istituto possono assistere, oltre al preside od un suo delegato, i docenti che lo desiderino”.
La Circolare Ministeriale 27 dicembre 1979 n.312, chiarisce che non sussiste neanche l’obbligo per gli insegnanti di accompagnare gli studenti all’assemblea.
Considerato che il tenore letterale della normativa vigente in materia esclude con chiarezza che le assemblee studentesche costituiscano attività didattica o esecuzione di obblighi di servizio contrattualmente definiti per i docenti, pertanto nello svolgimento delle assemblee durante l’orario delle lezioni, non è configurabile alcun obbligo di vigilanza da parte dei docenti.
In seguito a sentenza, l'unico obbligo è quello di rilevare e registrare le presenze degli alunni nel registro di classe se il docente fosse quel giorno in servizio alla prima ora di lezione.
Invece la partecipazione alle assemblee studentesche è libera, non può essere obbligo nè prevede alcuna sorveglianza da parte dei docenti.
Se venisse illegittimamente previsto dai dirigenti scolastici tramite circolare/ordine di servizio la presenza e/o la sorveglianza vi consigliamo di presentare rimostranza scritta ex art. 17 del D.P.R. n. 3 del 10 gennaio 1957, di cui vi forniamo una copia scaricabile liberamente cliccando sul link qui sotto
mercoledì 14 dicembre 2022
Scuola democratica, universalismo e lotta di classe
Marco Maurizi critica il recente volume di Christian Raimo, L’ultima ora. Scuola, democrazia, utopia (Ponte alle Grazie, Milano 2022) un testo che rappresenta i difetti di tutta una schiera di aspiranti riformatori della scuola che si autodefiniscono progressisti e democratici con poche idee ben confuse o totalmente sbagliate. È l’opera di un autore che si concepisce “di sinistra” ma di una sinistra talmente annacquata e approssimativa nelle proprie analisi socio-economiche da condividere molto, fin troppo, con i suoi presunti avversari “conservatori” e che finisce per adeguarsi perfettamente a prassi ministeriali che sono invece totalmente reazionarie, utilizzando proprio lo spauracchio dei “nostalgici” della vecchia scuola gentiliana come meccanismo di auto-legittimazione ideologico. Un classico rappresentante di quegli “ultra-pedagogisti” nostrani che sono il perfetto contraltare dei “neogentiliani”: perché il dibattito sulla scuola possa fare degli effettivi passi avanti bisogna liberarsi da questa falsa opposizione
Scuola democratica, universalismo e lotta di classe
di Marco Maurizi
1. Né concretezza, né utopia
Il recente volume di Christian Raimo, L’ultima ora. Scuola, democrazia, utopia (Ponte alle Grazie, Milano 2022) è un testo che rappresenta perfettamente i pregi, pochi, e i difetti, moltissimi, di tutta una schiera di aspiranti riformatori della scuola che si autodefiniscono progressisti e democratici. Tra i loro pregi sicuramente le buone intenzioni, il desiderio di migliorare un’istituzione che è “in crisi” da tempo (o forse, come suggerisce Raimo stesso, da sempre), l’attenzione al disagio giovanile, la preoccupazione per il razzismo e l’esclusione, la speranza che la scuola possa farsi argine alle vecchie e nuove diseguaglianze. Tra i loro difetti il non sapere assolutamente come realizzare tutto questo, tranne poche idee che o sono molto confuse o sono totalmente sbagliate.
Il libro di Raimo permette di dare un’occhiata a questo laboratorio di analisi e strumenti concettuali con cui il pedagogismo “di sinistra” affronta la realtà scolastica. Nonostante il progetto di un libro che vuole guardare da vicino il mondo della scuola senza perdere di vista l’orizzonte ideale di una società futuribile si può dire che esso fallisca miseramente il compito, non riuscendo ad essere né abbastanza concreto, né sufficientemente utopico. Il problema, come vedremo, è l’inadeguatezza del quadro sociologico di fondo: la totale incapacità dell’autore di cogliere le questioni di classe là ove si producono, nel meccanismo di autovalorizzazione del capitale, per ridurre il proprio “anticapitalismo” a vaghe suggestioni relative ad un non meglio identificato “classismo” o, addirittura, al “conformismo”. Questa lacuna di fondo determina, a cascata, tutti gli errori di prospettiva sul mondo della scuola e i tre grandi assenti di questo libro: il lavoro docente, la soggettività studentesca, l'universalità del sapere.
Sicuramente è l’opera di un autore che si concepisce “di sinistra” ma di una sinistra talmente annacquata e approssimativa nelle proprie analisi socio-economiche da condividere molto, fin troppo, con i suoi presunti avversari “conservatori” e che finisce per adeguarsi perfettamente a prassi ministeriali che sono invece totalmente reazionarie, utilizzando proprio lo spauracchio dei “nostalgici” della vecchia scuola gentiliana come meccanismo di auto-legittimazione ideologico. Un classico rappresentante di quegli “ultra-pedagogisti” nostrani che sono il perfetto contraltare dei “neogentiliani”: perché il dibattito sulla scuola possa fare degli effettivi passi avanti bisogna liberarsi da questa falsa opposizione.
2. I docenti: un po’ Eichmann, un po’ Signorina Silvani
Sintomatico dei testi degli ultra-pedagogisti è il continuo attacco agli insegnanti considerati autoritari e recalcitranti all’aggiornamento professionale. Nella retorica di Raimo vediamo così convergere un linguaggio anarcoide e uno simil-liberista: questa convergenza tende a sopprimere da due lati opposti l’elemento di autonomia del lavoro docente.
Da un lato, infatti gli insegnanti entrano nel campo visivo della pedagogia esclusivamente come portatori di autoritarismo. Una visione caricaturale e imbarazzante che diventa addirittura un vero e proprio sistema di interpretazione della realtà sociale. Raimo non si scandalizza di affermare che l’autoritarismo scolastico è stato una delle cause del fascismo (p. 15, p. 98). Giustifica anzi questa sparata da bar difendendo il punto di vista secondo cui non è la società a determinare la scuola, ma è la scuola che “determina la società”. Di più, citando Dewey, Raimo sostiene che le istituzioni politiche vanno intese “come effetto e non come causa”. Ora, questa idea, spacciata per un “punto di vista nuovo” altro non è il vecchio arnese dell’individualismo metodologico, cioè l’idea liberale secondo cui le forme sociali derivano dalle interazioni tra gli individui.
