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Un’invasione di campo: la didattica e le metodologie della scuola del PNRR –

 In questa prima parte dedicata all’analisi del recente Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) – Missione istruzione e ricerca – e alle Linee programmatiche emanate dal Ministro Bianchi – ci dedichiamo a quella che potrebbe essere intesa come un’invasione di campo. Ovvero la pretesa di un documento concepito per indirizzare in modo razionale straordinari capitoli di spesa, di dover dettare la linea rispetto alla riforma della didattica e della metodologia d’insegnamento. Ovviamente, nella logica degli estensori del PNRR, tali tematiche avrebbero un immediato effetto sui destini dell’economia, e quindi non potrebbero essere ignorate da un piano d’azione politica che intende rilanciarla. È proprio la fondatezza di questo nesso che andiamo a discutere in questo primo contributo. Nonostante nel PNRR si ammetta l’eccellenza raggiunta in molti casi dal sistema scolastico italiano, esso prevede una radicale semplificazione dei percorsi d’istruzione, e un forte ridimensionamento di una preparazione teorica di spessore, premessa indispensabile per raggiungere risultati soddisfacenti in quell’attivismo pratico-laboratoriale orientato alle soft skills, che sembrerebbe essere destino esclusivo della nuova scuola. L’intento è un altro: produrre soggettività flessibili, in linea con le richieste interessate degli stakeholders, che dovrebbero piegare la scuola alle loro esigenze, presentate però come se coincidessero con l’interesse generale del paese e degli studenti.


Il progetto di rinnovamento radicale della didattica previsto nei due documenti che stiamo esaminando, il PNRR e le Linee programmatiche del Ministero dell’Istruzione che dal primo traggono ispirazione, non presenta particolare originalità rispetto ai documenti istituzionali precedenti, da noi già più volte commentati. Continua tuttavia a suscitare stupore il fatto che un documento finalizzato a illustrare impegni di spesa pubblica straordinaria si soffermi su aspetti tecnici che coinvolgono la professionalità docente, i quali dovrebbero essere oggetto di discussione in altre sedi. Ma siamo consapevoli che questa presunzione viene giustificata dall’assunto indimostrato in base al quale esisterebbe un diretto legame tra il metodo d’insegnamento adottato dai docenti e gli effetti da questo esercitato sull’economia nel suo insieme, per cui è gioco forza ritenere che l’azione educativa debba modellarsi sulle esigenze avanzate dal mondo economico.

Non è inutile però, nonostante riprendano contenuti già commentati, dedicare un minimo di analisi a tali aspetti dei due documenti, sia perché contengono indicazioni operative immediate con le quali intendono affrontare le resistenze di ordine culturale avanzate verso trasformazioni così poco condivise, sia perché, nell’ansia di ripetere gli stessi concetti con formulazioni nuove, tali testi, forse spinti dall’ossessione di apparire originali, cadono in contraddizioni particolarmente significative, che è bene mettere in evidenza.

 1. I divari territoriali come mezzo per piegare l’istruzione alle richieste del mondo produttivo

Come ormai risaputo, l’azione riformatrice troverebbe legittimità dalla consueta sfilza di dati (decontestualizzati a proprio comodo) che confermerebbe una drammatica situazione dell’istruzione in Italia, l’interpretazione dei quali appare tutt’altro che irreprensibile. Vi si trova però anche un passaggio nuovo, particolarmente significativo, che in qualche modo va a smentire quelle conseguenze:

«Indipendentemente dai divari tra nord e sud, la nostra scuola primeggia a livello internazionale per la forte base culturale e teorica. Senza perdere questa eredità, occorre investire in (a) abilità digitali, (b) abilità comportamentali e (c) conoscenze applicative»[1]

È la prima volta, probabilmente, che in un contesto riconducibile al MIUR si ammette come l’organizzazione didattica italiana e la sua tradizione pedagogica siano in grado di offrire una preparazione competitiva nel contesto globale[2]. In effetti, una simile affermazione, forse sfuggita involontariamente, dovrebbe far crollare l’intero castello di carta costruito per trasformare la scuola in senso de-emancipativo; l’azione ministeriale dovrebbe eventualmente essere finalizzata non a demolire quel modello educativo persino dove è efficace, ma a introdurlo laddove, per motivi di maggiori problematicità legate al territorio, fa fatica ad affermarsi.

Invece questa considerazione viene inserita tra altre due affermazioni che hanno il compito di depotenziarla. Affermazioni che, se debitamente analizzate, si rivelano essere totalmente fuori contesto.

