...Alla faccia della salute pubblica. Importante inchiesta del comitato NO inceneritori:
Terni ENA un inceneritore bipartisan Caltagitone, D'Alema, i francesi, Alemanno e i camerati,
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martedì 29 gennaio 2013
I bambini stranieri irregolari potranno iscriversi a scuola con i metodi tradizionali, cioe' con moduli cartacei da richiedere in segreteria.
Lo precisa il Ministero dell'istruzione che difende comunque l'obbligatorieta' del codice fiscale come strumento per di evitare le doppie iscrizioni.
Il MIUR ha emanato una nota in seguito alle proteste di varie associazioni: la procedura on-line, infatti, poiche' richiede il CF, non consente ai figli di immigrati non regolare l'accesso. Questo viola, oltre che uno dei diritti base dele Dichiaraizone dei diritti del fanciullo, anche il nostro stesso Testo unico sull'immigrazione (Art. 38; Art. 45 del Regolamento di attuazione).
Il MIUR ha emanato una nota in seguito alle proteste di varie associazioni: la procedura on-line, infatti, poiche' richiede il CF, non consente ai figli di immigrati non regolare l'accesso. Questo viola, oltre che uno dei diritti base dele Dichiaraizone dei diritti del fanciullo, anche il nostro stesso Testo unico sull'immigrazione (Art. 38; Art. 45 del Regolamento di attuazione).
Iscrizioni. 25.000 cattedre per l’istituzione della Materia Attività Alternative all'I.R.C.
I docenti precari, ai quali è stata promessa la miseria di 11.000 posti con il concorso, abbracciano la proposta dei Cobas e scendono in campo per rivendicare il proprio diritto al ruolo e al lavoro pretendendo, così come previsto dalla normativa, l’introduzione immediata nelle scuole statali delle Attività Alternative all’Insegnamento della religione cattolica, sin dall’indicazione sulla scheda di iscrizione dell’istituzione stessa.
Ciò indipendentemente dalla presentazione del progetto ( che deve essere obbligatorio avere e che se non è stato presentato rappresenta di per sé palese violazione di quanto previsto dalla norma.
I precari, tramite i Cobas, hanno inviato una diffida al MIUR, agli uffici scolastici regionali e territoriali (e per loro tramite alle scuole di ogni ordine e grado) con la quale si diffida dal non voler presentare nell’immediato la prevista opzione per l’istituzione della materia Alternativa che le sentenze del TAR del Lazio e del Consiglio di Stato (TAR del Lazio sentenza 15 novembre 2010, n. 33433, Consiglio di Stato sentenza n. 2749 del 16 marzo
2010) rendono obbligatorie, mentre la sentenza della Corte di Cassazione (la sentenza n. 4961 del 28.03.2012) su ricorso promosso dai Cobas riconosce il periodo di servizio pre-ruolo, ai fini della ricostruzione della carriera, prestato in qualità di insegnante delle attività alternative alla religione cattolica.
I precari, tramite i Cobas, hanno inviato una diffida al MIUR, agli uffici scolastici regionali e territoriali (e per loro tramite alle scuole di ogni ordine e grado) con la quale si diffida dal non voler presentare nell’immediato la prevista opzione per l’istituzione della materia Alternativa che le sentenze del TAR del Lazio e del Consiglio di Stato (TAR del Lazio sentenza 15 novembre 2010, n. 33433, Consiglio di Stato sentenza n. 2749 del 16 marzo
2010) rendono obbligatorie, mentre la sentenza della Corte di Cassazione (la sentenza n. 4961 del 28.03.2012) su ricorso promosso dai Cobas riconosce il periodo di servizio pre-ruolo, ai fini della ricostruzione della carriera, prestato in qualità di insegnante delle attività alternative alla religione cattolica.
Scuola: Tagliare le Vacanze? Tra sondaggi di Repubblica e lanci elettorali, il rischio c'è
Ha creato scalpore la pietra lanciata da qualche ora che ancora una volta ha colpito il settore della scuola.
La questione?
Le vacanze.
Certo, è intervenuta una smentita da parte di quella mano che avrebbe scagliato la pietra.
Infatti, sul sito Agenda Monti si legge testualmente che :
Non è prevista nessuna limitazione a un mese delle vacanze estive delle scuole. La riforma del mercato del lavoro di Scelta Civica, alla quale lavora un gruppo di economisti insieme a Pietro Ichino, sarà presentata nei prossimi giorni e non conterrà alcun taglio delle vacanze scolastiche.
Ma il danno è fatto.
Repubblica ha lanciato un sondaggio con la seguente domanda: Nella sua nuova bozza sul lavoro, Monti propone solo un mese di vacanze estive "senza che sia aggravato il carico degli insegnanti". Siete d'accordo?
Alle 12.20 su 16015 voti, ben il 42% si è pronunciato a favore.
Ma vi è di più.
Nel sito di Italia Futura, Irene Tinagli, Docente all'Università Carlos III di Madrid, e candidata alla circoscrizione della Regione Emilia Romagna con la lista Monti per queste elezioni, già nel 2010, aveva lanciato, proprio sul sito di Italia Futura, una riflessione sul tema, affermando testualmente chenegli Stati Uniti. Il ministro dell’Istruzione americano, Arne Duncan, ha recentemente citato gli studi del professor Harris Cooper (che dimostrano, guarda un pò, che l’assenza prolungata dai banchi di scuola provoca una perdita di conoscenze rilevante), per supportare programmi di studio estivi. Duncan non ha detto niente di straordinario, ha fatto ciò che ci si aspetterebbe da chi ci governa: usare tutte le migliori fonti d’informazione per prendere decisioni importanti. Ma cosa avrebbe pensato il mondo se il governo americano invece di intensificare l’offerta scolastica e i programmi estivi avesse dichiarato un mese di vacanza in più a settembre “perchè è il mese migliore per andare a Las Vegas?”.
Questa problematica verrà affrontata, le vacanze della scuola saranno destinate ad essere riviste, salvo una ribellione dell'intera comunità scolastica che certamente non mancherà.
D'altronde chi lavora a scuola ben è consapevole delle consistenti condizioni di stress in cui si opera, di tutte le problematiche che caratterizzano la scuola, e due mesi di vacanza sarebbero anche pochi per consentire al personale scolastico di recuperare l'intera integrità psicofisica dopo la conclusione dell'anno scolastico.
Si guarderà probabilmente al modello dei campi estivi americani, forse si proporranno soluzioni di adesione volontaria collegate al concetto della premialità e produttività come già normata in via arbitraria e contrattuale nella scuola con l'accordo firmato da Cisl, Uil, Snals e Gilda il 12 .12.12 alle ore 21.45 presso l'Aran. Marco Barone
Mps, la banca del Pd che nel 2012 è costata 3,9 miliardi agli italiani. Più dei tagli della riforma Fornero
Capita spesso di leggere dei veri e propri esercizi di comprensione su quale sia il potere su cui, in ultima istanza, poggia il Pd. Se ne parla in termini di geografia del sistema politico, un centrosinistra che tende al centro, oppure di geografia economica. Allora si parla del radicamento territoriale del Pd nelle ex-zone rosse. Oppure, facendo esercizio più sociologico, si parla della permanenza della rappresentanza, da parte del Pd, di residui di classe operaia, di pubblico impiego o di una sua forte rappresentanza nei confronti dei pensionati. In tutti i casi si tratta di simulacro ovvero, di fatto, il Pd è solo un simulacro di rappresentanza di regioni che sta portando verso il declino e di ceti sociali ai quali offre solo un progressivo impoverimento.
Ma allora, ci si domanda, quale è la vera base sociale, produttiva del Pd? Sicuramente la si trova nelle evoluzioni del mondo delle coop in tre principali rami: grandi opere, grande distribuzione e immobiliare (sul rapporto tra Ipercoop e mattone ci sarebbe molto da scrivere. Su Senza Soste ora in edicola c'è un'inchiesta in questo senso). Ma si tratta solo di una parte del radicamento del potere reale del Pd.
Se si comincia a osservare Unipol, il cui titolo ultimamente è in salute, si capisce come da (molto) tempo il principale partito del centrosinistra presidi un altro grande potere delle società postindustriali: il ramo finanziario-assicurativo. Eccoci quindi ad uno storico potere italiano, nel ramo bancario, nel quale il radicamento Pd può vantare una lunga storia. Ci riferiamo al Monte dei Paschi che è controllato direttamente dal Pd senese quindi su una base territoriale con rilievo nazionale. Ora non ha importanza descrivere qui la guerra tra bande che si è aperta nel Pd a Siena con la crisi di Mps, una guerra che nessuno in Toscana riesce a spegnere tale è l’autonomia del partito democratico senese dal resto della regione. Bisogna soprattutto brevemente raccontare come l’Mps, grazie alla acquisizione sbagliata di Antonveneta e ad una lunga serie di operazioni speculative andate a male, da almeno un lustro si trova in cattive acque. Tanto che, nell’autunno del 2012, il governo Monti decreta, su un testo approvato da un relatore Pd ed uno Pdl, un aiuto alla banca senese pari a 3,9 miliardi di euro. Aiuto poi messo in discussione dal Bce ma superiore, dal punto di vista finanziario, ai “risparmi” che la riforma Fornero ha prodotto con i tagli alle pensioni.
Questo per dire in che genere di politiche si è gettato il Pd. Per salvare una propria banca da uno sbilancio epocale, di proporzioni gigantesche, è entrato nel governo Monti legittimando le politiche di trasferimento delle risorse dello stato dalla spesa pubblica agli aiuti ai bilanci delle banche. Monti si è occupato, per dare un’idea sommaria dell’operazione, degli aiuti a banche greche, spagnole, portoghesi (che finiranno, in una partita di giro, alle banche tedesche e francesi) e al Pd è toccato il corposo aiuto a Mps. Aiuto che è servito, tra l’altro, ad evitare che la banca fosse commissariata dallo stato, disintegrando il residuo potere piddino senese e nazionale nei corridoi di Mps. Queste storie hanno sempre la caratteristica di fornire nuovi capitoli. Pochissimi giorni fa, con delle prove fornite dal Fatto Quotidiano, esce la prova inoppugnabile che Mussari, allora presidente di Mps e fino a poche ore fa presidente dell’associazione delle banche italiane (praticamente un ministro), aveva fatto una pesante operazione di cosmesi finanziaria con il bilancio 2009 del Monte dei Paschi. In poche parole aveva acquisito come attivo una serie di pericolosi derivati, contratti con una banca giapponese, che altro non erano che letali bombe ad orologeria nei bilanci della banca senese. E bravi Monti e il Pd, con il concorso del Pdl, che hanno decretato aiuti, e di quali proporzioni, ad una banca che è piena di vere e proprie bombe ad orologeria finanziarie. Tutto questo per sottrarre la banca ad un vero controllo pubblico.
Nel frattempo Mussari, che alcuni blog finanziari definiscono “il peggior presidente dell’Abi di sempre” si è dimesso, dichiarandosi innocente, dall’associazione italiana dei bancari. Resta uno sbilancio di dimensioni ciclopiche in Mps, con risorse considerevoli tolte ai beni pubblici per immetterle in una voragine di debiti privati. Tutto questo, naturalmente, senza che Mps abbia minimamente migliorato la propria offerta finanziaria a imprese, famiglie, singoli, coppie in cerca di mutuo. Si è presa una parte notevole di denaro pubblico per farla sparire nel niente di una voragine di bilancio.
A questo punto chiedersi cosa sia veramente il Pd non fa certamente male. Al di là delle operazioni di creazione di simulacro per attirare elettori resta la sostanza materiale di un potere profondamente immobiliare (Ipercoop non è solo grande distribuzione), legato alle grandi opere (le cooperative edilizie) e speculativo-finanziario (Unipol e Mps). Si tratta di tipici poteri del liberismo odierno nazionale, quello legato al circuito mattone-moneta. Un circuito a cui le attuali politiche dell’eurozona di trasferimento, per quanto convulso ed instabile, delle ricchezze dalla spesa sociale ai bilanci delle banche va benissimo. Ma anche un partito molto diverso non solo dalla propaganda che fornisce di sè ma anche dall’immagine che comunemente si fanno anche i suoi avversari. Eppure basta seguire gli interessi materiali per sapere, in politica e non solo, chi si ha davanti.(red)
lunedì 28 gennaio 2013
I SACRIFICI LI FACCIA EPIFANI! I Cobas rispondono all'ex segretario della CGIL
Venerdì 25 gennaio abbiamo ascoltato nel corso della trasmissione LEADER, condotta da Lucia Annunziata, l'intervento di Guglielmo Epifani sulla crisi della Richard Ginori.