Eppure, leggendo il libro si resta confusi. Anzitutto, ma la scuola non dovrebbe essere essa stessa un’istituzione politica? Lo è e non lo è. Perché l’ottica di Raimo gli fa concepire la scuola come puro luogo di relazioni in cui l'elemento del sapere è secondario e derivato. Ed è in quanto luogo di relazioni e formazione di prospettive personali sul mondo che la scuola lo interessa, cioè come vivaio delle esistenze adulte che andranno a costituire il mondo di domani. Viceversa, è solo in quanto luogo di trasmissione del sapere che la scuola mostra di essere a tutti gli effetti e inevitabilmente un'istituzione politica. Anzi, come scriveva Calamandrei, la scuola è addirittura un “organo costituzionale”1. Perché il sapere ha una sua forma di esistenza oggettiva, si incarna nelle istituzioni incaricate della sua produzione e riproduzione, è uno dei luoghi fondamentali in cui l'universale si realizza e produce i propri effetti. L’ultra-pedagogista non si rende conto che le istituzioni esistono effettivamente come “soggetti astratti” e funzionano proprio perché sono tali2. Mentre ad essere “astratta”, in senso negativo, rozzamente empirico, è piuttosto l'idea vetusta e ideologica di Raimo secondo cui le istituzioni sono fatte “di persone in carne e ossa” (p. 153).
La parola-sintomo che guida il discorso di Raimo è “progressista” e viene usata nei momenti decisivi del testo per coprire questo tipo di contraddizioni ed ambiguità, buttata sempre lì come un giudizio apodittico indubitabile: io difendo la posizione “progressista” chi non è con me è contro di me e dunque reazionario. Ma cosa significhi “progressista” nel discorso di Raimo non è dato sapere. Il suo insistente tentativo di sovrapporre “attivismo” e “marxismo” (p. 60) è fallace perché non solo assume come un dato di partenza l’individualismo metodologico anti-marxiano nella sua interpretazione della realtà scolastica ma addirittura lo trasforma in una concezione sociologica complessiva, scadendo nella metafisica sociale. Marxismo e attivismo pedagogico, invece, costituiscono atteggiamenti del tutto opposti rispetto al problema del cambiamento sociale.
La cosa divertente, ma sintomatica, è che su questo Raimo la pensa esattamente come il suo presunto avversario Galli Della Loggia. Per entrambi attivismo e marxismo vogliono un po’ la stessa cosa: divergono solo sul giudizio che ne danno. Raimo suggerisce che la scuola autoritaria produce “conformismo” (p. 43), che sia proprio questo aspetto “totalitario” dell’educazione tradizionale a tradursi nel germe del fascismo (p. 100). Per Galli Della Loggia, specularmente, è l’aspetto “totalitario” della scuola democratica a tradursi nel germe del “collettivismo”. Al che, bisognerebbe rispondergli, magari lo facesse davvero! Ma è proprio l’individualismo metodologico che Raimo condivide con il liberale Galli Della Loggia ad impedirgli di rispedire al mittente quell’accusa: siamo infatti di fronte ad un pensiero che non è in grado di distinguere “collettivo” e “conformista”, in cui, a guardar bene, è persistente la critica alla “massa indiscriminata” contro cui occorre “favorire lo sviluppo di ogni individuo” (p. 236). Non a caso, nel testo di Raimo, quando viene evocato il socialismo è sempre un socialismo “utopistico” che predica il “superamento” dell'opposizione tra “collettivismo e individualismo” partendo dalla banalità secondo cui non si danno società senza individui e individui senza società (p. 223).
Il marxismo è un’altra cosa: le forme oggettive della vita sociale ne rappresentano sempre la dimensione universale, perfino nella modalità alienata del capitalismo. L’incapacità di Raimo e degli ultra-pedagogisti di articolare la distinzione tra concreto e astratto è solo l’altra faccia della loro incapacità di pensare le forme del sapere oggettivo come possibilità di realizzazione e non di negazione dell’individuale.
Per parlare di critica all’autoritarismo e al fascismo con un minimo di cognizione di causa marxista bisognerebbe aver letto i testi della Scuola di Francoforte che pure qui si citano di striscio. Ma Raimo è convinto per qualche misterioso motivo che Adorno e Marcuse non abbiano scritto nulla sulla scuola3. E quindi L’ultima ora ricorre alla teoria adialettica di Althusser sugli apparati ideologici di Stato (p. 81): una teoria che comunque Raimo fraintende, traducendo la visione marxiana sulla priorità delle strutture oggettive rispetto alla coscienza in quella anarcoide secondo cui la scuola attraverso la ripetizione conformistica degli atti produrrebbe uniformizzazione e standardizzazione sociali. Una lettura talmente banale e così poco marxista che nel giro di due pagine diventa indistinguibile da quella di Ivan Illich in cui la scuola come agente dello Stato moderno funziona “analogamente” alla Santa Inquisizione (p. 84).
Con una critica talmente superficiale e unilaterale dell’autoritarismo non sorprende che i docenti appaiano tanti piccoli Eichmann inconsapevoli. E diventa anche patetica l’incapacità di Raimo di rispondere a Galli Della Loggia quando questi, nel tentativo di difendere la “predella” sotto la cattedra, afferma sarcasticamente che essa viene considerata dai pedagogisti “la premessa del Terzo Reich” (p. 211). Questo è letteralmente ciò che Raimo stesso dice, purtroppo non ironicamente, in tutto il resto del libro. Ed ecco che Raimo si scalda e parla di reductio ad Hitlerum: ciò che è raffinata argomentazione per l'ultrapedagogista di sinistra diventa rozza fallacia logica per il reazionario di destra.
Questa convergenza paradossale appare ancora più evidente rispetto all’altro chiodo fisso dei pedagogisti: il problema dell’aggiornamento professionale dei docenti. Ne L’ultima ora gli insegnanti non vengono mai presi in considerazione nel loro ruolo strutturale all’interno della società capitalistica, ovvero come erogatori di lavoro intellettuale, improduttivo4, come intellettuali sui generis5, ma sempre e solo come polo di una relazione educativa le cui forme vengono loro dettate dall’esperto pedagogista, come esecutori di un progetto didattico burocraticamente teorizzato e disposto altrove.
Del docente-lavoratore si parla solo come un soggetto che difende degli “interessi di categoria” (p. 36), messo alla stessa stregua dei “nostalgici” e “classisti” reazionari che cantano la bella scuola di una volta in cui nessuno ne controllava l’operato e l’efficacia. Da qui, l’insistente retorica dell'innovazione, la critica alla mancanza di aggiornamento dei docenti e tutta la chiacchiera giornalistica sull'era del lifelong learning che malcela un giudizio ideologico, tipico dell'egemonia neoliberista in cui presunte tendenze oggettive della società vengono spacciate per naturali, ovvie, inevitabili6. Raimo si beve questi pregiudizi e li spaccia come dato di realtà.