Da una parte il merito del nostro sistema d’istruzione farebbe riferimento a una preparazione esclusivamente teorica, presentata come insufficiente, non in linea con le sfide del mondo attuale. Con una ingenua radicalizzazione della contrapposizione tra teoria e pratica che non ha ragione di esistere, e che intende negare la priorità che spetta al pensiero teorico (dal quale si produce un autentico atteggiamento critico), rispetto al procedimento applicativo[3]. É sicuramente legittimo argomentare, infatti, che proprio questa migliore preparazione teorica permetta, ad esempio, quell’eccellenza riconosciuta nello stesso PNRR.

Ma facciamo attenzione alla premessa: quell’«indipendentemente dai divari tra nord e sud», che suona assolutamente contraddittoria.

Nell’intero testo ritorna costantemente l’espressione «divari territoriali» (21 volte), non necessariamente da leggersi come esclusivo divario tra il Mezzogiorno e il resto del Paese.  Ma poi le risorse destinate alle aree critiche sono assolutamente modeste; perché l’obiettivo è un altro, ovvero non quello di intervenire sulle criticità per cercare, nei limiti del possibile, di portare la scuola italiana ai livelli di efficienza che è in grado di raggiungere in molti altri casi, garantendo agli studenti una preziosa competitività ( riconosciuta nello stesso documento) nel contesto internazionale; l’intento invece è quello di cambiare radicalmente il sistema, semplificando di molto quanto appreso negli anni scolastici, per adattarlo ad esigenze esterne che non coincidono affatto con quelle che sarebbe nell’interesse degli studenti; a meno che quest’interesse non venga fatto tutto coincidere in un loro inserimento in un mercato del lavoro fortemente competitivo, caratterizzato da scarse garanzie e dalla precarietà permanente. 

Per chi considerasse faziose queste nostre affermazioni, proponiamo qualche riferimento alle Linee programmatiche, che al PNRR fanno costante riferimento e che anzi esprimono meglio l’azione attuativa che il MIUR intende mettere in campo.

Singolare già la definizione di scuola data in apertura, a nostro parere totalmente divergente da come la stessa è pensata nella nostra Carta costituzionale:

«La scuola è il luogo dove si costruiscono le competenze e si acquisiscono le abilitàsono questi i presupposti per diventare cittadini preparati, critici e partecipi».[4]

Appare evidente come il tutto sia concepito per formare soggetti esclusivamente operativi, e che le competenze e le abilità siano pensate in funzione di un obiettivo in linea con richieste che provengono dall’esterno. Che tutto ciò poi possa rendere «preparati, critici e partecipi» è una boutade, una foglia di fico che richiami la coerenza con lo spirito del testo costituzionale.

Per chi poi volesse negare che tali obiettivi siano individuati secondo una logica economicistica, basta leggere poco più avanti, nella stessa pagina:

«La Scuola è soggetto deputato a guidare la transizione verso l’innovazione tecnologica e la sostenibilità ambientale, come leva fondamentale per l’educazione allo sviluppo sostenibile (AGENDA 2030 e SDGs)»

Per quanto tale svolta sia probabilmente una necessità per lo sviluppo del Paese, attribuire alla scuola questa enorme responsabilità e questo unico obiettivo risulta strumentale; sia perché la scuola in sé può offrire una preparazione culturale  generale, che favorisca poi la formazione di figure capaci di agire nel senso sopra indicato[5].

Ma la logica che ispira i riformatori è un’altra; si indica tale transizione perché essa dovrà caratterizzare la riconversione produttiva, e la scuola dovrà fornire mano d’opera adatta alle richieste che provengono dal tessuto economico. In questa direzione sono da leggersi le proposte di riforma del sistema di orientamento e di ampliamento della sperimentazione dei percorsi di istruzione superiore di II grado quadriennali, da 100 a 1000.

L’introduzione di:

«moduli di orientamento formativo – da ricomprendersi all’interno del curriculum complessivo annuale – rivolti alle classi quarte e quinte della scuola secondaria di II grado, al fine di accompagnare gli studenti nella scelta consapevole di prosecuzione del percorso di studi o di ulteriore formazione professionalizzante (ITS), propedeutica all’inserimento nel mondo del lavoro»

nel numero previsto «circa 30 ore annue nella scuola secondaria di primo e secondo grado» riporta di fatto indietro i numeri all’epoca della Buona Scuola, che introduceva l’allora Alternanza Scuola Lavoro, oggi Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento, con un monte ore obbligatorio pari a 200 ore nei trienni dei licei e a 400 in quelli degli istituti tecnici e professionali.

Osserviamo inoltre che, sebbene potrebbe sembrare ragionevole l’enfasi sull’inserimento nelle realtà produttive per i percorsi tecnici e professionali, è anche vero che in questi contesti, puntare solo all’«istruzione terziaria professionalizzante» e sulla «presenza attiva nel tessuto imprenditoriale», sacrificando i contenuti di più ampio contenuto culturale, sostituite dalle ormai famigerate UDA (Unità didattiche di apprendimento trasversali) e valutate esclusivamente per competenze, significa impedire agli stessi di poter sperare, proprio attraverso la scuola, di accedere a un futuro professionale e intellettuale diverso e più gratificante rispetto a quello a cui sembrano destinarlo le condizioni di partenza.