Dopo una serie di banalità e inesattezze, l'ex segretario della CGIL, rispondendo a un lavoratore, ha chiarito la sua ricetta per far uscire Richard Ginori dalla crisi: trovare un imprenditore possibilmente italiano pronto a rilevare il marchio e a investire. Certo ci saranno da fare dei sacrifici, ma i lavoratori dovranno accettarli in cambio di un progetto industriale serio, che tagli si i posti di lavoro, ma che col tempo magari potranno essere reintegrati. Secondo Epifani questo è un ragionamento serio e onesto!
C'è da dire subito che l'analisi di Epifani sembra uno spot su misura per Sambonet, l'azienda italiana che si sta contendendo con la società americana Lenox in cordata con la società italo rumena Apulum la Richard Ginori, e che per l'appunto prevede pesanti sacrifici sul piano occupazionale, senza peraltro offrire garanzie sul futuro. Ma di questo non ci stupiamo, ormai è noto come la CGIL sponsorizzi l'azienda di Novara.
Stupisce semmai la disinvoltura con cui Guglielmo Epifani parli di sacrifici da parte dei lavoratori, senza considerare per esempio che Richard Ginori era già stata assegnata a due società serie e importanti, pronte a investire e rilanciare, e che avrebbero garantito una buona tenuta occupazionale. Senza ricordare che solo un incomprensibile fallimento, dichiarato dal Tribunale di Firenze, ha fatto si che i suoi lavoratori non siano oggi al lavoro.
E' facile parlare di sacrifici standosene comodi sulla poltrona del presidente dell'Associazione Bruno Trentin, dove è stato sistemato dopo aver lasciato la segreteria della CGIL e ancora di più lo sarà da deputato (primo della lista PD in Campania).
I sacrifici li faccia Epifani, i lavoratori della Richard Ginori né hanno fatti già abbastanza!
Sesto F.no 28/01/2013 COBAS GINORI
Dopo una serie di banalità e inesattezze, l'ex segretario della CGIL, rispondendo a un lavoratore, ha chiarito la sua ricetta per far uscire Richard Ginori dalla crisi: trovare un imprenditore possibilmente italiano pronto a rilevare il marchio e a investire. Certo ci saranno da fare dei sacrifici, ma i lavoratori dovranno accettarli in cambio di un progetto industriale serio, che tagli si i posti di lavoro, ma che col tempo magari potranno essere reintegrati. Secondo Epifani questo è un ragionamento serio e onesto!
C'è da dire subito che l'analisi di Epifani sembra uno spot su misura per Sambonet, l'azienda italiana che si sta contendendo con la società americana Lenox in cordata con la società italo rumena Apulum la Richard Ginori, e che per l'appunto prevede pesanti sacrifici sul piano occupazionale, senza peraltro offrire garanzie sul futuro. Ma di questo non ci stupiamo, ormai è noto come la CGIL sponsorizzi l'azienda di Novara.
Stupisce semmai la disinvoltura con cui Guglielmo Epifani parli di sacrifici da parte dei lavoratori, senza considerare per esempio che Richard Ginori era già stata assegnata a due società serie e importanti, pronte a investire e rilanciare, e che avrebbero garantito una buona tenuta occupazionale. Senza ricordare che solo un incomprensibile fallimento, dichiarato dal Tribunale di Firenze, ha fatto si che i suoi lavoratori non siano oggi al lavoro.
E' facile parlare di sacrifici standosene comodi sulla poltrona del presidente dell'Associazione Bruno Trentin, dove è stato sistemato dopo aver lasciato la segreteria della CGIL e ancora di più lo sarà da deputato (primo della lista PD in Campania).
I sacrifici li faccia Epifani, i lavoratori della Richard Ginori né hanno fatti già abbastanza!
Sesto F.no 28/01/2013 COBAS GINORI
domenica 27 gennaio 2013
TERNI ENA: E' più pulito il percolato di questi qui
21 milioni per la costruzione della centrale Acea-Terni ENA
Il sistema-Roma emerso dopo l'inchiesta si allarga a un nuovo capitolo. Nel consiglio di amministrazione della società che affidò i lavori un fedelissimo del sindaco
di DANIELE AUTIERIIl sistema-Roma emerso dopo l'inchiesta per corruzione e le dimissioni dell'ad di Eur spa,Riccardo Mancini, si allarga a un nuovo capitolo che, in questo caso, coinvolge l'Acea, l'azienda controllata al 51% dal Campidoglio e guidata da Giancarlo Cremonesi, un altro uomo vicinissimo al sindaco Alemanno.Appellandosi all'articolo 221 del decreto 163/2006 che ammette la deroga alla procedura di gara pubblica quando ricorrono ragioni di estrema urgenza, Aria, l'azienda di Acea specializzata nel settore dei rifiuti, ha affidato "l'appalto integrato di progettazione esecutiva e di lavori per il revamping dell'esistente centrale di recupero energetico della società Terni Ena spa" all'associazione temporanea di imprese costituita da Società Generale Rifiuti srl (SoGeRi), Intercantieri Vittadello, Loto Impianti srl e IGM Ambiente srl. L'affidamento prevedeva il termine dei lavori entro la fine del 2012 per una contropartita economica da 21,9 milioni di euro.
L'attenzione a questo punto cade sulla SoGeRi, la società di cui Mancini è stato in passato amministratore unico prima di lasciare la guida dell'azienda a Emilia Fiorani che oggi occupa la poltrona di presidente del consiglio di amministrazione. La Fiorani è stata già lambita dalle cronache sulla parentopoli dell'uomo forte dell'Eur che l'hanno descritta come la compagna di Carlo Pucci, il tabaccaio di viale Europa nominato da Mancini direttore marketing dell'Ente. Quello che più interessa però è la gerarchia azionaria della SoGeRi.
La società è infatti di proprietà di un'altra azienda, la Treerre spa di cui la Fiorani è l'azionista di minoranza con il 40% del capitale. La maggioranza (il restante 60%) è invece nelle mani della Emis spa, un'azienda sconosciuta alle cronache ma preziosa per Riccardo Mancini che ne controlla il 99% (319.900 euro di capitale sui 320mila totali). Come insegna il gioco delle scatole cinesi, la gerarchia azionaria della Emis conduce fino alla SoGeRi, la società aggiudicatrice dell'appalto, che Mancini controlla per intermezzo delle altre aziende che fanno da filtro.
Il fatto è rilevante e svela l'intreccio di interessi attivato all'interno delle aziende controllate dal Comune che in questo caso vede l'uomo che nel 2008 sostenne la campagna elettorale di Alemanno (indagato per aver favorito a forza di tangenti la vendita dei filobus di Breda Menarini all'Atac) ottenere un appalto senza gara da 21 milioni di euro da un'azienda (Acea) controllata al 51% dal Comune di Roma.
Peraltro nel consiglio di amministrazione di Aria spa, la società di Acea che gestisce l'inceneritore di Terni e ha assegnato l'appalto, siede Ranieri Mamalchi, un altro fedelissimo del sindaco di Roma, già capo della sua segreteria quando Alemanno era ministro dell'Agricoltura, membro del cda della fondazione alemanniana "Nuova Italia", nonché direttore degli affari istituzionali di Acea spa.
Scuola - Le iscrizioni on line escludono i minori figli di genitori privi di permesso
Melting Pot diffida il MIUR. Rimuovere l’obbligatorietà per la registrazione del codice fiscale. Violati gli articoli 38 del TU e 45 del Regolamento di attuazione
Da quest’anno le iscrizioni alle scuole elementari si effettueranno solo on line. Sito intasato, dati non salvati, dati stravolti dopo il salvataggio, sono solo alcuni degli effetti di questa nuova procedura che hanno colpito i genitori di tutta Italia.
Per chi non dispone di una connessione internet e di un computer le difficoltà sono ovviamente maggiori anche se gli istituti comprensivi, un pò ovunque, si sono resi disponibili per l’assistenza alla compilazione delle iscrizioni.
Per chi non dispone di una connessione internet e di un computer le difficoltà sono ovviamente maggiori anche se gli istituti comprensivi, un pò ovunque, si sono resi disponibili per l’assistenza alla compilazione delle iscrizioni.
Ma i disservizi non sono l’unico effetto prodotto dal nuovo sistema.
La procedura di iscrizione on line infatti, con la richiesta tra i campi obbligatori del codice fiscale, esclude la possibilità di iscrizione dei figli alle scuole elementari da parte di genitori privi di permesso di soggiorno.
Inutile ricordare che la scuola elementare (scuola primaria) è scuola dell’obbligo.
L’articolo 38 del Testo Unico immigrazione è assolutamente lapidario: i minori stranieri presenti sul territorio sono soggetti all’obbligo scolastico.
L’articolo 45 del Regolamento di attuazione poi chiarisce in maniera inequivocabile come i minori stranieri presenti sul territorio nazionale abbiano diritto all’istruzione indipendentemente dalla regolarità della posizione in ordine al loro soggiorno, nelle forme e nei modi previsti per i cittadini italiani.
La mancanza del codice fiscale per i genitori stranieri privi di permesso di soggiorno che vogliano iscrivere i loro figli a scuola risulta quindi un ostacolo inaggirabile per procedere all’iscrizione.
L’Agenzia delle Entrate, per il rilascio del codice Fiscale, richiede comunque l’esibizione del visto di ingresso o del permesso di soggiorno e a poco serve la soluzione "fai da te" di chi cerca di generare il codice fiscale autonomamente. nulla di ufficiale.
L’Agenzia delle Entrate, per il rilascio del codice Fiscale, richiede comunque l’esibizione del visto di ingresso o del permesso di soggiorno e a poco serve la soluzione "fai da te" di chi cerca di generare il codice fiscale autonomamente. nulla di ufficiale.
In buona sostanza il sistema predisposto dal Ministero preclude l’esercizio dell’obbligo/diritto di frequenza alle scuole elementari, come denunciato da diversi insegnanti anche alla redazione del nostro portale.
Al MIUR è indirizzata la diffida del Progetto Melting Pot Europa affinchè modifichi immediatamente il sistema dando indicazioni chiare perchè il diritto all’istruzione sia garantito a tutti i minori su tutto il territorio nazionale a prescindere dalla posizione di soggiorno dei loro genitori.
Grandi bugie e piccole furbizie di governo di fronte al progetto di destrutturazione della scuola e della formazione.Rimettere al centro del dibattito politico la funzione della scuola pubblica
di Beppi Zambon 22 / 1 / 2013
"Ho anche fatto i conti con i grandi numeri, che sanno dire molto. Eccone alcuni, di segno anche diverso. Noi integriamo ogni giorno nelle nostre classi, in modo sereno e serio, 200 mila bambini e ragazzi con disabilità. Nessun altro Paese lo fa da così tanti anni. E oggi finalmente capita che altre grandi nazioni ci guardino con ammirazione, pensando di volerci imitare. Tanto siamo avanti che una delegazione del governo francese è venuta e mi ha chiesto: come fate a fare una cosa così importante, i primi tra i paesi OCSE, da 30 anni? Accogliamo, poi, 750 mila bambini e ragazzi stranieri. Parlano italiano ormai come prima lingua, lavorano per raggiungere gli obiettivi curricolari in tutte le discipline insieme ai nostri figli; diventeranno - presto, si spera - i loro concittadini a tutti gli effetti. Un signore che ha un banco in un mercato di Roma, che si chiama Mustafà, mi ha detto: «il vero porto che mi ha accolto sono state le maestre dei miei tre figli nelle vostre belle scuole». Ma è pur vero che la maggior parte dei 40 mila edifici nei quali vivono ogni mattina i nostri figli hanno cinquant’anni e passa. Molti hanno avuto buoni interventi, molti no; e pochi sono ecosostenibili. Un noto economista quando gli ho chiesto «senti, ma, anche al di là della urgenza civile, nell’ottica della ripresa economica, conviene investire in questa storia?» - mi ha mostrato perché la risposta non può che essere «sì». Poi, troppi bambini e ragazzi imparano troppo poco e il 18,3 percento di loro, quasi sempre figli di poveri, non raggiungono una qualifica professionale né un diploma di scuola superiore. Sono scandalosamente troppi. Dobbiamo migliorare presto gli apprendimenti di tutti e di ciascuno e battere la dispersione scolastica. Nel Sud abbiamo iniziato a costruire una rete di scuole che si dedicano a questo. Ma ci vorrà costanza e dobbiamo estendere l’impegno ovunque. Vorrei, ora, dire la cosa più importante, in modo pacato. La scuola italiana è stata indebolita da un disinvestimento culturale e politico che si è tradotto in tagli per 8,4 miliardi di euro nel triennio 2008-2011. E’ una somma enorme, che ha intaccato da allora le risorse correnti. Quando, tra qualche anno, si studierà questa cosa, ci si troverà dinanzi a una vera e propria cesura nella storia d’Italia. Infatti, né in tempi di penuria economica, come all’avvio dello Stato unitario, né durante le guerre, né nei periodi di crisi e di ricostruzione si erano tolti così tanti soldi al sistema d’istruzione. E ci si domanderà perché è avvenuto e soprattutto perché è avvenuto in assoluta controtendenza con il pensiero economico, sia di ispirazione socialdemocratica che liberale, che riconoscono nell’istruzione - oltre che il principale fattore di tenuta della coesione sociale e di discriminazione positiva a favore di chi parte con meno nella vita la prima leva per la crescita equilibrata e duratura e anche per la fuoriuscita dalle crisi."