Il fatto che la critica alla pigrizia dei docenti possa sfociare in una concezione reazionaria e liberista viene appena accennata ma ugualmente valorizzata come pars destruens di una possibile exit strategy dalla scuola attuale (p. 85). In realtà la pedagogia dei Raimo condivide la stessa sociologia atomistica dei reazionari liberali come Della Loggia: tra i valori fondanti della scuola democratica rientrano, ad es., “adattabilità” e “flessibilità” (p. 235); contro le “resistenze” (ovviamente “corporative”) dei docenti le parole di Raimo sono in fondo le stesse di un Brunetta qualsiasi sugli impiegati fannulloni.
Emerge così la grande petitio principii che fa da fondamento al libro e che esprime alla perfezione l’ideologia degli ultra-pedagogisti. La pedagogia viene considerata a priori la chiave di volta per affrontare e risolvere i problemi della scuola (e della società!). Non è assolutamente possibile opporre a questa convinzione alcuna critica né del suo psicologismo, né della sua tendenza allo svuotamento formale della relazione educativa, né del suo idealismo sociologico7: ogni critica viene respinta sdegnosamente come “incompetente”, soprattutto quando va a colpire i fondamenti di tale presunzione di competenza.
Questo meccanismo di autodifesa nel discorso di Raimo diventa ossessivo e puerile: se cancellassimo dal suo libro tutte le lamentele sul fatto che tizio o caio “non conosce la letteratura sull’argomento” il suo testo sarebbe lungo la metà. Raimo e gli ultrapedagogisti si trincerano dietro il proprio specialismo in modo non dissimile da come il Mago Otelma difenderebbe l’esoterismo: specializzazione diventa sinonimo di “scientificità”. Sintomatica è l'aggettivazione scomposta che cala dalla penna quando il pur “pessimo” Galli Della Loggia osa esprimere legittimissimi dubbi in proposito: “tronfio”, “irriverente”, “osceno”, “infelice ignoranza”, “mancanza di studio”, “impegno”, “serietà” e “rispetto” (p. 203). Se avesse avuto una bacchetta Raimo lo avrebbe percosso sulle dita. Ora, si può anche convenire che Galli Della Loggia non conosca ciò di cui parla: la sua confutazione qui equivale logicamente alla scomunica del sacerdote di un culto esotico.
Ciò che interessa Raimo, infatti, è l’effetto-ideologico di questo modo di argomentare: esso intende creare una spuria convergenza tra la sinistra e la prospettiva pedagogica da lui difesa. Gli basta evidenziare che Della Loggia se la prende con il “pedagogichese” (p. 209) per accusare tutti gli insegnanti che condividono la medesima insofferenza per il gergo pedagogico di dellaloggismo. Che l’avversione alla pedagogia salga dal mondo della scuola praticamente ovunque non può infatti diventare un argomento contro l’ultra-pedagogismo, la sua vuotezza, la sua inefficacia ecc. ma solo e sempre deve dimostrare che i docenti non si “mettono in discussione”, non vogliono “aggiornarsi” e “formarsi” ecc. (p. 38).
Generalizzando nello stesso “modo impressionistico” (p. 37) dei suoi avversari “passatisti”, Raimo si relaziona ai docenti con la modalità “autoritaria” e “nozionistica” di cui continuamente li accusa. Ergendosi a loro insegnante, ne ignora totalmente il ruolo di intellettuali subalterni, i problemi relativi alla forma, ai tempi, ai modi e ai contenuti del loro lavoro intellettuale, alla continua dequalificazione cui questo lavoro va incontro: l’unico capitolo in cui esprime solidarietà nei loro confronti, guarda caso, è quando parla della loro formazione (pp. 102 e sgg).
3. L’autoritarismo pedagogico
Come abbiamo visto, Raimo difende esplicitamente l’'idea “trans-storica” secondo cui sarebbe possibile far “evolvere” un paese attraverso una riforma dell'educazione (p. 60). Non è un caso che ritrovi e rilanci questa concezione idealistica e anti-marxiana nella letteratura utopistica (86 e sgg). L’unica volta che l’orizzonte socialista si fa spazio nel libro esso assume la forma utopista e anarchica in base alla quale si tratterebbe di partire dall'idea per adeguarvi la realtà: esattamente il contrario di quanto Marx ed Engels notoriamente scrivono nell’Ideologia tedesca: “Il comunismo non è per noi uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti”8. Citando Margherita Zoebli, Raimo afferma invece placidamente che occorrerebbe “determinare il piano sociale, urbanistico, gestionale - e quindi il piano politico - a partire dal piano pedagogico” ( p. 225).
Il delirio di onnipotenza dell’ultra-pedagogismo raggiunge così l'apice. A cosa serve fare una battaglia politica per la democrazia nella società quando possiamo già realizzarla nella scuola? Anzi, quando realizzandola nella scuola la realizziamo ipso facto nella società? In realtà questa pseudo-politicizzazione coincide con una spoliticizzazione integrale della scuola. La visione apparentemente limitata ed “economicista” del marxismo che pretende affrontare le storture nella scuola a partire da quelle nella società preserva l’autonomia dei due momenti senza confonderli. Non risolve di per sé i problemi ma li imposta in modo da permettere di analizzarli nella loro autonomia e interdipendenza. La separazione teorica tra il mondo intra- ed extra-scolastico è necessaria per una corretta lettura della funzione politica dell'insegnamento intesa sia dal lato del corpo docente che di quello studentesco. Essa emerge con chiarezza solo quando la dimensione del sapere viene anche concepita come una sfera a sé stante e non come variabile dipendente della relazione e del metodo. È questa sfera a costituire il legame reale tra l’interno e l’esterno collegandoli in modo dialettico: e se la “neutralità” del sapere costituiva un tempo lo strumento ideologico delle classi dominanti, oggi esse intendono piuttosto dissolvere questa alterità, rendendo il sapere scolastico pratico, omogeneo al mondo delle relazioni su cui il capitale esercita già direttamente il proprio influsso modellatore. Se si perde questa specificità della scuola rispetto al mondo si producono inevitabilmente una serie di confusioni politiche.
La pretesa di realizzare un “metodo globale” nell’insegnamento si scontra con la realtà non globale che è la scuola. Un’ovvietà che può essere dimenticata solo da chi trasforma la scuola in una fucina delle relazioni sociali complessive. Quel sapere risulta perciò impotente di fronte al potere di auto-posizione e auto-riproduzione del capitale, ovvero un potere che agisce già in modo globalizzante e astratto: nel senso di produrre relazioni universalizzanti anche se distorte da interessi economici particolaristici. Messo a confronto con tale dinamica universalizzante ogni cambiamento “dal basso”, ogni sperimentazione “locale”, ogni piccola comunità utopistica non può essere considerata efficace e riuscita se non rinunciando alla dimensione universalistica, che è invece la stessa in cui si riproduce il processo di autovalorizzazione capitalistico.