3. Una falsa inclusività

Questo disegno spiega bene l’ambiguo concetto, presente in entrambi i documenti, di inclusività; in sé positivo, ma che nella nuova scuola assume proprio la funzione di “gabbia” all’interno della quale la soggettività dell’alunno viene definitiva e dalla quale non le è consentito uscire. In qualche modo impedendole di sollevare la propria personalità intellettuale dal proprio contesto familiare e sociale:

«La scuola inclusiva è quella che consente a ciascuno di seguire il proprio percorso e sviluppare pienamente le proprie potenzialità. E’ una scuola che valorizza l’individualità di ognuno, sia come singolo sia come parte integrante e insostituibile di una comunità».

Non si tratta in realtà di inclusione ma di cooptazione per motivi di interesse di una manodopera utile ad attori che necessitano di particolari capacità. E’ questo il senso dell’introduzione del cosiddetto “sistema duale”, di carattere regionale.

Non a caso, per decidere come  «introdurre elementi di personalizzazione nei percorsi di studio […] si renderà necessario il coinvolgimento dell’intera comunità professionale e degli stakeholders»; ovvero, non saranno più i docenti a decidere il percorso formativo del gruppo classe che, proprio in nome dell’uguaglianza, garantisce a tutti gli stessi contenuti culturali e, soprattutto, non esclusivamente competenze tecniche, ma anche strumenti intellettuali per saper interpretare ed eventualmente sottoporre a critica il tessuto sociale che quelle competenze richiede.

Gli stakeholders in buona parte coincidono con soggetti economici privati. Certo, nei testi che andiamo esaminando si parla di «patti educativi di comunità» che comprenderebbero, oltre alle «organizzazioni produttive», sempre in prima fila, anche «l’associazionismo, il volontariato e il terzo settore», il che sembra conferire al tutto un alone progressista. Ma, tra gli stakeholders, in particolare quando è necessario prendere le decisioni più vincolanti sul piano educativo, sono i soggetti imprenditoriali quelli considerati aventi responsabilità prioritarie. Si legga, a mo’ di esempio, l’elenco dei 200 stakeholders coinvolti nell’elaborazione del documento OCSE dedicato alle competenze educative essenziali.

4. Il gruppo classe come “gabbia del Novecento”

La “comunità” di cui tanto si parla nei documenti ministeriali, per formare la quale si intende disintegrare l’unica forma di comunità vera in cui le personalità degli alunni vengono valorizzate, ovvero il gruppo classe, irresponsabilmente e insensatamente definita da Bianchi una «gabbia del Novecento», riproduce in realtà la stessa falsa dimensione comunitaria dei social, che lascia solo l’alunno di fronte a un processo educativo che lo seduce con l’idea di acquisizione del sapere utile, pratico e operativo:

«la riduzione del numero degli alunni per classe e il dimensionamento della rete scolastica. In tale ottica si pone il superamento dell’identità tra classe demografica e aula, anche al fine di rivedere il modello scuola»

Sia chiaro, il gruppo classe può anche essere vittima di atteggiamenti irresponsabilmente e anacronisticamente autoritari; ma questi almeno, in un’esperienza negativa vissuta in comune, possono creare solidarietà e strategie di resistenza, educare ed esercitare la rappresentanza, dando origine a una forma di esperienza dei propri diritti negati, che la dispersione voluta da questa didattica falsamente individualista si propone invece di impedire.

Introdurre invece percorsi individualizzati con scelte opzionali, come nel  modello di scuola anglosassone comporterebbe invece un radicale rivoluzionamento dell’impianto del nostro sistema di istruzione: lezioni differenziate per abilità e non per età, finalizzate al raggiungimento di traguardi certificati da esami standardizzati esterni, con esiti pubblici. Una trasformazione drastica, quindi, che si lascia intravedere in un documento governativo di carattere economico, e che necessiterebbe invece di tutt’altro dibattito e consenso.

5. Il mito delle STEM

 IL PNRR, come del resto i precedenti documenti riferibili al ministro Patrizio Bianchi torna ossessivamente sul protagonismo delle discipline STEM[6](Scienze, Tecnologia, Ingegneria, Matematica), e la definizione che ne propone è particolarmente interessante. Si potrebbe infatti pensare che le STEM obbediscano al proposito di accrescere la conoscenza scientifica delle giovani generazioni, favorendo un incremento delle iscrizioni alle facoltà scientifiche, ad esempio aumentando di conseguenza – decisione questa sicuramente discutibile ma non irrazionale – il quadro orario di alcune di quelle discipline, ridotto dalla riforma Gelmini.