Uno scritto romantico, orgoglioso, critico dello stato delle cose scolastiche ma anche profondamente fuorviante, falso ed infido, posto che l’ex maestro di strada è stato - proprio lui - il responsabile operativo delle politiche scolastiche portate avanti dal Governo con tagli su tagli, che hanno interessato proprio i temi della disabilità, del numero degli alunni per classe, dell’edilizia scolastica, e con forzature nei confronti delle condizioni di lavoro che solo una forte reazione degli insegnanti ha tamponato.
Una vergognoso trasformismo, quello di Rossi Doria, che è in buona compagnia: nessuna forza politica, in nessun dibattito, in nessuna intervista ha fatto delle dichiarazione impegnative sulla scuola, sulla formazione, a meno di non andarle a ricercare nei ’documenti sull’agenda di governo’, dove si fanno dei richiami ad investimenti futuri in linea con la media europea.
La scuola e la formazione in generale sono sparite dal dibattito politico, nonostante che studenti ed insegnanti abbiano riempito le piazze, nonostante siano stati l’unico movimento di lotta, che ha rotto la pacificazione coatta nel paese, fatto salvo il contributo dei lavoratori metalmeccanici e di alcune vertenze sociali territoriali. I motivi di questo svuotamento di attenzione politica sono molteplici.
Nel corso di questo decennio la scuola e la formazione sono state delegittimate nella loro funzione: da istituzioni con finalità di promozione socio-culturale della comunità nazionale nel suo insieme, a servizio ad offerta individuale, da istituzioni a mercato, da servizio pubblico ad azienda. Per ottenere questo risultato era ed è necessario scardinare il ruolo degli insegnanti e della scuola, indicando gli insegnanti quali degli scansafatiche, dei privilegiati, dei buoni a nulla, degli impreparati, dei contestatori politici che con la loro pessima attività di insegnamento hanno fatto precipitare l’Italia nella fascia bassa della qualificazione scolastica europea. Ecco che la scuola e la formazione in generale sono pronte per essere privatizzate - il privato è sinonimo di efficienza, efficacia, profitto sociale ed economico - nella loro conduzione e nella produzione didattica e disciplinare. Su queste tematiche è stata orchestrata, appunto, una campagna politica e mediatica, che ha visto quali protagonisti tutti i Governi che si sono succeduti in questi 12 anni, tutte le grandi firme e gli opinionisti dei media main stream, con, quale supporto materiale, la costante riduzione della condizione economica e sociale dell’intero corpo insegnante, con un aumento enorme del carico di lavoro e la contestuale erosione - circa il 30% di perdita del potere reale d’acquisto nel decennio - del reddito.
E intanto la disoccupazione è vicina alla quota del 40% per la fascia di età sotto i 25 anni, intanto l’emigrazione - con, spesso, successo occupazionale adeguato - di giovani laureati e diplomati italiani è in forte espansione: sarà che la scuola, la formazione non funzionano o vi è dell’altro?!!! Invertire la tendenza non sarà facile ma non possiamo sperare che le forze politiche di governo, qualunque esso uscirà dal cilindro delle elezioni, vi pongano rimedio, se non mistificando il proprio operato, come fa Rossi Doria: dobbiamo rimboccarci le maniche, costruire una mobilitazione larga e trasversale che includa, tutti i soggetti coinvolti, tutta la società per porre la scuola e formazione al centro di un percorso di cambiamento reale.
Beppi Zambon
INSEGNARE FA MALE - burnout
a cura di Giorgio Morale tratto da Vivalascuola.it del 15.01.2013
Leggo che il tasso di usura nervosa tra gli insegnanti è secondo solo a quello che riguarda la classe medica. “Anche voler bene stanca” – scriveva Lalla Romano. Figuriamoci curare, guidare, istruire, educare, ‘darsi‘ quotidianamente a un gran numero di giovani distratti spesso ostili, sobillati da genitori diffidenti, pungolati da una opinione pubblica alquanto scettica sulla qualità e l’utilità del loro servizio, umiliati da ministri della Repubblica a caccia di streghe e slogan populisti.
Se per i ragazzi è il bombardamento consumistico e la desolazione relazionale a produrre fatali catene distruttive, negli insegnanti può trattarsi di quello che in inglese chiamano burnout. Anche in italiano: sindrome da burnout (che noi pronunciamo bernàut). È una sindrome da esaurimento cronico. Mi si dirà: con tutti i suicidi tra imprenditori falliti, col tipo di malattie del lavoro che ci sono oggi in Italia, e l’asma e la dermatite e le anemie, adesso dobbiamo preoccuparci anche di questi esauriti dei professori? Beh, sì, direi che dobbiamo occuparcene, dato che sono loro ad occuparsi delle generazioni future. E visto che si tratta di una vera e propria malattia professionale. (Peggiorata dalla precarietà. Non scordiamo, se vogliamo parlare sul serio, che il numero dei suicidi raddoppia tra i disoccupati.)
Quando leggo quali sono le diverse fasi del burnout mi viene da sorridere (le riconosco tutte: in me, nei tanti colleghi, nei prof e negli specializzandi che ho incontrato). Possono esserci, difatti, 12 momenti attraverso cui si manifesta la patologia. Per sintetizzare li riassumo così: all’inizio c’è l’entusiasmo idealistico, il momento in cui si sceglie la strada di prendersi cura degli altri e si è spinti (non solo dal proprio senso di responsabilità, ma anche dall’ambiente lavorativo, nonché dai colleghi ‘concorrenti‘) a dimostrare che si vale ‘di più‘.
Sotto la pressione di eccessivi carichi di lavoro e dello stress arriva la delusione, e l’individuo comincia a sentirsi sfruttato e tradito nelle aspettative, anche perché di gratificazioni economiche non ne arrivano. Poi si apre la fase della frustrazione, in cui ci si sente sfruttati, marginalizzati, insoddisfatti, in ogni caso ossessionati dal lavoro. È allora che si cerca o di riguadagnare terreno sulla propria immagine di sé lavorando compulsivamente, diventando maniacali e pedanti fin nei dettagli, oppure di sfuggire l’ambiente di lavoro con ogni mezzo, schifati da tutto. Infine, giunge la fase della depressione e dell’apatia: non si ama più niente, si perde contatto coi propri bisogni e coi bisogni degli altri.
detachment marcia in red
Non vorrei (né tanto meno potrei per competenze) proporre una riflessione sistematica sul fenomeno, mi basta qui ripensare a chi sono stata, alle persone incontrate, ai fuggevoli segnali di crisi raccolti negli anni. La collega che mi incontra al bar e per 65 minuti mi trattiene a parlare di come viene perseguitata dal preside. L’amico, supplente da anni, che ha sviluppato una rabbiosa intolleranza verso tutti i colleghi. La mia ex studentessa di Educazione primaria che, chiamata per una supplenza di due mesi, per due mesi ogni giorno scoppia a piangere. Memorie vivide dei miei supplenti delle medie che entravano in classe a leggere il giornale. Certi prof logorroici che parlano del loro divorzio, dei diritti dei cacciatori, di cosa farebbero con una vincita al Superenalotto. Le espressioni di disgusto con cui un gruppo di eterni precari accoglie il curatore del seminario quando parla di “insegnante pro-attivo”. Il precario ‘sissino‘ che sequestra la prof nel suo ufficio (all’arrivo dei Carabinieri scapperà dalla finestra). L’altro che non boccia più nessuno dopo che un genitore ha fatto causa alla scuola. Il collega che fa seminari gratis. La maestra che prepara cartelloni fino alle due di notte. Sono solo squarci, fotogrammi, non compongono alcuna diagnosi. Eppure, nel loro modo impressionistico, mi dicono di cause ben più grandi, le cui radici non vanno ricercate tanto nel singolo, bensì in un ambiente lavorativo fortemente instabile, finanche opprimente, e in un contesto psico-sociale logorato.
Christina Maslach, tra le prime a studiare il burnout e a preparare test di misurazione con cui valutarne la gravità, sostiene che le cause prime di questa sindrome sono da ricercare nella discrasia tra l’ente di lavoro e l’individuo lavoratore circa sei grandi aree riguardanti la vita lavorativa: carico di lavoro, controllo, gratificazione, senso di appartenenza a una comunità, equità e valori condivisi.
Non ci vuole molto a verificare quanto le politiche scolastiche degli ultimi anni abbiano lesionato tali ambiti: andando ad intaccare il riconoscimento sociale per la professione (da Luca e Paolo che mandano un bel vaffa alla prof delle superiori dal palco di Sanremo a Brunetta che dà dei “fannulloni” ai precari) e il carico di lavoro (con riunioni, consigli, programmazioni, aggiornamenti, una punitiva quanto poliziesca burocrazia ed ora, si vocifera, anche ulteriori ore di insegnamento da impartire gratuitamente), promuovendo la disaffezione e il sospetto (tra sissini e tieffini, tra colleghi abilitati, tra insegnanti e genitori, tra insegnanti e presidi, tra presidi e ispettori, ecc.), e rendendo il percorso di accesso alla professione lungo, costoso, involuto, intollerabilmente evanescente e precario. (Molti sono i mestieri logoranti, lo so, ma pochi richiedono di essere ispirati e credibili ogni giorno, di modellare con cura l’anima fragile e aperta dei piccoli della specie.)
Maslach suggerisce che per prevenire il problema occorre equilibrio ed equità nell’assegnazione degli incarichi, coordinamento delle risorse, supporto dei superiori e tra pari, condivisione di progetti e ragioni. Ma Maslach sta a Berkeley, non sa che in Italia stanno buttando dalla finestra graduatorie decennali, tagliando i fondi, abbandonando gli insegnanti e, più in generale, smontando pezzo per pezzo le ragioni dell’istruzione pubblica.
Il professor Henry Barthes, il bravo supplente segnato da un passato tragico e mosso dalla vocazione (privata e didattica) a preservare la libertà della mente e dello spirito, si salverà. Forse grazie alla capacità di staccarsi da se stesso, dai traumi, dalla bruttezza. Forse grazie all’affetto di chi riuscirà a salvare. Non sarà lo stesso per tutti i protagonisti, alcuni inghiottiti dal fallimento o da un più ampio nulla. Non si salverà neanche la scuola. E noi?
Se per i ragazzi è il bombardamento consumistico e la desolazione relazionale a produrre fatali catene distruttive, negli insegnanti può trattarsi di quello che in inglese chiamano burnout. Anche in italiano: sindrome da burnout (che noi pronunciamo bernàut). È una sindrome da esaurimento cronico. Mi si dirà: con tutti i suicidi tra imprenditori falliti, col tipo di malattie del lavoro che ci sono oggi in Italia, e l’asma e la dermatite e le anemie, adesso dobbiamo preoccuparci anche di questi esauriti dei professori? Beh, sì, direi che dobbiamo occuparcene, dato che sono loro ad occuparsi delle generazioni future. E visto che si tratta di una vera e propria malattia professionale. (Peggiorata dalla precarietà. Non scordiamo, se vogliamo parlare sul serio, che il numero dei suicidi raddoppia tra i disoccupati.)