Come già Gramsci osservava, realizzare una “scuola modello” in un luogo e tempo determinato non significa automaticamente realizzare un modello replicabile altrove9, né tanto meno poterlo usare come sguardo critico nei confronti della scuola pubblica esistente. Significa piuttosto costringere la scuola esistente, i lavoratori della scuola e la componente studentesca dentro il letto di Procuste di un'idea prefabbricata di relazione educativa “ideale”.
Il totale disinteresse degli ultra-pedagogisti per l’ingresso degli studenti nel loro complesso nella dimensione collettiva e universale del sapere e della cultura li spinge a focalizzarsi in modo esclusivo sul vissuto soggettivo dello studente rispetto ad un processo di apprendimento vissuto in forma di competenze individuali da spendere in una generica esperienza di cittadinanza. Anche la costante negazione della soggettività studentesca è un’ovvia conseguenza dell’individualismo metodologico da cui muove l’intero discorso attivistico. Quale ruolo assegna la pedagogia agli studenti che intende individualmente “difendere” senza dar loro la parola con cui potrebbero costituirsi come soggetto collettivo del proprio apprendimento? Il silenzio di Raimo su questo, l’approccio paternalistico dell’esperto di pedagogia nei confronti della componente studentesca, è imbarazzante.
A sua volta, l’insufficienza politica di questo discorso è inseparabile dai suoi evidenti limiti antropologici e, oserei dire, perfino pedagogici. Dopo aver accusato Della Loggia di interpretare rozzamente Rousseau come capostipite della scuola democratica e di una certa ideologia del “naturale” Raimo cita positivamente un testo in cui il bambino viene definito “di natura pieno di fantasia e creatività. Ama ciò che è vivo e concreto” (p. 234). Dopodiché, ammesso e non concesso che questa descrizione sia scientificamente inappuntabile, non si capisce perché l'insegnamento debba inseguire queste caratteristiche del bambino cancellando l'elemento negativo che nel sapere opera oggettivamente contro quelle disposizioni e tendenze “naturali”, che lavora mettendo in forma, e dunque sempre anche strutturando, cioè in parte necessariamente limitando, l'immaginazione piuttosto che dandole libero sfogo. Tutta la riflessione gramsciana sul problema della pseudo-spontaneità infantile e sulla duplice valenza della disciplina come coercizione e come autodisciplina10 alla libertà viene bellamente ignorata.
Da questo punto di vista, Raimo non è neanche un buon difensore della tradizione attivista in cui si iscrive. L'attivismo non ha lo stesso significato se applicato a campi disciplinari diversi e sicuramente non ha lo stesso significato in contesti sociali e storici diversi. Emma Castelnuovo, che pure Raimo cita (p. 66), prendeva posizione ad es. contro la “rivoluzione insiemistica” nella matematica del dopoguerra. Ora, l'eccessiva astrazione di questa prospettiva (che rappresenta un problema disciplinare ed epistemologico della storia della matematica contemporanea) è altra cosa dalle richieste di maggiore “realismo” e “riduzione del carico contenutistico” che avanza oggi nella scuola da parte dei pedagogisti. Ma chi tratta le questioni didattiche in modo generico e metodologico queste differenziazioni non riesce neanche a vederle.
4. La lotta al classismo senza lotta di classe
L’immagine della scuola che filtra dal libro è quella di un sistema autoritario “che boccia” e in cui i docenti sono fissati col sapere “nozionistico” (p. 17). Autoritaria perché boccia, ovviamente, non perché bocci tanto o poco. Perché se l'accusa è che la scuola italiana abbia una predilezione per le bocciature11 mi chiedo in quale scuola viva e di quale scuola parli Raimo. Non a caso, per illustrare questa sua immagine della scuola L’ultima ora ricorre, seriamente, ad una scena di Totò e i re di Roma presentandoci per l’ennesima volta l'immagine del docente sadico (p. 16). Ora, questa scena totalmente anacronistica non ci dice solo molto sul modo caricaturale con cui gli ultra-pedagogisti insultano i lavoratori della conoscenza ma è anche rivelatrice della loro concezione del sapere disciplinare.
L’accusa di Raimo contro la visione della scuola dei neogentiliani è che essi considerano la scuola un “esperimento in vitro” (p. 27) avulso dalla società e che così facendo non si rendono conto di riprodurre nella loro critica al “buonismo” scolastico atteggiamenti di tipo classista. Ma è chiaro che qui il termine “classismo” è usato in modo sofistico. Esso indica, infatti, da un lato ciò che è relativo alle dinamiche oggettive dei rapporti tra le classi (la dimensione dello sfruttamento della classe subalterna), dall’altro fa riferimento alle dinamiche soggettive di tali rapporti (la dimensione della discriminazione di cui la classe subalterna è fatta oggetto). Come accade sovente con la sinistra liberal, Raimo non sa distinguere le due cose. E quindi il movimento del suo pensiero passa dal rintracciare nell’avversione dei Galli della Loggia e dei Mastrocola verso la scuola di massa e la pedagogia “progressista” un moto di sdegno soggettivo di tipo classista all’identificare nella difesa della grammatica, del lessico, della capacità di espressione e astrazione degli strumenti di potere classista, ovvero forme di perpetuazione di un rapporto oggettivo di sfruttamento.
Ora, mentre si può concordare con la premessa del ragionamento di Raimo, da ciò non deriva che sia necessariamente vera la conclusione. Essa anzi fa acqua da tutte le parti. Il fatto che Mastrocola non guardasse con simpatia i moti studenteschi della sua giovinezza non autorizza a considerare la capacità di astrazione logica – cui la stessa Mastrocola è per altro poco incline – una forma di subalternità al padrone. Invece nel libro di Raimo la difesa della grammatica e del lessico diventano di per sé problemi di “classismo” e vittima di ideologia è chi li considera strumenti di espressione e conoscenza, strumenti di emancipazione, cioè di accesso delle classi subalterne alla struttura del reale, premessa indispensabile al cambiamento degli assetti di potere della società. La critica di Raimo è su questo punto totalmente fuori fuoco e anacronistica. Bollare la richiesta di adeguate capacità espressive e logico-argomentative negli studenti come ideologia che maschera interessi di classe dietro la “neutralità” del linguaggio è una sciocchezza da fricchettoni fuori tempo massimo. In primo luogo, perché non è affatto necessario considerarli strumenti “neutrali” per difenderne l'acquisizione: essi sono piuttosto prerequisiti di accesso al sapere che ne rende possibile proprio una torsione conflittuale. È cioè attraverso di essi, non fuori di essi, che le classi subalterne possono costruire la propria soggettività antagonista. In secondo luogo, si ripetono in modo completamente decontestualizzate e astoriche le posizioni di Don Milani sulla cultura e il linguaggio “dei padroni”. In realtà basta uno sguardo alle attuali classi dirigenti per rendersi conto come grammatica, lessico e capacità di astrazione logica siano ormai orpelli inutili di cui le classi dominanti si sono da tempo disfatte allegramente.