Ma in realtà, come il significato dell’acronimo stesso suggerisce, non si tratta di questo, quanto di un autentico cambio del paradigma metodologico dell’insegnamento delle scienze, considerate come un unicum, da attuarsi in senso tecnico – laboratoriale,  presumibilmente subordinato al dominio del digitale e fondato sulla logica del problem solving. Tale modifica produrrà magari un miglioramento dei risultati nei test internazionali, ma rimane un’involuzione, come più volte sostenuto a suo tempo ad esempio da Giorgio Israel. La laboratorialità o i metodi deduttivi e basati sull’investigazione, se supportati da una contemporanea riflessione teorica, restano approcci metodologici fondamentali per l’insegnamento delle discipline scientifiche, che tuttavia necessitano di tempi distesi, spazi adeguati, oltre che di autentiche occasioni di compresenza, laddove si intenda esaltare la trasversalità e la complementarità dei saperi.

Invece, nel rapporto governativo è scritto:

«L’intervento sulle discipline STEM […] agisce su un nuovo paradigma educativo trasversale di carattere metodologico. Lo scopo è quello di creare nella scuola la “cultura” scientifica e la forma mentis necessaria a un diverso approccio al pensiero scientifico, appositamente incentrata sull’insegnamento STEM […], con ricorso ad azioni didattiche non basate solo sulla lezione frontale»

Per quale motivo poi un documento di carattere economico-finanziario debba occuparsi di metodologie didattiche opportune, rubando il mestiere ai docenti, rimane inspiegabile, se non alla luce delle finalità politiche che al documento pertengono.  Ben chiare poco dopo:

«con questo progetto si mira ad attuare programmi di potenziamento di competenze, coerentemente con le trasformazioni socioeconomiche».

[1] Vedi PNRR, p.188.

[2] Non è certo una constatazione che sorprende, ma sempre intenzionalmente occultata nei documenti ministeriali, anche se più volte rimarcata da personalità intellettuali che della scuola hanno certamente maggiore conoscenza di molti tecnici presenti al MIUR, come per esempio  Salvatore Settis, qui e qui.

[3] Su quest’aspetto si sono  espressi, con argomentazioni totalmente condivisibili, già P.Di Remigio e F.Di Biase.

[4] Linee programmatiche, pag. 2 https://www.miur.gov.it/documents/20182/0/Linee+programmatiche+del+Ministero+dell%27Istruzione+-+4maggio+2021.pdf/b3cbd3ee-722c-457d-a2c4-a4df30dd03d8?t=1620143366992

[5] E, come già ricordato, la svalutazione del sapere teorico rispetto alle attività tecnico-laboratoriali non favorirà certo la formazione di soggetti in grado di soddisfare tali esigenze.

[6] In questi due documenti quanto meno è assente quel risibile acronimo STEAM che invece compariva nel Rapporto finale e nel libro dello stesso Bianchi.





SCUOLA, ARCHITETTURA, CAPITALE

Un piano di adeguamento edilizio delle strutture scolastiche è ormai divenuto assolutamente necessario, ma, su questo, l’unanimismo che si registra, mi pare frenare la sua attuazione anziché determinarne la concreta realizzazione. Del resto, nella prospettiva del PNRR (una diligenza che passa tra anfratti e nascondigli ottimi d’agguati) non c’è chi ne parli. Tuttavia, in attesa di riscontri fattuali, vale la pena provare a metter su una riflessione più approfondita sulla cosa, poiché, se è evidente l’impellenza di dotare la scuola di strutture efficienti– e la pandemia ne ha dimostrato tutta l’ineluttabilità –, questo non può prescindere da un’analisi attenta e profonda sul modo con cui si è determinato il riassetto urbanistico del paese e di come la scuola, dunque, vi si possa inserire nel nuovo contesto.

La città, l’architettura, le trasformazioni sociali.