Quando leggo quali sono le diverse fasi del burnout mi viene da sorridere (le riconosco tutte: in me, nei tanti colleghi, nei prof e negli specializzandi che ho incontrato). Possono esserci, difatti, 12 momenti attraverso cui si manifesta la patologia. Per sintetizzare li riassumo così: all’inizio c’è l’entusiasmo idealistico, il momento in cui si sceglie la strada di prendersi cura degli altri e si è spinti (non solo dal proprio senso di responsabilità, ma anche dall’ambiente lavorativo, nonché dai colleghi ‘concorrenti‘) a dimostrare che si vale ‘di più‘.
Sotto la pressione di eccessivi carichi di lavoro e dello stress arriva la delusione, e l’individuo comincia a sentirsi sfruttato e tradito nelle aspettative, anche perché di gratificazioni economiche non ne arrivano. Poi si apre la fase della frustrazione, in cui ci si sente sfruttati, marginalizzati, insoddisfatti, in ogni caso ossessionati dal lavoro. È allora che si cerca o di riguadagnare terreno sulla propria immagine di sé lavorando compulsivamente, diventando maniacali e pedanti fin nei dettagli, oppure di sfuggire l’ambiente di lavoro con ogni mezzo, schifati da tutto. Infine, giunge la fase della depressione e dell’apatia: non si ama più niente, si perde contatto coi propri bisogni e coi bisogni degli altri.
detachment marcia in red
Non vorrei (né tanto meno potrei per competenze) proporre una riflessione sistematica sul fenomeno, mi basta qui ripensare a chi sono stata, alle persone incontrate, ai fuggevoli segnali di crisi raccolti negli anni. La collega che mi incontra al bar e per 65 minuti mi trattiene a parlare di come viene perseguitata dal preside. L’amico, supplente da anni, che ha sviluppato una rabbiosa intolleranza verso tutti i colleghi. La mia ex studentessa di Educazione primaria che, chiamata per una supplenza di due mesi, per due mesi ogni giorno scoppia a piangere. Memorie vivide dei miei supplenti delle medie che entravano in classe a leggere il giornale. Certi prof logorroici che parlano del loro divorzio, dei diritti dei cacciatori, di cosa farebbero con una vincita al Superenalotto. Le espressioni di disgusto con cui un gruppo di eterni precari accoglie il curatore del seminario quando parla di “insegnante pro-attivo”. Il precario ‘sissino‘ che sequestra la prof nel suo ufficio (all’arrivo dei Carabinieri scapperà dalla finestra). L’altro che non boccia più nessuno dopo che un genitore ha fatto causa alla scuola. Il collega che fa seminari gratis. La maestra che prepara cartelloni fino alle due di notte. Sono solo squarci, fotogrammi, non compongono alcuna diagnosi. Eppure, nel loro modo impressionistico, mi dicono di cause ben più grandi, le cui radici non vanno ricercate tanto nel singolo, bensì in un ambiente lavorativo fortemente instabile, finanche opprimente, e in un contesto psico-sociale logorato.
Christina Maslach, tra le prime a studiare il burnout e a preparare test di misurazione con cui valutarne la gravità, sostiene che le cause prime di questa sindrome sono da ricercare nella discrasia tra l’ente di lavoro e l’individuo lavoratore circa sei grandi aree riguardanti la vita lavorativa: carico di lavoro, controllo, gratificazione, senso di appartenenza a una comunità, equità e valori condivisi.
Non ci vuole molto a verificare quanto le politiche scolastiche degli ultimi anni abbiano lesionato tali ambiti: andando ad intaccare il riconoscimento sociale per la professione (da Luca e Paolo che mandano un bel vaffa alla prof delle superiori dal palco di Sanremo a Brunetta che dà dei “fannulloni” ai precari) e il carico di lavoro (con riunioni, consigli, programmazioni, aggiornamenti, una punitiva quanto poliziesca burocrazia ed ora, si vocifera, anche ulteriori ore di insegnamento da impartire gratuitamente), promuovendo la disaffezione e il sospetto (tra sissini e tieffini, tra colleghi abilitati, tra insegnanti e genitori, tra insegnanti e presidi, tra presidi e ispettori, ecc.), e rendendo il percorso di accesso alla professione lungo, costoso, involuto, intollerabilmente evanescente e precario. (Molti sono i mestieri logoranti, lo so, ma pochi richiedono di essere ispirati e credibili ogni giorno, di modellare con cura l’anima fragile e aperta dei piccoli della specie.)
Maslach suggerisce che per prevenire il problema occorre equilibrio ed equità nell’assegnazione degli incarichi, coordinamento delle risorse, supporto dei superiori e tra pari, condivisione di progetti e ragioni. Ma Maslach sta a Berkeley, non sa che in Italia stanno buttando dalla finestra graduatorie decennali, tagliando i fondi, abbandonando gli insegnanti e, più in generale, smontando pezzo per pezzo le ragioni dell’istruzione pubblica.
Il professor Henry Barthes, il bravo supplente segnato da un passato tragico e mosso dalla vocazione (privata e didattica) a preservare la libertà della mente e dello spirito, si salverà. Forse grazie alla capacità di staccarsi da se stesso, dai traumi, dalla bruttezza. Forse grazie all’affetto di chi riuscirà a salvare. Non sarà lo stesso per tutti i protagonisti, alcuni inghiottiti dal fallimento o da un più ampio nulla. Non si salverà neanche la scuola. E noi?
Assunzione precari “storici”, oltre 100mila sperano nei giudici europei
di Alessandro Giuliani da la tecnica della scuola 18/01/2013
Assunzione precari “storici”, oltre 100mila sperano nei giudici europei A dispetto della sentenza di Cassazione dello scorso giugno, che sembrava aver chiuso la questione, negli ultimi mesi tutti gli accadimenti hanno giocato a favore dei supplenti con almeno 36 mesi di servizio su posti vacanti: in 20mila hanno già fatto ricorso. E dopo l’Anief, anche Gilda e Cgil si giocano la carta dei tribunali super partes d’oltre confine. Sta assumendo proporzioni mastodontiche la spinta dei precari “storici” della scuola verso la stabilizzazione: a presentare ricorso per l’immissione in ruolo sarebbero ormai oltre 20.000 tra supplenti docenti e Ata. Si tratta di personale che ha svolto almeno 36 mesi di servizio su posti vacanti, esattamente come stabilisce una direttiva comunitaria, la 1999/70/CE, fatta propria da diversi tribunali del vecchio Continente. L’aspetto curioso della vicenda è che la sentenza della Cassazione del 20 giugno scorso, che nella reiterazione dei contratti dei supplenti docenti e Ata non ha ravvisato alcuna anomalia, sembra aver dato vigore al popolo dei ricorrenti. La prima risposta è arrivata dall’Anief, che ha subito “bollato” la sentenza dei giudici ermellini figlia di un “istinto comprensibilmente conservatore, come era del resto prevedibile, vista l’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione”. Ma non solo: preso atto che anche la trattativa con la Funzione Pubblica non avrebbe portato ad alcun risultato, in autunno il suo presidente, Marcello Pacifico, si è recato a Bruxelles per consegnare personalmente alla Commissione Ue la documentazione utile a fare da apripista a migliaia di ricorsi. E le pressioni non hanno tardato a produrre frutti: l’Ue ha infatti aperto una procedura d’infrazione contro l’inosservanza dell’Italia proprio per la violazione della normativa sulla reiterazione dei contratti a tempo determinato. Ma non finisce qui. Perché il 2013 si è aperto con un altro punto a favore dei precari. Un giudice del tribunale del lavoro di Napoli, Paolo Coppola, che doveva decidere sulla richiesta di assunzione in ruolo di una professoressa precaria, Raffaella Mascolo, ha infatti chiesto di sollevare la questione di pregiudizialità davanti alla Corte di Giustizia del Lussemburgo. Tornando così a tirare per la giacca i magistrati europei. I quali sulla questione non sembrano avere troppi dubbi. Gli ultimi accadimenti sulla vicenda hanno indotto anche altri sindacati della scuola a muoversi. Anche perché il numero di potenziali ricorrenti è altissimo: gli ultimi dati della Ragioneria dello Stato indicano oltre 113mila docenti e Ata precari con oltre 36 mesi di servizio alle spalle. Il 17 gennaio hanno emesso un chiaro comunicato in merito, prima la Fgu-Gilda degli Insegnanti e poi la Flc-Cgil. Il primo sindacato ha fatto sapere che “la Fgu, che ha già vinto numerose cause di risarcimento riguardanti la stabilizzazione dei precari con oltre tre anni di servizio, è stata legittimata a stare in giudizio davanti alla Corte di Strasburgo a difesa degli insegnanti precari”. Il coordinatore nazionale della Fgu-Gilda, Rino Di Meglio, ha ricordato che ad inizio gennaio il giudice Coppola “ha posto il problema delle continue contraddizioni in cui sono cadute finora le decisioni assunte dalla Corte di Cassazione in questo ambito, sottolineando anche la questione della retroattività dei provvedimenti adottati dal Parlamento italiano e l’incoerenza con quanto previsto dalla normativa europea”. Anche Mimmo Pantaleo, segretario generale Flc-Cgil, ha ricordato che “il tribunale di Napoli ha riconosciuto alla nostra organizzazione il diritto di costituirsi in giudizio alla Corte di Giustizia Europea in quanto rappresentativa degli interessi di questi lavoratori”. Per il leader del sindacato confederale “questa decisione rende ancora più forte l’impegno della Flc a favore di una battaglia di civiltà per dare sicurezza e futuro alle persone e alla scuola che così può contare su personale qualificato e stabile”. Pantaleo ha sottolineato che la sua organizzazione chiederà “al prossimo Governo prioritariamente un credibile piano pluriennale di stabilizzazione dei precari. Si tratta di una tappa importante che è il frutto di una lunga e diffusa campagna politica e vertenziale promossa dalla FLC a partire dal 2010 contro il Collegato Lavoro voluto dall’allora Ministro Sacconi”, ha concluso Pantaleo. Ora si entrerà, presumibilmente, in una fase di stand by. Che si concluderà in primavera. Quando il nuovo Governo italiano avrà scoperto le nuove carte. E fatto capire se allinearsi all’Ue. O continuare a lasciare i supplenti in balia del loro destino da precari anche per venti e più anni.
mercoledì 23 gennaio 2013
L’insegnamento della religione e l’omofobia
Un
professore di religione che fa propaganda anti-gay tra gli studenti di
un liceo. È accaduto pochi giorni fa a Venezia. Un evento tristemente
istruttivo di quanto l’omofobia ancora oggi possa trovare forti
giustificazioni religiose. E che ci deve far interrogare sulla qualità
dell’insegnamento propinato dai professori di religione cattolica nelle
scuole pubbliche.
In
una quarta classe del liceo “Marco Foscarini” di Venezia un insegnante
di religione, Enrico Pavanello, tratta a modo suo la questione
dell’omosessualità. Un tema caldo, che si lega a questioni come
matrimonio, famiglia, adozione, procreazione assistita, e che suscita
dibattito tra i ragazzi. Andrebbe preso con le molle, esprimendo
quantomeno comprensione. Ma il professore, sollecitato, scrive di suo
pugno una serie di appunti che fotocopia e distribuisce agli studenti.
Il foglio pare poi sia stato condiviso su Facebook da una delle madri,
indignata per il suo contenuto. E la storia finisce così sui giornali.
Nel
volantino in questione, dal titolo “Libertà di ragione”, il docente di
religione esordisce distinguendo tra “omosessualità” e “ideologia gay”.
Si passa poi alla definizione, semplicistica, di ciò che l’insegnante
ritiene sia la “cultura gender”. Viene inopinatamente citato pure
Friedrich Engels. “Nessuno fino ad oggi ha scoperto il fondamento
genetico dell’omo”, aggiunge, contestando poi la “bufala del 10%” di gay
attribuita — erroneamente — al sessuologo Charles Kinsey. ”Allo stato
attuale delle ricerche si può parlare in ‘casi singoli’ di una
‘predisposizione’, ma non di una determinazione genetica comune e
irrevocabile”, continua Pavanello, riducendo così i gay a pochi anormali
e confusi.