Per questo è da rispedire al mittente la boutade populista di Raimo: il problema non è “se le persone siedono a tavola in modo più o meno appropriato, ma se sono o no in grado di procurarsi da mangiare” (p. 35). Si tratta di un paragone fuori luogo: le competenze logico-linguistiche che sono essenziali per “mangiare” e che casomai andrebbero equiparate agli strumenti di cottura o alle posate vengono identificate con il “galateo” per evocare gli scenari ottocenteschi che tanto piacciono agli ultra-pedagogisti in cerca di fantocci da sconfiggere con comodo.
In sostanza, il discorso di Raimo è una lotta al classismo senza lotta di classe. Esso predica un’opposizione all'espressione ideologica di una classe che non c'è più, come se oggi l’egemonia della borghesia si fondasse sull'appropriazione di Dante o di Kant. E come se Marx e Gramsci non avessero già ammonito che la contestazione dell'ideologia culturale egemone passa attraverso l'appropriazione del suo valore universalistico. L'elemento critico-negativo si costituisce a partire dalle contraddizioni interne all'ideologia dominante e certo non possono essere viste se non da chi, in una condizione sociale di subalternità, quell’ ideologia intenda smascherare.
Ciò rende il discorso contro il classismo di Raimo anni luce distante da quello dei suoi decantati maestri che, certo, avevano il vantaggio di vivere in un’epoca in cui il conflitto di classe aveva ben altra ampiezza e profondità. Quando De Mauro e la linguistica democratica evocavano il problema della lingua e delle élites lo facevano immaginando “forze sociali” ben determinate e una dialettica politica ancora viva e conflittuale. L'idea sbagliata ed idealistica di Dewey sulla riforma politica attraverso l'educazione (p. 50) viene applicata al contesto del dopoguerra in cui invece il fattore di democratizzazione proviene dalla forza materiale delle sinistre comuniste e socialiste nel paese. Raimo lamenta il fatto che le ricostruzioni storiche contemporanee ignorino il mondo della scuola ma la sua idea di storia della scuola democratica ignora totalmente la realtà materiale delle società in cui quella scuola ha tentato di farsi strada. Tutti i “santini” evocati da Raimo nella sua contro-storia della scuola hanno operato in una realtà in cui i cambiamenti decisivi avvenivano nella sfera delle relazioni produttive, la democrazia avanzava dalla lotta di classe nella società verso la scuola rendendone possibile la democratizzazione interna, non viceversa. L’approvazione dei “decreti delegati”, da questo punto di vista, è il canto del cigno di tale processo, rappresenta per un verso il riconoscimento formale e giuridico nella scuola di un movimento conflittuale che si sta già esaurendo nella realtà sociale12.
Le idee “progressiste” nate all'epoca della ricostruzione del dopoguerra, quando masse di diseredati uscivano dalla miseria, in cui il “socialismo” era una parola d'ordine corrente (p. 235) vengono invece riproposte come se nulla fosse cambiato, come se quelle stesse idee, amputate della propria base materiale nella società, potessero essere applicate alla scuola di oggi. Nel libro di Raimo, invece, la società diventa un indistinto agglomerato di soggetti a vario titolo subalterni cui si vorrebbe, in linea con la declinazione liberal dell'intersezionalismo, offrire opportunità emancipative “oltre la classe” (p. 292). Nella citazione di vita bell hooks che chiude il libro la “classe” appare mescolata alla “razza”, al “genere” e all’appartenenza “religiosa”: come se fossero concetti intercambiabili, come se ciò che può fare la scuola contro il razzismo e il sessismo o in favore dell’istruzione laica fossero anche solo lentamente paragonabili a ciò che la scuola non può fare contro l'oppressione di classe (p. 338). Secondo Raimo occorrerebbe “imparare tecniche di liberazione” (p. 46). Ma liberazione da cosa? e per fare cosa? Che cosa vuol dire “trasformare radicalmente il mondo” (p. 320)? Chi è il soggetto di questa trasformazione?
Ignorare il fatto brutale che la scuola oggi resiste ad una definitiva assimilazione al produttivismo capitalistico e alle logiche di mercato, immaginando che essa possa essere riformata in modo puramente pedagogico significa operare una mistificazione. L'idea che il lavoro docente rappresenti una sorta di “ideologia della scuola” che “sembra annullare qualunque istanza di contestazione davanti ai modelli sociali dominanti” (p. 320) è insulsa e offensiva.
Esattamente come i neogentiliani anche gli ultrapedagogisti non vedono i rapporti di classe, pensando di poterli superare con la buona volontà. Il vero “esperimento in vitro” non sarà forse quello di Raimo che vede nella scuola confusamente uno specchio delle relazioni sociali ma anche la causa delle relazioni sociali e propone di alambiccare innovazioni nelle aule per produrre cambiamenti fuori dalla scuola?
Ovviamente Raimo dirà che questo non lo ha mai scritto, che la sua visione è più profonda rinviandoci sdegnosamente alla “vasta letteratura” che dovremmo leggerci prima di osare rivolgerci a lui. Il problema è che invece Raimo queste banalità le scrive e le dà ad intendere ad ogni pagina: si volta e si rivolta in questa ambiguità e confusione continuamente. Da un lato si afferma che la “funzione primaria” della scuola è “l’istruzione”, la scuola “non può fare tutto” (p. 33). Dall'altro, lo stesso cambiamento sociale è visto tramite le lenti distorcenti della pedagogia. La scuola non va perché ci vorrebbe una “città educante” (p. 237), anzi una “società educante” (p. 31) In finale anche i problemi della scuola non sono problemi “sociali” ma di mancate “politiche educative per la società” (p. 33).
Ma l’istruzione in questo discorso alla fine cos’è? Deve garantire “i diritti primari dei cittadini”, deve garantire la literacy, termine asettico che indica le competenze necessarie a chi vuol far parte del mondo così com’è. L’opposizione tra la cultura e il mondo non è prevista, il mondo come dovrebbe essere scompare dall’orizzonte politico e anche dalla scuola. L’astrazione del punto di vista pedagogico è perfettamente speculare a quello formale dell’ideologia liberale in cui tutte le opinioni sono ammesse purché non mettano in discussione la cornice in cui si muove la visione del mondo dominante, fatta di “cittadini” e “relazioni” che essi liberamente stabiliscono vicendevolmente. Perfino la citazione di Biesta va in questa direzione: “il compito educativo consiste nel rendere possibile l’esistenza adulta di un altro essere umano nel e con il mondo” (p. 40). Mai contro. Per accorgersi che il sapere ha una funzione critico-negativa, serve cioè a visualizzare strutture di oppressione (che agiscono per altro all’interno del sapere stesso), non basta guardare dall’alto il mondo della scuola e della società ma bisogna che tale sguardo abbia un contenuto determinato: è solo all’interno di quel contenuto che quell’elemento critico-negativo si manifesta nella relazione educativa e la modella. Basta poi fare un passo per rendersi conto degli effetti spoliticizzanti di questo sguardo iperuraranico sulla società. Le solite “ricerche internazionali” (p. 36) dimostrano che brevità della vita, ammalarsi, anomia sociale ed essere sottopagati dipendono dalla mancanza di literacy.