Lo spazio urbano assembrato diventa fantasma della sua crescita indiscriminata, sempre più privato, sempre meno pubblico, sociale, definitivamente distanziato, come si compete nei giochi d’ossimori, tanto più è affollato. Il reale, trasformato in immagine spettacolare (come nei fantasmogorici skyline di Dubai, ma senza andare troppo lontano, certe periferie di grandi città, da nord a sud), è quinta scenografica d’una rappresentazione farsa, in cui le mura cingono d’assedio gli assedianti, e non sono più le mura di Campanella dov’è la storia della scienza, il progetto educativo condiviso dei destini magici e progressivi dell’uomo. Le mura s’attrezzano a prigioni da cui non s’evade, ma dentro cui ci si rinchiude spontaneamente, sovvertendo l’ordine mentale costituito, quello che cerca l’orizzonte libero e di vertigine dello sguardo dell’animale in gabbia. Ma se l’agnello o l’orrendo porco s’avvedono del loro imminente sacrificio all’altare della tavola imbandita, con lacrima ed urlo straziante, il residuo umano vi s’immola con fanciullesca indifferenza. Le immagini degli eloquenti muri della città ideale di Platone sono ora grate elettrificate e luminescenti, gli orrori della merce che trabocca dalla caricatura d’una cornucopia di svendite morali e materiali. Pure l’effimero, in quanto concetto, sparisce nelle celle delle fiumane umane, diventa superfluo necessario, vocazione definitiva. Le architetture/prigioni delle periferie commerciali, e di dormitori, pure quelle di centri storici divenuti non luogo di relazione ma turistifici, non sono innocenti oggetti devitalizzati, ma espressione urlante del potere sociale del mercato. che reclama le sue vittime. Le mura cittadine, anche quelli dei centri più piccoli, s’attrezzano a prigioni da cui non s’evade, ma dentro cui ci si rinchiude spontaneamente, si ha quasi il desiderio di farlo. Una sindrome della capanna ante litteram. Rinchiudersi diventa principio identitario, quando si cerca di definire quello come identità culturale da difendere contro l’altro, l’invasore, lo straniero. Dunque, vi si legge una dimensione quasi caricaturale.

La progressione verso la forma estrema del mercato – il narcisismo individualista – ha soppiantato persino le gerarchie dei rapporti di produzione convenzionali. E il consumo diventa una sorta di dogma definitivo. Le città si sono attrezzate per assecondare questo processo. Le città prese d’assalto hanno perso ormai persino quel flebile richiamo al modernismo, financo superato le creazioni monolitiche della dittatura ceauseschiana, le volontà di Marinetti di deviare canali per affogare la vetusta Venezia, o Le Corbusier che anelava l’autostrada che spaccasse in due Parigi. Gli spazi vitali non esistono se non nel sentire, ormai folle, di chi deraglia dalla “normalità” di chi è persona e non gente.

Il ruolo dell’architettura scolastica

La scuola pare però soggetto passivo di questo processo, non ne è l’esatto contraltare, non torna al centro dell’ambiente urbano per riaffermare il suo ruolo di fondamentale istituzione di formazione sociale, di luogo della partecipazione e di pratica democratica. Se dunque vi è la necessità del suo ammodernamento strutturale, questa è condizione non sufficiente per ri-pensare una scuola protagonista negli spazi del quotidiano. Gli architetti progettano i nuovi edifici scolastici senza avvertire il bisogno di un confronto innanzitutto con la collettività, nemmeno con la natura trasmissiva ed inclusiva da attribuire alla scuola. Piuttosto accettano la mediazione con la politica, assecondano e/o rincorrono il taglio dei nastri, le fasce tricolore. Scuole d’eccellenza diventano nell’immaginario i poli scolastici progettati dalle archistar, sganciati dal proprio contesto sociale ed urbano, corpi estranei che contribuiscono a cementificare, a consumare territorio, dunque antiecologici per definizione. Ubicati in un altrove ancora più periferico, diventano altro rispetto alle condizioni sociali di chi le frequenta, dagli alunni ai lavoratori. Non partecipano al recupero dell’esistente, al rapporto con la comunità. Sono organizzazioni separate e burocratiche, con una fortissima gerarchizzazione dei rapporti che non lascia esprimere compiutamente prospettive creative, non sono nel corpo vivo delle città e dei territori, quali laboratori permanenti di partecipazione. Va quindi ripensata l’architettura scolastica come strumento di crescita per l’intera società, che ponga al centro i processi educativi e la maturazione della personalità dei cittadini, ma anche occasione di creazione di spazi aperti e condivisi, dialettici, se occorre, senz’altro democratici, improntati alle forme più alte dell’ecologia ambientale e sociale. È piuttosto evidente che i maghi del cubo di cemento magico non apprezzano una scuola che recupera l’esistente, che collabora alla riscrittura dell’ambiente sociale in termini partecipativi e solidali. Temono un nuovo protagonismo dei lavoratori della scuola, un rilancio della democrazia interna, poiché l’efficacia dei percorsi educativi e l’attenzione per essi non si misura solo costruendo edifici funzionali, ricchi di belle aule, ampie ed attrezzate, ma, dentro questi, amplificando il ruolo formativo e pedagogico della scuola, eliminando la pletora di orpelli burocratici il cui proliferare l’ha mortificata, impedendone l’osmosi necessaria con l’ambiente urbano.