Snocciola
quindi quelli che ritiene effetti della “cultura gender”: “si sdogana
la pedofilia”, “spariscono i termini ‘padre’ e ‘madre’”, “ci si apre
alla poligamia”, “si affidano i bimbi/e alle coppie gay”, nonché il “far
west della fecondazione artificiale”. E alla fine, la definizione
dell’omosessualità: “ferita dell’identità che affonda le radici in
bisogni affettivi”, che “sperimenta una diversità indesiderata”; nonché
“un’elaborazione della psiche di modelli affettivi diversi da quelli
verso cui la natura normalmente orienta, una tendenza del tutto
reversibile”.
In sostanza, è proprio quella sottocultura omofoba che viene propagandata con sicumera dall’integralismo cattolico
e che trova spazio negli strali di certi siti web
ultra-tradizionalisti. Nel volantino sono ben riassunte e volgarizzate
le classiche leggende metropolitane, i pregiudizi, le esagerazioni, le
imprecisioni, semplificazioni e slippery slope della propaganda
anti-gay. Si parla pure di studi — scarsissimi, molto controversi
rispetto alla letteratura consolidata e adattati a proprio uso e consumo
— e di esperti, per dare una parvenza di scientificità a tesi retrive e
omofobe.
Ed è preoccupante che anche alcuni
quotidiani nazionali peschino ormai fonti per gli articoli da certi
aspiranti stregoni integralisti, quando si tratta di attaccare
l’omosessualità. Come accaduto qualche mese fa, ma anche di recente.
Perché oggi la strategia di delegittimazione delle istanze per i
diritti civili dei gay da parte degli integralisti religiosi
strumentalizza scienza e argomentazioni ‘laiche’, che fanno riferimento
soprattutto alla psicologia.
Raggiunto dall’Huffington Post,
ma non pago, Pavanello si è difeso proprio così. Ha ribadito che
“l’omosessualità è una scelta, e lo dicono anche autorevoli studiosi”.
Aggiungendo candidamente: “Quando gli studenti manifestano un
orientamento omosessuale, oppure mi chiedono spiegazioni, consiglio loro
dei centri dove è possibile rivedere questo orientamento. Ce ne sono
molti”.
Il
professore di religione è dunque un aperto sostenitore delle ‘cure’ per
gli omosessuali, le famigerate terapie “riparative” o “di conversione”
(che, non a caso, si accompagnano sovente ad esercizi spirituali e
preghiere). E veniamo a sapere che in Italia esistono molti
professionisti che si dedicano a queste pratiche, che hanno già destato
scandalo negli Stati Uniti specie per i danni psichici inflitti ai
minori, tanto da essere bandite dalla California.
Ci chiediamo se non sia il caso che ministero della Salute, quello
dell’Istruzione e l’ordine degli psicologi indaghino sulla questione.
Tutte idee che si nutrono, vale la pena
di ricordarlo, anche di pregiudizi religiosi. E che ne rappresentano
una versione ora più presentabile. Non è un caso l’accanimento delle
gerarchie religiose. Ancora due giorni fa Benedetto XVI
ha per l’ennesima volta criticato, oltre all’ateismo e alla cultura dei
diritti, proprio “filosofie come quella del gender”. Con espressioni
solo più edulcorate e vaghe rispetto a quelle maldestramente esposte
dall’insegnante veneziano.
Il direttore dell’istituto balzato agli onori della cronaca, Rocco Fiano, prende le distanze
dall’incauto docente. In una nota spiega: “parole decisamente infelici,
talvolta decisamente inaccettabili, specie per l’uso di citazioni fuori
contesto, suscettibili di interpretazioni che possono ferire chi
ascolta”. “Affermazioni che si presentano come scientifiche”, aggiunge,
“ma che ben poco supporto possono offrire in tal senso”. Temi così
delicati, continua, “non possono essere affrontati in modo
semplicistico, ma esigono di essere discussi in un clima sereno e
rispettoso”.
Non siamo comunque stupiti per le uscite del professore di religione. Perché sta impartendo, come è tenuto a fare, un insegnamento conforme alla dottrina della Chiesa in materia di omosessualità.
Senza contare che in qualità di insegnante di religione cattolica viene
scelto a insindacabile giudizio del vescovo. A non rigar dritto ci
paiono casomai i professori più aperti, quelli che si rifiutano di
impartire insegnamenti antiquati e diseducativi o non si adeguano alle
stringenti direttive episcopali anche nei comportamenti personali. Come Aniello D’Angelo, che aveva chiesto la riduzione allo stato laicale protestando su Facebook. O Genesio Petrucci, omosessuale che giustificava l’uso del preservativo. Per citare alcuni di quelli cui la curia ha rimosso dall’incarico.
Non mancano, sul fronte opposto, casi
di professori di religione che durante le elezioni diffondono idee
omofobe e intolleranti, come avvenuto a Ravenna.
Siamo sicuri che una parte non indifferente degli insegnanti di Irc non
sia oggi così retriva. E che anzi sia anche più avanti rispetto alle
gerarchie religiose. Ma è costretta giocoforza a piegarsi ai desiderata dei
vescovi, che ne hanno in mano la conferma o meno dell’idoneità. Certi
episodi si ripercuotono però su tutta la categoria ed evidenziano un
pesante problema di aggiornamento educativo.
I
genitori dovrebbero dal canto loro interrogarsi sull’educazione che
ricevono i figli, soprattutto in tenerà età, quando non hanno la forza
di protestare pubblicamente. Quale insegnamento si può trarre dai
concetti di eterne punizioni infernali, di possessioni demoniache, della
superstizione, dell’intercessione a enti sovrannaturali a scapito della
responsabilizzazione individuale, dello sviluppo della coscienza
critica e del senso civico, della razionalità e della solidarietà?
Di fronte a episodi del genere, i ragazzi e i genitori possono scegliere. Scegliere di non frequentare o non far frequentare l’ora di religione ai propri figli. Grazie anche all’azione legale dell’Uaar, l’ora alternativa
all’Irc deve essere garantita per legge da tutte le scuole pubbliche.
Proprio da oggi 21 gennaio si aprono le iscrizioni per l’anno scolastico
2013/2014, da effettuare on line seguendo le indicazioni.
Nell’iscrizione online, di fronte alla “Scelta relativa
all’insegnamento della religione cattolica/attività alternative”, l’Uaar
invita a optare per queste ultime che, viene precisato, “saranno
comunicate dalla scuola all’avvio dell’anno scolastico”. Chi invece non è
un fase di passaggio ad un nuovo istituto scolastico può consegnare in
segreteria gli specifici moduli per non frequentare più l’insegnamento della religione cattolica e optare per l’alternativa preferita.
La nostra associazione auspica
l’abolizione definitiva dell’Irc ed è al fianco degli studenti e dei
genitori che chiedono una scuola più laica e all’avanguardia. Inoltre,
fornisce consigli per chiarire dubbi
ed eventuale assistenza per l’ora alternativa. Molti cittadini italiani
ne hanno già approfittato: in caso di difficoltà, fatelo anche voi.
UAAR
Per completezza di informazione riportiamo la trascrizione del trattatello del professore di religione che ha fatto scoppiare la polemica.
Per completezza di informazione riportiamo la trascrizione del trattatello del professore di religione che ha fatto scoppiare la polemica.
Libertà di ragioneOmosessualità ≠ da ideologia gayCultura “gender”
Secondo questa ideologia, il genere non coincide più con il sesso biologico, ma con il ruolo che ognuno si sente di assumere (“orientamento sessuale”). Non c’è nulla di originario, di “dato” naturale, nella differenza tra uomo e donna, quindi tutto può e deve essere cambiato.
C’è l’idea che la famiglia sia una mera creazione culturale del cristianesimo. È una tesi dell’800. Ne L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato, F. Engels (1820-1895) scrive:
“In un vecchio manoscritto mai pubblicato da Marx e da me nel 1846, ho trovato queste parole: ‘La prima divisione del lavoro è quella tra uomo e donna per la riproduzione dei bambini’. Oggi posso aggiungere: la prima opposizione di classe che appare nella storia coincide con lo sviluppo dell’antagonismo uomo-donna nel matrimonio monogamico, e la prima oppressione di classe coincide con quella fatta dall’uomo sul sesso femminile”.
Chi ha deciso che un omosessuale (vi dà fastidio il termine? E. Io… lo… dico O-mo-sess-su-a-le) debba per forza identificarsi con l’ideologia gay e non invece aiutato a mettersi in discussione e a verificare sino in fondo la propria situazione? L’ipotesi che qualcuno nasce omosessuale è stata formulata nel 1897 dal fisico Magnus Hirschfeld (1868-1935). Nessuno fino ad oggi ha scoperto il fondamento genetico dell’omo. Alfred Charles Kinsey (1894-1956) lanciò, nel suo rapporto sull’omosessualità, la bufala del 10% della popolazione con tendenze omosessuali. Allo stato attuale delle ricerche si può parlare in “casi singoli” di una “predisposizione”, ma non di una determinazione genetica comune e irrevocabile.
Nel tempo questa ideologia ha esteso i soggetti da tutelare: gay, lesbiche, bisessuali, transgender, queer (bizzarri), unknow (confusi).
Un NO al matrimonio gay è una discriminazione? Si discrimina quando si trattano diversamente cose uguali. La natura della relazione tra uomo-donna è diversa dalle alter, a meno che non si afferma (ideologia gay, appunto) che la differenza sessuale non abbia più senso e valore.Si può verificare qualcosa della cultura Gender?
Brevità dei legami omosex; si sdogana la pedofilia (che è un orientamento sessuale); in Olanda il partito dei pedofili, “Carità-Libertà-Diversità”, lotta per il diritto dei bambini alla sessualità; spariscono i termini “padre” e “madre” per “genitore A” e “genitore B”, “genitore C”, ecc…; Ci si apre alla “poligamia” (che è un potere unico dei mariti sulle mogli o viceversa); si affidano i bimbi/e alle coppie gay (non basta l’amore per crescere dei bambini/e, servono due personalitù differenti dal punto di vista fisico e psichico); far west della fecondazione artificiale.OMOSESS[UALITA']=ferità dell’identità che affonda le radici in bisogni affettivi inversi (affetto-attenzione-approvazione), sperimenta una diversità indesiderata. È un’elaborazione della psiche di modelli affettivi diversi da quelli verso cui la natura normalmente orienta, una tendenza del tutto reversibile.
martedì 22 gennaio 2013
Al funerale di Gallinari la generazione «più infelice e più cara»
Hanno detto di lui che era un rivoluzionario d'altri tempi. Per via della continuità con la tradizione comunista insurrezionalista, coltivata a Reggio Emilia, la sua città (però lui abitava nel contado). Hanno detto che era stalinista e che non avrebbe esitato a far fuori un sovversivo tipo '77, presumibilmente «creativo» e fricchettone oppure sostenitore dell'operaio sociale e del non-lavoro, se gliel'avessero chiesto. Sicuri? Qualcuno davvero gli ha fatto domande su questi argomenti, prima, durante e dopo la sua avventura con le Br? Soprattutto durante. Perché è innegabile la sua crescita politica all'ombra delle grandi narrazioni resistenziali e comuniste, ma è anche innegabile il suo ingresso nella lotta rivoluzionaria armata nel crogiuolo delle nuove lotte e delle nuove culture sessantottesche e oltre.