Le domande che Raimo considera centrali rispetto alla scuola, non a caso, sono invece “come si insegna?” e “come si impara?”, “a che serve la scuola?”, “qual è il compito dell’educazione?”. Il cosa si insegna, quale fine abbia la scuola in sé, la libertà della scuola - e dunque del docente oltre che dello studente - sono domande che non interessano il progetto di scuola democratica degli ultrapedagogisti.
Ovviamente sarebbe ingeneroso pretendere da questo testo una coerenza eccessiva, considerata la sua natura composita e disorganica. Tuttavia è difficile sfuggire alla sensazione che il limite del libro non sia solo espositivo ma proprio teorico, che dietro passaggi ambigui e contraddittori ci sia una rappresentazione confusa e molto parziale della realtà sociale e politica dentro e fuori la scuola. Il discorso teorico qui appare sospeso tra affermazioni che vogliono essere provocatorie ed altre che sono invariabilmente allusive e suggestive.
Una proposizione molto vera e profonda come “la relazione educativa è l'unica tra le relazioni che ha come scopo la sua stessa conclusione” (p. 332) viene buttata lì e completamente svuotata di significato, rimane sospesa a mezz'aria perché legata esclusivamente all'aspetto esistenziale-psicologico invece di essere messa alla prova dal punto di vista del contenuto di quel rapporto. La dipendenza del discente dal docente non ha modo di concludersi che nel momento in cui sopraggiunge l'autonomia. Ma la questione è: come si misura o ci si può avvedere della sopraggiunta autonomia? Quando si prova a porre questa autonomia come padronanza di tipo disciplinare ecco che scatta l'accusa di “nozionismo”, segno che si è completamente svuotato il rapporto educativo di ogni relazione interna con l’oggetto del sapere, con la sua struttura, cioè con una verità che non riguarda la relazione ma ciò verso cui quella relazione è diretta. Diventare “adulti liberi, soggetti autonomi” (p. 42) è davvero un processo che si compie attraverso la scuola? Ed è davvero un problema riducibile all’autoritarismo? Questo concetto non viene declinato ma usato come passe-partout per smontare qualsiasi forma di asimmetria da docente e discente: cosa che risulta sempre agevole quando in quel rapporto non entra minimamente il cosa ma ci si concentra esclusivamente sul come.
Il libro abbonda di metafore spacciate per costrutti teorici buttati lì come, ad es., il parallelismo tra “realismo capitalista” di Mark Fisher e il “realismo scolastico” (p. 79) cioè l’incapacità di pensare oltre l’orizzonte esistente della scuola. Ma mentre è possibile determinare con precisione in cosa consista l’oltre rispetto al modo di produzione capitalistico, non c’è alcuna idea determinata su cosa dovrebbe essere l’oltre rispetto alla scuola attuale. L’illusione che sia possibile porre quel parallelismo deriva sempre dal fatto di non considerare rilevante il rapporto tra la scuola e le dinamiche produttive del capitalismo e quindi la pretesa di intervenire sulla prima senza andare a toccare le seconde: una pretesa, come abbiamo già detto, a sua volta fondata sulla presunzione di possedere un sapere specialistico circa le “relazioni” scolastiche considerate avulse dal contesto sociale (anzi, come elemento generativo delle relazioni sociali complessive!). Di conseguenza, tutto ciò che nella scuola e nel sapere è alternativo al realismo capitalista, è cioè antirealistico, viene cancellato o denigrato come “astrazione” e “dogmatismo”. Il “cambiamento” invocato dai Raimo significa in sostanza smantellamento dell'alterità tra insegnamento disciplinare e capitalismo, significa permettere a quest'ultimo la colonizzazione integrale dello spazio scolastico.
5. La pedagogia come storia sacra
Lo stesso Raimo si rende conto che la domanda sulla “funzione della scuola” va posta in modo storico e che appena ciò accade viene necessariamente messa in crisi ogni idea di un progetto unitario e condiviso (p. 145). Questa mancanza di unità deriva proprio dalla natura contraddittoria e conflittuale della scuola in quanto espressione dei conflitti e delle contraddizioni sociali: la scuola rappresenta qualcosa di diverso a seconda che venga inserita in un progetto alternativo dal punto di vista della sfera produttiva. Se invece noi consideriamo gli “attori” della scuola semplicemente gli individui con i loro progetti di vita, ecco che quelle soggettività collettive, le classi, le forze sociali, scompaiono dall’orizzonte e la scuola perde il proprio aggancio ad una idea di trasformazione della società che investe anche le figure del sapere e che è irriducibile ai progetti riformatori della pedagogia di sinistra.
“La politica a scuola e la politica fuori dalla scuola” (p. 287) diventa così uno slogan vuoto in cui, come ormai è d'uopo in certa sinistra all'acqua di rose, i problemi importanti relativi alla discriminazione e all'inclusione, occupano l'intero orizzonte della riflessione politica. Non è affatto vero quindi che “i problemi della scuola sono i problemi della società tout court sia che li si studi con il metodo degli storici contemporaneisti sia che li si studi con lo strumentario dei pedagogisti” (p. 160). Contro lo sguardo generale degli storici sul mondo della scuola Raimo pretende enucleare un “fatto educativo” (p. 164), una “scatola nera” (p. 167) relativi all'attività quotidiana che si svolge in classe. Ma questi processi “micro” vengono “marginalizzati” dagli storici con cognizione di causa, non per ignoranza o superficialità: il metodo degli storici del tutto legittimamente assegna allo “strumentario” pedagogico un ruolo subalterno nelle spiegazioni sociologiche.
D'altro canto, mostrando la natura conflittuale di ciò che avviene nella scuola come riflesso di ciò che avviene nella società gli storici dovrebbero spingere a uscire dall'ottica formale, metodologica e ortopedica della pedagogia e reintrodurre le questioni politiche e la sociologia del sapere nel dibattito educativo. Occorre uno sguardo sociologico che, per essere progressista, dovrebbe tornare ad essere materiale e cogliere gli elementi strutturali che determinano il contesto in cui le relazioni accadono, rendendole possibili. Invece, quando emerge la natura conflittuale di quei processi ecco che Raimo ribadisce che la scuola è “il campo principale di quest'arena” (p. 146), mossa che gli permette di neutralizzare questa alterità tra scuola e società e trattare i problemi scolastici, ridotti a problemi didattico-relazionali, come problemi sociali. Il punto è che la durezza granitica dei rapporti di produzione blocca in partenza e distorce ogni tentativo di modificarne gli effetti a partire dalle relazioni infrascolastiche: le proposte pedagogiche potranno certo modificare questo o quell’aspetto, rendere “più” inclusiva la scuola sotto questo o quel punto di vista. Ma ogni volta che la causa dell’esclusione si lega a rapporti di classe ecco che il limite dell’intervento pedagogico diventa evidente e negarlo ci trasporta direttamente nell’idealismo, nell’utopismo, nel sogno ad occhi aperti di una democratizzazione senza conflitto. Oppure nell’ideologia.