Per ciò che attiene l’architettura stessa dell’edificio, dello spazio scolastico, infatti, il consumo del territorio stride con il ruolo formativo della scuola. La costante aggregazione dei plessi, sino alla creazione di immensi ed affollatissimi edifici, rema contro i percorsi di inclusività, poiché va gestito in modo opposto alla creazione di sistemi di relazione tra chi frequenta la scuola – a qualsiasi titolo – e tra questi e l’ambiente sociale. La necessità di recuperare gli spazi urbani esistenti, anche con le opportune strategie di adeguamento antisismico, energetico e funzionale (da questo punto di vista vi sono stati passi in avanti notevolissimi nelle pratiche ingegneristiche e architettoniche), sarebbe un punto di partenza per ridare centralità alla scuola, oltre ad essere, alla lunga, anche economicamente vantaggioso per il pubblico. Riduce i costi per gli spostamenti, ha impatto ambientale minore, crea isole di salubrità culturale in luoghi che ne sono privi, consente a chi vi abita di riconoscersi nelle azioni formative della scuola. In definitiva, crea “identità” autentica, non un suo artificio retorico. E si comprende come nel PNRR questi aspetti appaiano lontani e marginali. Mica si vorrà stemperare la natura di centri commerciali di certi centri storici, mica si vorrà creare discontinuità strutturale nei dormitori per consumatori, mostrando loro le vie della cultura e dell’istruzione?


I Cobas dicono basta! I precari e le precarie della scuola con almeno tre anni di servizio devono essere assunti tutti/e Di Pubbliredazionale - 28/05/20

martedì 8 giugno 2021

 Ancora una volta si è deciso di (provare a) coprire solo una piccola parte dei più di 250.000 posti realmente disponibili; ancora una volta si è deciso di conservare l’insensata distinzione tra organico di diritto e organico di fatto, senza peraltro prevedere quantomeno l’assunzione a tempo indeterminato su tutte le oltre 100.000 cattedre che attualmente compongono il primo; ancora una volta si è deciso di adottare un provvedimento incompleto, parziale ed estemporaneo, come se il precariato non fosse un elemento strutturale del nostro sistema scolastico e non richiedesse un intervento valido anche per gli anni a venire.Il piano di assunzioni previsto per il prossimo settembre dall’articolo 59 del Decreto sostegni bis risulta del tutto insufficiente rispetto alle reali esigenze della scuola italiana e rappresenta l’ennesimo inaccettabile sfregio compiuto ai danni delle precarie e dei precari che da anni ne consentono il regolare funzionamento.Se, da un lato, si può giudicare in modo positivo la decisione di allargare agli “idonei” le assunzioni dal concorso straordinario, dall’altro, non si può non vedere come l’elevatissimo e incomprensibile numero di insegnanti che non hanno superato le prove ne limiterà quasi completamente l’effetto; se si può certamente apprezzare la scelta di utilizzare anche le GPS per le assunzioni a tempo indeterminato, non si può non dire che circoscrivere questa possibilità ai soli abilitati e agli specializzati su sostegno della prima fascia con tre anni di servizio significa ostinarsi a ignorare lo sfruttamento che ogni anno si ripete ai danni dei precari e delle precarie della scuola.Uno sfruttamento di fronte al quale non si può che dire BASTA! I precari e le precarie della scuola con tre anni di servizio alle spalle devono essere assunti/e tutti/e! A settembre e negli anni a venire!Inoltre, il Decreto sostegni bis interviene sui concorsi ordinari in itinere e quelli futuri, inserendo una norma palesemente incostituzionale che rende impossibile a coloro che partecipano ad un concorso ordinario e non superano una delle prove d’esame, di ripresentarsi al concorso ordinario successivo.

Per questi motivi e per intervenire in modo serio, equo e davvero efficace sulla questione i Cobas chiedono a gran voce di:

  • assumere a tempo indeterminato TUTTI i/le docenti presenti nella prima fascia delle GPS, su posto comune e su sostegno, tramite il normale anno di formazione e prova e senza prevedere nessuna prova disciplinare al termine dello stesso. Si tratta di docenti già abilitati e/o specializzati: prevedere per loro il requisito dei tre anni di servizio e una prova finale non ha davvero nessun senso;
  • assumere a tempo indeterminato TUTTI i precari e le precarie CON ALMENO TRE ANNI DI SERVIZIO presenti nella seconda fascia delle GPS, su posto comune e su sostegno, e destinare a questi docenti la prova al termine del percorso (meglio se di carattere didattico-metodologico piuttosto che disciplinare) prevista nella versione attuale del Decreto per la prima fascia o, come sarebbe preferibile, un percorso di formazione, su materia o su sostegno, da svolgersi durante l’anno di prova;
  • eliminare la norma incostituzionale del Decreto sostegni bis che vieta a coloro che partecipano alla selezione da concorsi ordinari di ripresentarsi al concorso successivo;
  • riorganizzare un sistema di reclutamento basato sul meccanismo del doppio canale, che permetta di effettuare ogni anno il 50% delle assunzioni tramite concorsi ordinari e il restante 50% tramite concorsi per soli titoli e servizi (a questo scopo, una volta corretti i punteggi, potrebbero essere tranquillamente utilizzate le GPS, basta togliere la “S” alla sigla). Un sistema che permetta di superare definitivamente la retorica del merito e la politica dell’emergenza e che sia in grado di riconoscere strutturalmente, da un lato la possibilità di entrare subito nella scuola in modo stabile a chi, magari appena laureato/a, vi si avvicina per la prima volta, dall’altro il diritto all’assunzione a tempo indeterminato, una volta raggiunti i tre anni scolastici di servizio, a chi della scuola garantisce il funzionamento ogni anno con il suo lavoro da precario/a.