Prospero Gallinari deve aver contattato tanti generi di persone dopo il '68. E quel che è certo è che senza la grande ondata di quegli anni, senza le sfaccettature, con tante impronte libertarie ben visibili, di quegli anni, non gli sarebbe venuto in mente di colpire, armi in pugno, il «cuore dello stato». Adesso è qui, in una bara avvolta in un drappo rosso con falce e martello. Tra qualche giorno sarà in un'urna di ceneri che non saranno disperse al vento come quelle del padre dell'operaio edile di Riff Raff di Ken Loach, ma tumulate nella tomba di famiglia. Nel cimitero di Coviolo, frazione di Reggio, il rito dell'ultimo saluto è sì, forse, di quelli d'altri tempi. Come quando si accompagnavano i morti di Reggio Emilia nel 1960, quelli che Fausto Amodei chiamava a «uscire dalla fossa», e i morti giovani, di anni dopo, gli anni dell'Orda d'oro, come l'hanno intitolata Nanni Balestrini e Primo Moroni, studenti del Ms come Roberto Franceschi, anarchici come Franco Serantini. Saluto a pugno chiuso. Ebbene sì. Si può persino essere imbarazzati, si può pensare che va evitata ogni retorica. Ma volevate non esserci a questo funerale di un combattente per la rivoluzione? Volevate risparmiare quelle lacrime che inevitabilmente a un certo punto vi scendono lungo le gote? Succede, per esempio, quando uno dei suoi compagni legge un ricordo collettivo: «... ti rasserenava al termine di ogni discussione... la sensazione di aver ricevuto qualcosa e la convinzione che il Gallo avesse preso qualcosa...». È un convegno brigatista questa cerimonia così fervida e così laica? Ce ne sono tanti dei compagni d'arme (e stavolta non è un modo di dire) di Gallinari, anche quelli che si trovarono in dissenso con lui. Curcio, Balzerani, Senzani, Fiore, Seghetti. Storie e destini diversi dai suoi, qualcuno più tormentato rispetto a lui che, semplicemente, nel 1988 aveva firmato un documento in cui si riconosceva finita e sconfitta la lotta armata. E dopo aveva vissuto sereno, per quel che può esserlo un uomo mitragliato alla testa e scampato a vari infarti. Ma c'è tanta gente qui al cimitero di Coviolo. Almeno un migliaio di persone. Non tutti ex brigatisti. Ci sono vecchi e giovani, amici del posto, ragazzi dei centri sociali, militanti della sinistra senza paraocchi venuti da vicino e da lontano. Solo un piccolo striscione rosso: «La rivoluzione è un fiore che non muore». Clima teso, tremendo, come in Germania in autunno, ultimo episodio di quel film a dieci firme, Fassbinder, SchlSchlöndorff, Kluge, Reitz tra gli altri, i funerali di Andreas Baader, Gudrun Ensslin e Irmgard Möller, i tre «suicidi» di Stammeim? Ma no. Gli agenti della Digos si tengono a distanza, gironzolano, occhieggiano. Gli amici e i compagni di Prospero si raccolgono tranquilli e commossi a commemorarlo. Ognuno a modo suo, chi in forma epigrammatica chi con piccoli comizi. Tonino Paroli: «Non chiamateci terroristi, non lo siamo mai stati». Oreste Scalzone: «Prospero sentiva l'appartenenza ma non come un Rodomonte». Sante Notarnicola: «Vorrei ricordare la generazione degli anni '50 e '60, la più pura, la più infelice, la più cara». Facce segnate dal tempo e da delusioni cocenti? Se si vuole, sì. Ma dove non si trovano in giro per le città? Per un amore perduto, per un flirt finito male. E la rivoluzione è un amore grande, un flirt potentissimo. Sempre a cercare, noi, che finisca meglio. Mario Gamba il manifesto
Prospero Gallinari deve aver contattato tanti generi di persone dopo il '68. E quel che è certo è che senza la grande ondata di quegli anni, senza le sfaccettature, con tante impronte libertarie ben visibili, di quegli anni, non gli sarebbe venuto in mente di colpire, armi in pugno, il «cuore dello stato». Adesso è qui, in una bara avvolta in un drappo rosso con falce e martello. Tra qualche giorno sarà in un'urna di ceneri che non saranno disperse al vento come quelle del padre dell'operaio edile di Riff Raff di Ken Loach, ma tumulate nella tomba di famiglia. Nel cimitero di Coviolo, frazione di Reggio, il rito dell'ultimo saluto è sì, forse, di quelli d'altri tempi. Come quando si accompagnavano i morti di Reggio Emilia nel 1960, quelli che Fausto Amodei chiamava a «uscire dalla fossa», e i morti giovani, di anni dopo, gli anni dell'Orda d'oro, come l'hanno intitolata Nanni Balestrini e Primo Moroni, studenti del Ms come Roberto Franceschi, anarchici come Franco Serantini. Saluto a pugno chiuso. Ebbene sì. Si può persino essere imbarazzati, si può pensare che va evitata ogni retorica. Ma volevate non esserci a questo funerale di un combattente per la rivoluzione? Volevate risparmiare quelle lacrime che inevitabilmente a un certo punto vi scendono lungo le gote? Succede, per esempio, quando uno dei suoi compagni legge un ricordo collettivo: «... ti rasserenava al termine di ogni discussione... la sensazione di aver ricevuto qualcosa e la convinzione che il Gallo avesse preso qualcosa...». È un convegno brigatista questa cerimonia così fervida e così laica? Ce ne sono tanti dei compagni d'arme (e stavolta non è un modo di dire) di Gallinari, anche quelli che si trovarono in dissenso con lui. Curcio, Balzerani, Senzani, Fiore, Seghetti. Storie e destini diversi dai suoi, qualcuno più tormentato rispetto a lui che, semplicemente, nel 1988 aveva firmato un documento in cui si riconosceva finita e sconfitta la lotta armata. E dopo aveva vissuto sereno, per quel che può esserlo un uomo mitragliato alla testa e scampato a vari infarti. Ma c'è tanta gente qui al cimitero di Coviolo. Almeno un migliaio di persone. Non tutti ex brigatisti. Ci sono vecchi e giovani, amici del posto, ragazzi dei centri sociali, militanti della sinistra senza paraocchi venuti da vicino e da lontano. Solo un piccolo striscione rosso: «La rivoluzione è un fiore che non muore». Clima teso, tremendo, come in Germania in autunno, ultimo episodio di quel film a dieci firme, Fassbinder, SchlSchlöndorff, Kluge, Reitz tra gli altri, i funerali di Andreas Baader, Gudrun Ensslin e Irmgard Möller, i tre «suicidi» di Stammeim? Ma no. Gli agenti della Digos si tengono a distanza, gironzolano, occhieggiano. Gli amici e i compagni di Prospero si raccolgono tranquilli e commossi a commemorarlo. Ognuno a modo suo, chi in forma epigrammatica chi con piccoli comizi. Tonino Paroli: «Non chiamateci terroristi, non lo siamo mai stati». Oreste Scalzone: «Prospero sentiva l'appartenenza ma non come un Rodomonte». Sante Notarnicola: «Vorrei ricordare la generazione degli anni '50 e '60, la più pura, la più infelice, la più cara». Facce segnate dal tempo e da delusioni cocenti? Se si vuole, sì. Ma dove non si trovano in giro per le città? Per un amore perduto, per un flirt finito male. E la rivoluzione è un amore grande, un flirt potentissimo. Sempre a cercare, noi, che finisca meglio. Mario Gamba il manifesto
lunedì 21 gennaio 2013
Democrazia scolastica: l’U.S.R. del Veneto ritiene invariato il compito deliberativo del Collegio docenti rispetto al Piano delle attività
Il decreto legislativo 294 del
1997, Testo Unico delle disposizioni
legislative in materia di istruzione, all’art. 7 comma 2 recita:
Il
collegio dei docenti:
a) ha potere deliberante in materia di funzionamento
didattico del circolo o dell’istituto. In particolare cura la programmazione dell’azione educativa anche
al fine di adeguare, nell’ambito degli ordinamenti della scuola stabiliti dallo
Stato, i programmi di insegnamento alle specifiche esigenze ambientali e di
favorire il coordinamento interdisciplinare. Esso
esercita tale potere nel rispetto della libertà di insegnamento garantita a
ciascun docente;
b)
formula proposte al direttore didattico o al
preside per la formazione, la composizione delle classi e l’assegnazione
ad esse dei docenti, per la formulazione
dell’orario delle lezioni e per lo svolgimento delle altre attività
scolastiche, tenuto conto dei criteri generali indicati dal consiglio di
circolo o d’istituto.
Inoltre il
CCNL firmato nel 2007 per il personale della scuola all’art. 28 comma 4
recita:
Gli obblighi di lavoro del personale
docente sono articolati in attività di insegnamento ed in attività funzionali
alla prestazione di insegnamento. Prima dell’inizio
delle lezioni, il dirigente scolastico predispone, sulla base delle eventuali
proposte degli organi collegiali, il piano annuale delle attività e i conseguenti impegni del
personale docente, che sono conferiti in forma scritta e che possono prevedere
attività aggiuntive. Il piano, comprensivo
degli impegni di lavoro, è deliberato dal collegio dei docenti nel quadro della
programmazione dell’azione didattico-educativa e con la stessa procedura
è modificato, nel corso dell’anno scolastico, per far fronte a nuove esigenze.
Di tale piano è data informazione alle OO.SS. di cui all’art.
7.
I due testi
coordinati non dovrebbero lasciar dubbi sul come dovrebbe agire un D.S.
all’inizio di ogni nuovo anno scolastico: sulla base delle proposte degli organi collegiali, in
particolare del Collegio dei Docenti, predispone il piano delle attività e lo fa
deliberare dal Collegio stesso; con la
stessa procedura modifica il piano nel corso dell’anno scolastico, per far
fronte a nuove esigenze.
All’inizio
dell’attuale anno scolastico alcuni dirigenti scolastici della provincia di
Padova (che per lo più si riconoscono nell’A.N.P., Associazione Nazionale
Presidi) decidono che questa normativa non debba
essere più ritenuta valida, in
quanto, interpretando in senso restrittivo
il testo del decreto legislativo 150, il
piano delle attività farebbe parte dell’Organizzazione del lavoro solamente a
loro deputata.
Questi
dirigenti decidono quindi di ignorare il CCNL firmato nel 2007 (e decretato pienamente valido con dichiarazione congiunta
Miur – sindacati, lo scorso agosto), considerandolo scomodo e superato in alcuni suoi aspetti
dalla legge Brunetta, e, in una ricerca di
totale autonomia gestionale per quanto riguarda l’aspetto organizzativo del
lavoro del personale scolastico, non
riconoscono nemmeno la validità dell’articolo 16 comma 2 del D.P.R. 275 del
1999 (Regolamento dell’autonomia delle
istituzioni scolastiche) che prevede “Il dirigente scolastico esercita le funzioni di cui al
decreto legislativo 6 marzo 1998, n. 59, nel rispetto delle competenze degli
organi collegiali”.
A poco
valgono i tentativi dei Collegi dei Docenti di opporsi a queste
decisioni; in diverse istituzioni
scolastiche i D.S. non recedono e non fanno approvare i piani delle
attività, ma si limitano a comunicarne la
stesura da loro approntata.
Il 12
novembre 2012 i Cobas della Scuola decidono di rivolgersi al Dirigente
dell’Ufficio Scolastico Territoriale di Padova, dott. Jacolino, per
segnalare l’illegittimità della situazione, richiedendo un suo intervento in
proposito.
Jacolino, ritenendo
fondate le osservazioni dell’O.S. che
sottolineano come il piano delle attività si muova in un’ottica di
programmazione dell’azione didattico – educativa e non di organizzazione del
personale, interviene con i dirigenti
scolastici chiedendo il rispetto della normativa vigente; inoltre garantisce che si attiverà per “verificare con la direzione generale un eventuale
passaggio istituzionale per l’emanazione di una linea guida in favore di
tutte le istituzioni scolastiche”.
In data 15
gennaio 2013, con nota Prot. MIUR.AOODRVE.UFF.I. n.621/C1, la dott. Miola, Vice
Direttore Generale dell’Ufficio Scolastico Regionale del Veneto, interviene sull’argomento chiarendo
che:
- pur ritenendo la materia di particolare delicatezza, si ritiene che, al riguardo, il decreto Brunetta non sia intervenuto nelle attribuzioni del Collegio dei docenti relative al Piano annuale delle attività.
- Il Piano annuale delle attività si configura come documento che regola gli aspetti organizzativi e didattici dell’istituto scolastico e non semplicemente l’organizzazione razionale delle risorse umane.
- La ratio del d.lgs 150/09, relativamente ai compiti del Dirigente, deve conciliare con una lettura sistematica della normativa vigente che non attribuisce al Dirigente scolastico il potere di compiere un atto unilaterale nell’elaborazione del Piano annuale delle attività. Il Dirigente scolastico, inoltre, deve operare nel rispetto delle competenze degli organi Collegiali, così come stabilito ex art. 16 del DPR 275/99 nonché “predisporre sulla base delle eventuali proposte degli organi collegiali, il piano annuale delle attività (omissis) deliberato dal collegio dei docenti” ex art 28 comma 4 CCNL.