Prendiamo il caso dei NEET (giovani non in formazione, né in cerca di impiego) che viene considerato uno dei tanti fallimenti del sistema educativo. Per darsi arie scientifiche Raimo evoca continuamente le parole magiche “ricerca” e “dati statistici” come se non fosse il senso, il metodo della ricerca e il fine con cui si selezionano e leggono i dati a dover essere anzitutto messi in discussione. Ma inevitabilmente, chi guarda questi fenomeni con lo sguardo parziale e ottuso del “riformismo” pedagogico si lascerà sempre sfuggire l’essenziale perché questo essenziale si gioca fuori dalle aule. Non è chiaro perché il fenomeno dei NEET sia un fenomeno “negativo”: in realtà noi non sappiamo cosa facciano i giovani che non si formano e non cercano impiego13. Che cosa ci convince che sia un fenomeno che, almeno in parte, non ha a che fare col desiderio di viaggiare per il mondo e vivere la vita ma sia piuttosto espressione di un disagio e di una mancanza di speranza? Che nelle regioni più ricche il fenomeno è notevolmente ridimensionato. Ora, se questo fattore ci insegna qualcosa è esattamente che non è una carenza scolastica a essere la causa, né a poter rappresentare una soluzione rispetto a tale problema. E che dunque ogni tentativo di affrontarlo aumentando l’appeal della didattica a suon di “innovazioni” è del tutto privo di senso.
Oppure, per fare un esempio ancora più radicale, prendiamo il caso della “disabilità” (pp. 297 sgg.). È chiaro che se consideriamo seriamente il tema della disabilità ci introduciamo in un orizzonte di riflessione che non può che mettere in discussione l’intero modo di produzione capitalistico. Quando si parla di disabilità e inclusione, allora, a quale modello14 ci si ispira? A quello liberal che ha come punto di riferimento l’accesso dei disabili alle risorse esistenti e la lotta culturale contro la discriminazione o quello socialista che lotta, sì, contro la discriminazione ma ha come obiettivo una critica radicale della performatività capitalistica e dell’ineguale distribuzione delle risorse? L'idea dell'inclusione entra necessariamente in contraddizione con la persistenza di un contesto extrascolastico fondato sull'idea di performance e competizione capitalistiche. Questo costringe a ripensare a fondo il problema della performance e sicuramente ha un profondo influsso sull'idea di cosa potrebbe essere la produzione e riproduzione del sapere in una società solidale. Ma se il tema della performance scolastica viene ridotto all'astratta relazione docente-discente, se essa viene trattata con i concetti inerenti al vissuto di chi apprende, al suo bisogno di inclusione, se, quindi, essa non concerne più l'oggetto del sapere nella sua universalità, la possibilità effettiva di padroneggiare i suoi nessi, è ovvio che si può pensare la performance come qualcosa di modellabile a piacere. Si può anche pensare di eliminarla completamente. Ma il punto non è questo. Il punto è che, come la si pensi rispetto a questo tema, pensare che l'abolizione di ogni tipo di performatività nella scuola possa preludere anche solo inizialmente ad una forma di cambiamento sociale rimane una pura fantasia. La differenza fondamentale tra Raimo e Ricolfi-Mastrocola è che per i primi “le disuguaglianze sociali [sono] in un qualche modo non modificabili radicalmente” (p. 311) mentre per Raimo esse lo sono tramite riforme scolastiche. Da questo punto di vista, la “selettività” dei neogentiliani è “l'inclusione” degli ultrapedagogisti vista di spalle.
6. Contro-storia della contro-storia
Come abbiamo già visto, per Raimo e gli ultrapedagogisti, il loro settore disciplinare è immune da critiche. Non a caso, ripercorrendo i momenti fondamentali e gli “appuntamenti mancati” della storia scolastica repubblicana, Raimo ci tiene a ribadire che la pedagogia ha già affrontato il nodo critico e auto-critico sulla natura dei processi educativi e sulla possibilità e i limiti del suo stesso sapere (p. 157). Ma da qui a dire che la risposta a questi problemi sia, di nuovo, affare della pedagogia e non invece qualcosa che strutturalmente deve sfuggirle, non rientra e non può rientrare nell'orizzonte di pensiero dei Raimo. Invece di chiedersi come mai gli insegnanti quando incontrano la pedagogia come prassi istituzionale non incontrino questa istanza auto-riflessiva ma un sapere calato dall'alto ed estraneo alle proprie esigenze lavorative e disciplinari, li si critica perché non si fanno carico della gloriosa storia dell’attivismo pedagogico (ibid.). Come se quella storia, avendo affrontato il tema del senso e della funzione della scuola, lo avesse già anche risolto e come se, conoscendo quelle pagine, i docenti potessero scoprirvi il senso del proprio operato nella realtà quotidiana, vedendoselo magicamente trasfigurato sotto gli occhi. Il fascista aveva teorizzato e imposto “l'uomo nuovo”, l'ultra-pedagogista ha teorizzato e imposto “la scuola nuova” e se i docenti non sono convinti è colpa loro: studiassero di più!
In questa storia sacra ci sono però interessanti lacune. Il periodo glorioso della “sperimentazione” degli anni ‘70, ovvero l’unico momento in cui l’idea di una riforma della scuola cresceva dal basso coinvolgendo docenti e studenti in un comune sforzo di ripensamento della scuola e della società, delle relazioni e dei contenuti disciplinari. Altrettanto significativo è il silenzio sulla svolta politica reazionaria degli anni ‘90. Si tratta del periodo in cui pedagogia diventa parte di un progetto di riforma internazionale perché l'UE costringe ad assumere un'ottica omogenea tra gli stati membri (p. 163). Che in questo processo di globalizzazione dell’istruzione siano evidenti anche effetti distorsivi, che lo svuotamento politico della scuola sia effetto di scenari di marginalizzazione della conflittualità delle classi subalterne ovviamente non rientra nell’interesse degli ultra-pedagogisti. Le “richieste dell’Unione Europea” - come le fantomatiche “ricerche” - vengono sempre chiamate in causa come la Santissima Trinità: tutto bello, tutto vero, tutto giusto. Esse sono il metro e la misura di tutto ciò che s’ha da fare per migliorar la scuola. Mai un dubbio sfiora l’ultra-pedagogista sui fini di tali “analisi” e “indirizzi”, sugli strumenti concettuali che vengono utilizzati, se, insomma, si possa avere un sapere critico su questa presunta critica della scuola.