Esecutivo Nazionale COBAS – Comitati di Base della Scuola

Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza: la ricetta neoliberista per l’uscita dalla crisi pandemica

lunedì 7 giugno 2021

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr), approvato in tutta fretta da un Parlamento silente e i successivi decreti in via di approvazione – decreto ristori bis e decreto semplificazione e governance – mantengono l’impianto saldamente neoliberista dominante nell’attuale sistema politico e economico nazionale. La scelta fortemente perseguita dai gruppi di potere dominanti, trasversali al sistema dei partiti, di mettere al governo del Paese un paladino della dottrina neoliberista come Mario Draghi per amministrare i fondi del Recovery fund risponde proprio a questo obiettivo: stilare un Piano che consenta al sistema di uscire dalla crisi pandemica applicando rigidamente ai settori lavorativi e alle classi medio-basse, precarizzate e impoverite, una ricetta lacrime e sangue; un Piano che consolidi con opportuni strumenti normativi e attraverso finanziamenti mirati gli ampi margini di profitto che una parte dei settori produttivi e commerciali hanno continuato a conseguire durante il lockdown e una ripartenza su basi di comando più solide anche per quei settori che, invece, la crisi pandemica l’hanno subita.

Il senso dell’ultimo capitolo del Pnrr, dedicato alla valutazione dell’impatto macroeconomico delle misure previste, è esplicito: le riforme strutturali previste dovranno attrezzare lo Stato per una più efficente e funzionale capacità di favorire la competitività dei mercati, solo e vero motore in grado di far uscire il Paese dalla crisi. Il rilancio della competitività del sistema è il grande obiettivo del Pnrr. A giustificazione di tale assunto gli estensori del Piano si affidano all’indice di regolamentazione del mercato dei prodotti (Pmr), sviluppato dall’Ocse per misurare il rapporto che intercorre tra livelli di regolamentazione dei mercati e performance dell’economia. Secondo questa lettura a elevati livelli di regolamentazione dei mercati e di presenza dello Stato in economia, corrisponde una bassa competitività del sistema e, quindi, debolezza di crescita, ricchezza e occupazione. In fondo la valutazione che già l’Ocse faceva per l’Italia nel 2018, ritenendo la bassa competitività del nostro sistema economico dovuta alla eccessiva presenza dello Stato in economia. Da qui il rilancio nel Piano delle privatizzazioni, delle liberalizzazioni e della eliminazione di vincoli e tutele come strumenti indispensabili per dare maggiore competitività al sistema, attraverso, aggiungiamo noi perchè sottinteso e evidenziato dai primi decreti applicativi, da un più pervasivo comando sulla forza-lavoro e sulla società che amplierà, più che ridurle, disuguaglianze, precarizzazioni e povertà.

Non importa che questa regola aurea della dottrina neoliberista basata sull’aumento della ricchezza per i già ricchi come possibilità di miglioramento di tutta la società si sia rivelata fallace e che i suoi effetti siano sotto gli occhi di tutti, anzi proprio questi effetti vanno stabilizzati e ampliati per consentire al sistema di riprendere competitività e, in altre parole, per estrarre profitto per pochi dallo sfruttamento di molti.

L’applicazione del Piano ha bisogno di un clima di normalizzazione che in parte è già stato avviato con la creazione di quella sorta di grosse koalition all’italiana che è l’attuale Governo piegato ai dettati del Presidente del Consiglio e attraverso un consenso alimentato costantemente dalla narrazione delle capacità demiurgiche del premier da parte dei media mainstream nazionali. Inoltre la normalizzazione si poggia anche su una intensificazione del controllo sociale di cui si cominciano a vedere gli effetti nei confronti dei dissensi o dei conflitti locali come nel caso della ripresa di inchieste contro attivisti delle Ong che operano nel Mediterraneo per soccorrere i profughi, di sentenze avverse alle ragioni di associazioni e comitati ambientalisti, di cariche, arresti e fogli di via per sindacalisti e lavoratori in lotta in singole vertenze (il caso Fedex-TNT su tutte).