- Si ritiene quindi invariato il compito deliberativo del Collegio docenti rispetto al Piano delle attività secondo quanto indicato dalla predetta normativa e come ribadito dall’art. 7 del d.lgs 297/94 intitolato “Collegio docenti”.
Una
(piccola) lezione di democrazia a chi ritiene che
la scuola debba essere governata come un’azienda, per di più calpestando le leggi dello stato e la
contrattazione nazionale vigente.
Un segnale
da inviare anche a chi, con la proposta di
legge 953 ex Aprea, avrebbe voluto
accrescere il potere dei dirigenti scolastici a scapito degli organi
collegiali
di Carlo
Salmaso
Scarica qui il testo della nota
L'eresia di Gallinari tra tabù e mediocrità
di Daniele Codeluppi, Laboratorio aq16 di Reggio emilia, 28 gennaio 2013,
A dieci giorni dal funerale di Prospero Gallinari volevo prendere parola in merito allo sciame sismico di prese di posizioni, condanne e sciacallaggi elettorali. Avrei potuto prendere parola ed entrare nel polpettone del botta e risposta ma ho voluto rispettare il lutto e il dolore degli amici che piangevano la scomparsa di Prospero evitando di scendere al livello becero delle polemiche locali e nazionali di questi giorni. Meglio far passare la febbre e prendere parola oggi, preferisco così. Partiamo dal nodo che pare abbia interessato maggiormente, il rapporto di Aq16 con Gallinari. Prospero era un conoscente, lo si vedeva spesso passeggiare nelle sue ore di libertà, due battute in piazza Casotti e poco più, non eravamo amici intimi. Prospero a nostra memoria è passato al centro sociale un paio di volte, ad un dibattito sul movimento zapatista a fine anni novanta e sabato 12 gennaio di quest’anno, durante una cena sociale partecipata da un centinaio di persone, cena dove ho scattato la foto pubblicata suglobalproject.info e dove lo si vede con una bottiglia di lambrusco in mano.
Lo dico per essere limpido e riportare tutto su un piano di realtà, dico però anche che un’amicizia più stretta o una frequentazione maggiore non mi avrebbe di certo imbarazzato. Nel comunicato di Aq16 di lunedì 14 si esprimeva cordoglio per la morte di una persona che piaccia o meno è stato un protagonista della storia d’Italia e che ha mostrato durante tutto il suo trascorso politico coerenza e fermezza, qualità che nella classe politica italiana non se ne vede da un bel pezzo. Forse è per questo che una mitragliata in testa, 3 ergastoli, un cuore a pezzi ed infine la morte non sono bastati a Prospero per essere considerato un essere umano degno di un commiato da parte di coloro che in vita gli hanno voluto bene.
Lo dico per essere limpido e riportare tutto su un piano di realtà, dico però anche che un’amicizia più stretta o una frequentazione maggiore non mi avrebbe di certo imbarazzato. Nel comunicato di Aq16 di lunedì 14 si esprimeva cordoglio per la morte di una persona che piaccia o meno è stato un protagonista della storia d’Italia e che ha mostrato durante tutto il suo trascorso politico coerenza e fermezza, qualità che nella classe politica italiana non se ne vede da un bel pezzo. Forse è per questo che una mitragliata in testa, 3 ergastoli, un cuore a pezzi ed infine la morte non sono bastati a Prospero per essere considerato un essere umano degno di un commiato da parte di coloro che in vita gli hanno voluto bene.
Gallinari l'eretico
Prospero era un eretico, e per gli eretici la santa inquisizione non si accontenta delle fiamme purificatrici. Le fiamme sono per le carni, per lo spirito serve l’atto di abiura. Prospero non ha mai abiurato, domando: è questo il vero problema che fa imbestialire? Averlo piegato nel fisico ma non nello spirito? Prospero si diceva serbasse chissà quali segreti scottanti; secondo voi chi ha segreti davvero scottanti passa gli ultimi anni della sua vita in un quartiere popolare costretto ai lavori forzati? Non scherziamo, in Italia chi ha segreti scomodi viene fatto fuori o coperto di ricchezze.
Il giornalismo si sa è costretto a fare sintesi, in questi giorni però si è fatto un gran brutto giornalismo ed una brutta politica, il tutto ridotto alla conta dei morti delle Brigate rosse, chi ha chiesto perdono e chi no, chi aveva titoli per parlare di quelle storie e chi no e la pietosa condanna dell’aver tramutato il funerale in un evento politico. Penso che quando muore un personaggio molto famoso sia inevitabile che il piano privato passi in secondo piano, tanto più quando chi muore è un personaggio molto discusso della storia. Tutto il resto rimane ascrivibile al normale commiato ad un uomo comunista: l’internazionale, il ricordo dei suoi ex compagni di organizzazione e i pugni chiusi sono cose normali in un contesto così. Oggi suona retrò ragionandolo nel senso comune, ma poi neanche tanto se pensiamo che il presidente della repubblica Napolitano in gioventù l’internazionale lo ha cantato ed il pugno chiuso lo fanno anche i fans dei Modena City Ramblers.
Prospero era un eretico, e per gli eretici la santa inquisizione non si accontenta delle fiamme purificatrici. Le fiamme sono per le carni, per lo spirito serve l’atto di abiura. Prospero non ha mai abiurato, domando: è questo il vero problema che fa imbestialire? Averlo piegato nel fisico ma non nello spirito? Prospero si diceva serbasse chissà quali segreti scottanti; secondo voi chi ha segreti davvero scottanti passa gli ultimi anni della sua vita in un quartiere popolare costretto ai lavori forzati? Non scherziamo, in Italia chi ha segreti scomodi viene fatto fuori o coperto di ricchezze.
Il giornalismo si sa è costretto a fare sintesi, in questi giorni però si è fatto un gran brutto giornalismo ed una brutta politica, il tutto ridotto alla conta dei morti delle Brigate rosse, chi ha chiesto perdono e chi no, chi aveva titoli per parlare di quelle storie e chi no e la pietosa condanna dell’aver tramutato il funerale in un evento politico. Penso che quando muore un personaggio molto famoso sia inevitabile che il piano privato passi in secondo piano, tanto più quando chi muore è un personaggio molto discusso della storia. Tutto il resto rimane ascrivibile al normale commiato ad un uomo comunista: l’internazionale, il ricordo dei suoi ex compagni di organizzazione e i pugni chiusi sono cose normali in un contesto così. Oggi suona retrò ragionandolo nel senso comune, ma poi neanche tanto se pensiamo che il presidente della repubblica Napolitano in gioventù l’internazionale lo ha cantato ed il pugno chiuso lo fanno anche i fans dei Modena City Ramblers.
Giudizio politico?
Visto che ci sono entro anche nel merito del presunto giudizio politico che qualcuno o qualcosa doveva esprimere su Gallinari, come se il soggetto già non fosse stato giudicato colpevole dai tribunali italiani, dalla società e dalla storia scritta da chi lo ha sconfitto. Pare, leggendo dichiarazioni uscite in questi giorni, che Aq16, in veste di rappresentante dei movimenti di contestazione odierni, con il comunicato dichiarava la raccolta dell’eredità politica del brigatismo rosso, domanda: ma qualcuno tra i politici, amministratori e giornalisti che hanno chiosato in questi giorni ha letto il comunicato targato Aq16 di lunedì 14?
A giudicare dalle mirabolanti esternazioni pare di no. A leggerlo si fa ancora in tempo. Comunque tornando sul giudizio politico, penso che è monco se lo si dà a determinate azioni estrapolandole dal contesto perchè questo meccanismo è la base di tutti i revisionismi storici. Come chiedere se tagliare la testa a Maria Antonietta fu un atto giusto o meno, senza comprendere il momento storico in cui si dette quella determinata azione. Nella decade dei 60 e 70 intere macroregioni mondiali si stavano liberando dal giogo del colonialismo e delle dittature con la lotta armata, basti pensare all’Africa, al Vietnam, a Cuba. Pochi furono i paesi dove la transizione fu ottenuta con mezzi pacifici come in Portogallo ed in India. Dappertutto fiorivano guerriglie e intere generazioni di giovani imbracciavano il fucile.
Fu in questo contesto globale che anche in Italia nacque l’opzione armata. Il giudizio a posteriori semplicemente lo da l’esito della storia: Ernesto Che Guevara che vinse (uccidendo i suoi nemici) rimase uno dei simboli della lotta contro l’ingiustizia nel mondo per svariate generazioni future tanto da divenire un icona pop, Gallinari e soci che persero (uccidendo i loro nemici) rimangono per la storia ed il giudizio popolare dei pericolosi terroristi.
Gallinari ha quindi sbagliato dal punto di vista rivoluzionario perché non è riuscito nel compito e per lo Stato borghese uscito vincitore ha sbagliato perché ha commesso dei crimini nel tentativo di rovesciarlo. Chi perde paga, Prospero ha riconosciuto la sconfitta ed è stato condannato, lo repubblica italiana invece per le stragi di Stato no. Chi è davvero uscito vincitore dagli anni ’70? Risposta scontata.
Visto che ci sono entro anche nel merito del presunto giudizio politico che qualcuno o qualcosa doveva esprimere su Gallinari, come se il soggetto già non fosse stato giudicato colpevole dai tribunali italiani, dalla società e dalla storia scritta da chi lo ha sconfitto. Pare, leggendo dichiarazioni uscite in questi giorni, che Aq16, in veste di rappresentante dei movimenti di contestazione odierni, con il comunicato dichiarava la raccolta dell’eredità politica del brigatismo rosso, domanda: ma qualcuno tra i politici, amministratori e giornalisti che hanno chiosato in questi giorni ha letto il comunicato targato Aq16 di lunedì 14?
A giudicare dalle mirabolanti esternazioni pare di no. A leggerlo si fa ancora in tempo. Comunque tornando sul giudizio politico, penso che è monco se lo si dà a determinate azioni estrapolandole dal contesto perchè questo meccanismo è la base di tutti i revisionismi storici. Come chiedere se tagliare la testa a Maria Antonietta fu un atto giusto o meno, senza comprendere il momento storico in cui si dette quella determinata azione. Nella decade dei 60 e 70 intere macroregioni mondiali si stavano liberando dal giogo del colonialismo e delle dittature con la lotta armata, basti pensare all’Africa, al Vietnam, a Cuba. Pochi furono i paesi dove la transizione fu ottenuta con mezzi pacifici come in Portogallo ed in India. Dappertutto fiorivano guerriglie e intere generazioni di giovani imbracciavano il fucile.
Fu in questo contesto globale che anche in Italia nacque l’opzione armata. Il giudizio a posteriori semplicemente lo da l’esito della storia: Ernesto Che Guevara che vinse (uccidendo i suoi nemici) rimase uno dei simboli della lotta contro l’ingiustizia nel mondo per svariate generazioni future tanto da divenire un icona pop, Gallinari e soci che persero (uccidendo i loro nemici) rimangono per la storia ed il giudizio popolare dei pericolosi terroristi.
Gallinari ha quindi sbagliato dal punto di vista rivoluzionario perché non è riuscito nel compito e per lo Stato borghese uscito vincitore ha sbagliato perché ha commesso dei crimini nel tentativo di rovesciarlo. Chi perde paga, Prospero ha riconosciuto la sconfitta ed è stato condannato, lo repubblica italiana invece per le stragi di Stato no. Chi è davvero uscito vincitore dagli anni ’70? Risposta scontata.
Centri sociali e brigate rosse? Ma dove!
Faccio un po’ di chiarezza nel marasma ignorante di storia che gli esponenti di spicco della politica e cultura reggiana hanno creato, i centri sociali di oggi non nascono dalle Brigate rosse, è un'altra storia, non è la nostra storia, se proprio vogliamo sintetizzare e trovare padrini politici nel nostro album di famiglia i centri sociali provengono dai movimenti autonomi del ’77, che a Reggio non erano presenti. La lotta armata italiana invece nasce da un contesto sociale ed operaio scaturito negli anni ’60 con le tensioni dopo le rivolte di piazza Statuto a Torino, l’immigrazione meridionale nelle fabbriche del nord, la vita durissima dell’operaio massa nelle catene di montaggio. Questo contesto, unito con l’esplosione culturale del ’68, crea nel binomio operai/studenti un mix esplosivo che in Italia e nel mondo occidentale industrializzato cambia i costumi e i desideri di milioni di persone… questo desiderio aveva un nome “Rivoluzione”.