Altro esempio: la legge sull’autonomia, secondo Raimo, trasforma le scuole in “presidi di democrazia”. Viene da chiedersi: non lo erano già? C’era bisogno dell’autonomia e del legame socio-economico col territorio per renderle tali? Perché si criticano i tagli all’istruzione e non la legge sull’autonomia con i suoi effetti aziendalizzanti sulle scuole? (p. 34, p. 215). In quale scuola è entrato Raimo per sentenziare con tono apocalittico che “l'uguaglianza non è riconosciuta più come un valore” (p. 218)? Offensiva nei confronti di un corpo docente verso il cui lavoro non spende mezza riga di riconoscimento e solidarietà questo giudizio è integralmente ideologico: a partire dalla sua idea di una scuola interamente rifondata su un impianto pedagogico del tutto discutibile e calato dall'alto, investe la scuola di poteri che non ha e non può avere, rovescia su di essa l'effetto di ineguaglianze sociali ed economiche.
È sempre un generico “Potere”, è sempre un generico “governo” il fine verso cui si orienta la scuola. L'autorità viene insegnato insieme “all'alfabeto” (p. 100). Un radicalismo apocalittico e anarcoide che non costa niente nell’ultra-pedagogismo: una critica velleitaria e totalizzante al lavoro scolastico e poi un pragmatismo ottimistico e collaborazionista, pronto a sedersi ai tavoli del Ministero. Cecità nella teoria e nella prassi vanno a braccetto.
7. Pedagogia della miseria o miseria della pedagogia?
Mentre si legge il libro un pensiero nasce spontaneo: tutta questa insofferenza verso la scuola pubblica attuale, questa celebrazione del gioco, questa critica ai “programmi troppo gravosi”, alle aule sorde e grigie…non sarà che Raimo ci diventa un adepto delle “scuole del bosco”? Prontamente però (perché - per citare Gaber - Raimo “è cieco ma intelligente”) ecco che arriva il capitolo in cui prende posizione contro le scuole nel bosco (pp. 244 e sgg.). Indovinate con quali portentosi argomenti? La bibliografia non è sufficiente.
La critica di Raimo qui appare veramente forzata, quelle parole che, attaccando la scuola così com'è costruiscono una mistica delle scuole “libere”, sono le stesse con cui ha martellato finora il lettore. Al di là dell’osservazione snobistica che lui quelle idee le ha lette in serie ricerche accademiche mentre Casertano, Bello, Mai e Ronci sarebbero dei poveri sprovveduti senza “tituli”, al di là della precisazione di non voler (a parole) smantellare la scuola pubblica non si capisce davvero dove stia la differenza. Alla fine infatti, costretto dall'evidenza, Raimo si arrende: quelle esperienze “non sono da liquidare” (p. 261). Sorge il sospetto però che i pirla da cui prende altezzosamente le distanze, abbiano più intuito politico di lui15.
Lo stesso vale per il concerto di “povertà educativa” che torna a più riprese nel libro, assieme alla literacy, alle competenze “di cittadinanza” e altri costrutti cari alle agenzie internazionali sull’educazione e che presentano sempre una chiara matrice neoliberista. Il concetto di “povertà educativa” non viene criticato, infatti, a partire dai suoi presupposti epistemici (e quindi politici) bensì perché rischia di favorire i processi di “misurazione” dell'educazione (p. 269). La pedagogia della miseria con cui Raimo si erge a difesa degli ultimi è così interamente costruita da concetti e parole d’ordine che trovano ampia risonanza nel mondo blasonato delle istituzioni europee. Esse parlano di “povertà educativa” perché distolgono sdegnosamente lo sguardo dalla povertà reale. Da qui la miseria della pedagogia che non entra mai in conflitto con quelle istituzioni ma, anzi, vi si richiama costantemente. E anche in questo frangente, come nel caso delle scuole nel bosco, Raimo vorrebbe evitare di buttare il bambino insieme all’acqua con cui è stato lavato senza rendersi conto che il bambino è nato morto e la pedagogia che ci vende è imbevuta fin nelle più intime cellule di quell'acqua torbidissima.
Note
1 P. Calamandrei, Discorso al III Congresso dell’Associazione a difesa della scuola nazionale (ADSN), in Scuola democratica, iv, suppl. al n. 2 del 20 marzo 1950, pp. 1-5.
2 Per un primo orientamento sul concetto di “astrazione” cfr. Roberto Finelli, Astrazione e dialettica dal Romanticismo al Capitalismo. Saggio su Marx, Bulzoni, Roma 1987.
3 Cfr. invece M. Maurizi, Non diventare adulti senza restare infantili. Note sulla pedagogia di Adorno, in “Educazione Democratica”, Numero 7, gennaio 2014.
4 Su politiche della scuola e ristrutturazione del mercato del lavoro cfr. M. Dal Lago, La crisi degli insegnanti, in “Nuova Secondaria”, marzo 2013, anno XXX, numero 7, pp. 44-46.
5 Cfr. H. A. Giroux, Intellectual Labor and Pedagogical Work: Rethinking the Role of Teacher as Intellectual, in “Phenomenology+Pedagogy” 3, (1, 1985), pp. 20-32.
6 F. Rizvi, Lifelong Learning: Beyond Neo-Liberal Imaginary, in D. N. Aspin (a cura di), Philosophical Perspectives on Lifelong Learning, Lifelong Learning Book Series, vol. 11, Springer, Dordrecht 2007, 114 e sgg.
7 Su questi tratti generali dell’attivismo cfr. G. Chiosso, Novecento pedagogico. Profilo delle teorie educative contemporanee, Brescia, La Scuola, 1997, pp. 53 e sgg.
8 K. Marx – F. Engels, Ideologia tedesca; Editori riuniti, Roma 1972, p. 25.
9 A. Gramsci, Quaderni del carcere, , Einaudi, Torino 1975, 4 voll., q. 9, pp. 1183-85.
10 A. Gramsci, Quaderni dal carcere, cit., q. 22, p. 2163.
11 Costante calo delle bocciature: Bocciati alla maturità: solo lo 0,2% non passa. È il primo anno il più difficile (truenumbers.it); scuola italiana pienamente nella media OCSE: Quanti sono i ripetenti nelle scuole italiane - Openpolis
12 Di “anni di stallo” parla esplicitamente G. Ricuperati, Storia della scuola in Italia. Dall’Unità a oggi, Editrice La Scuola, 2015.
13 Giovani NEET: chi e quanti sono in Italia e in Europa? (lenius.it)
14 Cfr. R. Medeghini – E. Valtellina, Quale disabilità? Culture, modelli e processi d'inclusione, Franco Angeli. Milano 2016.