Nel Pnrr la parte del leone la fanno le imprese che raccolgono la torta più ricca dei fondi a disposizione dopo aver avuto il 74% del flusso di denaro pubblico elargito nell’anno pandemico appena finito. Agli interessi e al punto di vista della Confindustria si allinea anche il Decreto sostegni bis con lo sblocco dei licenziamenti, accompagnato da ulteriori facilitazioni come la possibilità, di fatto, di operare esuberi attraverso la cassa integrazione ordinaria senza oneri per le imprese. Nonostante le stime dell’ISTAT sulla competitività dei settori produttivi segnali nel resoconto di gennaio 2021 una situazione di aumento del 2,5% con performance importanti sul mercato estero e che i dati ISTAT e della Banca d’Italia dicano che durante il blocco dei licenziamenti si sono avuti centinaia di esuberi e una vera e propria moria di posti di lavoro a tempo determinato, Confindustria ha sferrato un attacco molto duro in questi giorni a dimostrazione della volontà di non specare l’occasione fornitagli dalla crisi pandemica per imporre un salto in avanti del comando sulla forza-lavoro, liberando l’organizzazione del lavoro da ulteriori vincoli, già fortemente allentati dall’applicazione del Job Act. I prossimi mesi vedranno un aumento dei licenziamenti e l’approfondirsi di quel processo di precarizzazione del mercato del lavoro in atto da tempo. Aumenteranno povertà, sia in termini assoluti (lo segnala già l’ISTAT) sia in termini relativi, con molte famiglie il cui reddito da lavoro si avvicinerà sempre più alla soglia di povertà; si allargherà la base occupazione precarizzata, dequalificata e in alcuni settori anche soggetta a forme di lavoro semi-servile (pensiamo al settore della raccolta agricola) a fianco di vere e proprie sacche di aristocrazia operaia, altamente qualificata e sufficientemente remunerata, amentando in tal mondo la tendenza a una forte differenziazione salariale e stipendiale in corso da tempo.

Dove è finita la discussione sul salario minimo e sul cuneo fiscale? Accantonate assieme alla riforma del fisco. Invece qualsiasi timido tentativo di apportare qualche tassazione ai redditi più ricchi viene immediatamente sommersa da una tempesta di critiche e di accuse di voler aumentare il gettito fiscale per gli italiani.

Nel Pnrr non c’è nulla di significativo a favore del welfare, scarso il finanziamento alla sanità, insufficiente per potenziare le risorse umane e le strutture ospedaliere, assolutamente insufficiente per creare una vera medicina di territorio e, soprattutto, per garantire il diritto alla salute uguale per tutti dopo aver visto come il processo di privatizzazione della sanità, la sua subordinazione alla logica produttivistica e lo spettezzamento del sistema nazionale in tanti sistemi regionali abbiano giocato un ruolo importante in negativo nella crisi pandemica.

La transizione digitale così come quella ecologica rimangono nel Piano puri buoni propositi che trovano nelle applicazioni dei decreti un segno diametralmente opposto. In particolare la transizione ecologica ha visto sinora il Ministro competente rilanciare l’idrogeno blu basato sulle fonti fossili al fianco del nucleare e delle autorizzazioni alle trivellazioni in Adriatico. A farla da padroni sono i grandi gruppi energetici che puntano ancora sulle fonti fossili come ENI, ENEL ecc. per i quali la transizione ecologica sarà per lungo tempo affidata ancora all’estrazione di questo tipo di risorse. Il Decreto semplificazioni liberalizza l’uso del CSS, introduce furbescamente gli impianti di incenerimento tra quelli strategici del Piano rilanciando gli interessi delle lobbie dell’incenerimento, dei cementieri e di tutto il mercato del rifiuto mentre, dall’altro, con la creazione della cabina unica di regia in capo al Primo Ministro Draghi e la liberalizzazione di molti vincoli e tutele, non ultima la revisione del Codice degli appalti, si pongono le premesse per un saccheggio del territorio in maniera più sistematica di come fece Berlusconi con la Legge Obiettivo.

L’accesso ai finanziamenti del Recovery fund per il complesso militare industriale, la velocizzazione degli iter autorizzativi per le opere inserite nel Pnrr, un piano di opere che non contempla la messa in sicurezza del nostro territorio, bonifiche e disinquinamenti fanno da corrollario a un Piano pericolo e pessimo per chi pensava che dopo la pandemia le cose sarebbero cambiate in meglio.

Cambieranno in meglio solo per i soliti noti se non comincerà ad emergere nei territori una opposizione critica alla sua applicazione concreta.

Questa sintesi evidenzia per punti essenziali quanto espresso più sistematicamente nel documento allegato di analisi critica del Pnrr e dei suoi primi decreti applicativi a cui si rimanda per una lettura più approfondita dei provvedimenti del Governo.

di Paolo De Marchi anche in adlcobas.it

vedi in allegato l’analisi dettagliata del PNRR

 

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