Dopo il ‘68 viene l’autunno caldo alla Fiat, il PCI incapace di leggere la portata storica di questo movimento, la reazione bombarola fascista, la strategia della tensione e la scelta di molti rivoluzionari, tra cui Prospero, di praticare la lotta armata per instaurare in Italia un regime socialista di stampo marxista… come si era fatto a Cuba, poi in Nicaragua e come lo si stava provando a fare un po’ dappertutto, consapevoli che la strada riformista in stile cileno era stata violentemente arrestata. Erano anni in cui nel mondo la strada per il cambiamento sociale passava anche per la canna di un fucile, soffermarci solo sul fatto che i brigatisti hanno ucciso tante persone non serve a capire la storia, ci si ferma sull’espressione di un fenomeno senza capirlo. Tutto il resto è storia: l’escalation omicida, i processi, gli ergastoli, la marcia dei quarantamila, una generazione di comunisti rivoluzionari sconfitti, l’inquisizione per tutto il movimento dell’opposizione sociale, l’inizio della contrazione del contropotere sindacale, il contesto mondiale in piena guerra fredda. Come è storia degli anni ’70 anche il salario medio degli operai che in dieci anni si raddoppia, lo statuto dei lavoratori, le lotte e le conquiste femministe e il diritto all’aborto, l’istruzione gratuita di massa, il welfare, la produzione culturale italiana nel suo maggior apice.
Non è facile parlare degli anni ’70 perché sono molte storie, un periodo densissimo e ricchissimo. Ridurlo alla misera definizione di “anni di piombo” è stupido e fa il gioco di chi della storia d’Italia e dei movimenti preferisce che non si sappia niente, producendo di fatto una generazione di italiani senza futuro e senza memoria storica, con la convinzione che in Italia in un periodo storico indefinito c’erano dei “terroristi” venuti da chissà quale incubo che uccidevano a caso delle brave persone. Anche perché se proprio vogliamo parlare seriamente di morti ammazzati, vale la pena ricordare che la storia italiana gronda sangue, un mare in cui le Br sono solo un puntino. Pochi esempi a memoria: il Risorgimento, l’uccisone dei soldati dell’esercito borbonico, la fame nelle campagne del regno, i 600.000 mila della grande guerra morti per dare un significato alla parola patria e nazione, il fascismo, le colonie, la campagna di Russia, la Resistenza, Portella delle Ginestre, i morti di Reggio Emilia, i morti sul lavoro, le donne morte perché abortivano clandestinamente, i morti di Eternit e di inquinamento ambientale… potremmo saltare anche oltre gli anni ’70: la morte della cultura popolare grazie alla tv commerciale privata, le droghe pesanti utilizzate per sedare gli animi ribelli dei quartieri popolari, le stragi mafiose, gli intrecci stato/mafia, tangentopoli, l’epoca del Berlusca, la donna oggetto, la corruzione, la dismissione dei servizi pubblici, la speculazione edilizia… a chi dovremmo imputare questo disastro, a Napolitano, ma siamo seri! La responsabilità della storia di un paese la fanno milioni di persone.
Raccontare degli anni ’70 non spetterebbe ai “centri sociali” nati a cavallo tra anni Ottanta e Novanta come risposta giovanile di rifiuto dell’eroina, del ghetto, dell’individualismo imperante, delle tv private e del berlusconismo rampante.Parlare di quegli anni tocca a chi quegli anni li ha vissuti da militante. Noi abbiamo certamente opinioni su quel periodo, abbiamo letto e ci siamo documentati da soli, perché se aspettavamo l’insegnamento dei politici di sinistra reggiani ci accontentavamo della storiella… “al massimo quattro teste calde che giocavano alla rivoluzione e poi si sono inguaiati”. Abbiamo opinioni certo, ma non esprimiamo giudizi, non tocca a noi dare giudizi, né su Prospero Gallinari, né su quegli anni. Noi i giudizi secchi li serbiamo per quello che riguarda la nostra vita e la nostra esperienza: sulle botte che ci ha riservato lo Stato italiano a Genova nel 2001, sulla politica italiana ed europea che ci condanna alla precarietà ed a un futuro senza welfare, alla rapina di Stato che tramite equitalia ci toglie la dignità, ad un ordinamento giuridico classista molto preciso nel condannare le nostre pratiche di occupazione e di espressione politica e invece totalmente assente per regolare speculazione finanziaria e sfruttamento lavorativo. Queste sono le cose oggetto del nostro giudizio e che esprimiamo politicamente attraverso l’autorganizzazione e l’autogestione di un centro sociale.
Tornando a quegli anni, Prospero Gallinari lo hanno frequentato in tanti prima che facesse le scelte che sappiamo, “l’appartamento” era frequentatissimo di giovani della sinistra reggiana di quei tempi, in molti poi hanno fatto carriera, chi nel PCI, chi nel sindacato. Nel vuoto di contenuti di questi giorni apprezziamo la presa di parola all’indomani della morte di Prospero di persone che in quegli anni c’erano ed erano schierati chi dall’altra parte nella DC e chi nell’appartamento.
Perché questa città non fa i conti con il suo passato? Perché appena si esce dalle righe gli amministratori ricorrono alla retorica del clima anni ’70, ricorrendo a stratagemmi dialettici ignobili del tipo “anche le BR cominciarono così”?
Non si può accollare la responsabilità storica di un dato periodo a chi è nato 30 anni dopo, perché 30 anni dopo ci sono altre cose, altre storie, altri uomini e altre donne.
La nomenklatura della politica di questa città ha bisogno di fare un po’ di analisi, consigliamo un buon professionista: si chiama coraggio, verità e trasparenza.
Faccio un po’ di chiarezza nel marasma ignorante di storia che gli esponenti di spicco della politica e cultura reggiana hanno creato, i centri sociali di oggi non nascono dalle Brigate rosse, è un'altra storia, non è la nostra storia, se proprio vogliamo sintetizzare e trovare padrini politici nel nostro album di famiglia i centri sociali provengono dai movimenti autonomi del ’77, che a Reggio non erano presenti. La lotta armata italiana invece nasce da un contesto sociale ed operaio scaturito negli anni ’60 con le tensioni dopo le rivolte di piazza Statuto a Torino, l’immigrazione meridionale nelle fabbriche del nord, la vita durissima dell’operaio massa nelle catene di montaggio. Questo contesto, unito con l’esplosione culturale del ’68, crea nel binomio operai/studenti un mix esplosivo che in Italia e nel mondo occidentale industrializzato cambia i costumi e i desideri di milioni di persone… questo desiderio aveva un nome “Rivoluzione”.
Dopo il ‘68 viene l’autunno caldo alla Fiat, il PCI incapace di leggere la portata storica di questo movimento, la reazione bombarola fascista, la strategia della tensione e la scelta di molti rivoluzionari, tra cui Prospero, di praticare la lotta armata per instaurare in Italia un regime socialista di stampo marxista… come si era fatto a Cuba, poi in Nicaragua e come lo si stava provando a fare un po’ dappertutto, consapevoli che la strada riformista in stile cileno era stata violentemente arrestata. Erano anni in cui nel mondo la strada per il cambiamento sociale passava anche per la canna di un fucile, soffermarci solo sul fatto che i brigatisti hanno ucciso tante persone non serve a capire la storia, ci si ferma sull’espressione di un fenomeno senza capirlo. Tutto il resto è storia: l’escalation omicida, i processi, gli ergastoli, la marcia dei quarantamila, una generazione di comunisti rivoluzionari sconfitti, l’inquisizione per tutto il movimento dell’opposizione sociale, l’inizio della contrazione del contropotere sindacale, il contesto mondiale in piena guerra fredda. Come è storia degli anni ’70 anche il salario medio degli operai che in dieci anni si raddoppia, lo statuto dei lavoratori, le lotte e le conquiste femministe e il diritto all’aborto, l’istruzione gratuita di massa, il welfare, la produzione culturale italiana nel suo maggior apice.
Non è facile parlare degli anni ’70 perché sono molte storie, un periodo densissimo e ricchissimo. Ridurlo alla misera definizione di “anni di piombo” è stupido e fa il gioco di chi della storia d’Italia e dei movimenti preferisce che non si sappia niente, producendo di fatto una generazione di italiani senza futuro e senza memoria storica, con la convinzione che in Italia in un periodo storico indefinito c’erano dei “terroristi” venuti da chissà quale incubo che uccidevano a caso delle brave persone. Anche perché se proprio vogliamo parlare seriamente di morti ammazzati, vale la pena ricordare che la storia italiana gronda sangue, un mare in cui le Br sono solo un puntino. Pochi esempi a memoria: il Risorgimento, l’uccisone dei soldati dell’esercito borbonico, la fame nelle campagne del regno, i 600.000 mila della grande guerra morti per dare un significato alla parola patria e nazione, il fascismo, le colonie, la campagna di Russia, la Resistenza, Portella delle Ginestre, i morti di Reggio Emilia, i morti sul lavoro, le donne morte perché abortivano clandestinamente, i morti di Eternit e di inquinamento ambientale… potremmo saltare anche oltre gli anni ’70: la morte della cultura popolare grazie alla tv commerciale privata, le droghe pesanti utilizzate per sedare gli animi ribelli dei quartieri popolari, le stragi mafiose, gli intrecci stato/mafia, tangentopoli, l’epoca del Berlusca, la donna oggetto, la corruzione, la dismissione dei servizi pubblici, la speculazione edilizia… a chi dovremmo imputare questo disastro, a Napolitano, ma siamo seri! La responsabilità della storia di un paese la fanno milioni di persone.
Raccontare degli anni ’70 non spetterebbe ai “centri sociali” nati a cavallo tra anni Ottanta e Novanta come risposta giovanile di rifiuto dell’eroina, del ghetto, dell’individualismo imperante, delle tv private e del berlusconismo rampante.Parlare di quegli anni tocca a chi quegli anni li ha vissuti da militante. Noi abbiamo certamente opinioni su quel periodo, abbiamo letto e ci siamo documentati da soli, perché se aspettavamo l’insegnamento dei politici di sinistra reggiani ci accontentavamo della storiella… “al massimo quattro teste calde che giocavano alla rivoluzione e poi si sono inguaiati”. Abbiamo opinioni certo, ma non esprimiamo giudizi, non tocca a noi dare giudizi, né su Prospero Gallinari, né su quegli anni. Noi i giudizi secchi li serbiamo per quello che riguarda la nostra vita e la nostra esperienza: sulle botte che ci ha riservato lo Stato italiano a Genova nel 2001, sulla politica italiana ed europea che ci condanna alla precarietà ed a un futuro senza welfare, alla rapina di Stato che tramite equitalia ci toglie la dignità, ad un ordinamento giuridico classista molto preciso nel condannare le nostre pratiche di occupazione e di espressione politica e invece totalmente assente per regolare speculazione finanziaria e sfruttamento lavorativo. Queste sono le cose oggetto del nostro giudizio e che esprimiamo politicamente attraverso l’autorganizzazione e l’autogestione di un centro sociale.
Tornando a quegli anni, Prospero Gallinari lo hanno frequentato in tanti prima che facesse le scelte che sappiamo, “l’appartamento” era frequentatissimo di giovani della sinistra reggiana di quei tempi, in molti poi hanno fatto carriera, chi nel PCI, chi nel sindacato. Nel vuoto di contenuti di questi giorni apprezziamo la presa di parola all’indomani della morte di Prospero di persone che in quegli anni c’erano ed erano schierati chi dall’altra parte nella DC e chi nell’appartamento.
Perché questa città non fa i conti con il suo passato? Perché appena si esce dalle righe gli amministratori ricorrono alla retorica del clima anni ’70, ricorrendo a stratagemmi dialettici ignobili del tipo “anche le BR cominciarono così”?
Non si può accollare la responsabilità storica di un dato periodo a chi è nato 30 anni dopo, perché 30 anni dopo ci sono altre cose, altre storie, altri uomini e altre donne.
La nomenklatura della politica di questa città ha bisogno di fare un po’ di analisi, consigliamo un buon professionista: si chiama coraggio, verità e trasparenza.