di Andrea Fumagalli
La storia umana è storia di coazione al lavoro.
Un tempo tale costrizione era imposta con il dominio e
obbligata per legge e ha alimentato per millenni società schiaviste. Oggi la schiavitù è stata bandita
giuridicamente, ma non da un punto di vista
etico e culturale. La religione di
un lavoro non scelto imperversa più che mai, anche se non esistono più
obblighi diretti. Il lavoro è libero ma non
rende liberi. Solo se si creano le premesse per liberarsi dal
ricatto del bisogno, l'attività
umana (vita, non lavoro) potrebbe diventare momento di autorealizzazione, forma di emancipazione (e comunque
mai un bene comune). La storia dell'umanità può essere anche letta come una
perenne lotta contro il lavoro
come costrizione. Il rifiuto del lavoro salariato degli anni Settanta (non dell'OPUS e dell'OTIUM, si badi
bene), non a caso sviluppatosi al
culmine delle lotte dell'operaio massa, così come le lotte negli anni Venti del secolo scorso negli Stati Uniti
contro la trasformazione
dell'operaio di mestiere in operaio dequalificato alla catena di montaggio (operaio massa), ha contribuito a
mettere in atto i processi di
ristrutturazione dell'organizzazione capitalistica. La fase di transizione dal capitalismo fordista a quello
biocognitivo ne è il risultato
diretto, con effetti profondi e irreversibili sulla qualità e la forma della prestazione lavorativa. In Europa, il peso
del lavoro di fatica, del lavoro
operaio, è fortemente diminuito, ma tale miglioramento non coincide con liberazione dal lavoro salariato
(come si auspicava). Anzi, è forse
successo l'opposto, seppur in modo inedito. Le nuove e moderne forme di accumulazione, sempre più basate
sulla conoscenza, hanno messo a
lavoro e a comando ciò che prima, nell'epoca fordista, non era considerato produttivo: l'insieme delle facoltà
cognitive, affettive, riproduttive,
formative e relazionali degli esseri umani, in una parola, la vita. Nel momento in cui ci si illude che, grazie
anche al progresso tecnologico, ci
si possa affrancare, seppur parzialmente, della fatica fisica del corpo, ecco che il lavoro si allarga e
induce alla fatica della mente e
dei sentimenti.La vita stessa viene messa al lavoro e a valore. Non
solo il LABOR ma anche l'OPUS, la creatività e
l'immaginazione sono piegate a
criteri di produttività, mercificazione e valorizzazione. Siamo in presenza di un processo di SUSSUNZIONE TOTALE
dell'essere umano ai dettami della
produzione. Il risultato è che la dannazione del lavoro ci perseguita più di prima. A fronte di questa situazione, sembra esserci una sola
soluzione: il diritto alla scelta
del lavoro. Ma condizione necessaria (anche se non sufficiente) è che ci si liberi dal ricatto del
bisogno: solo la garanzia di un
REDDITO DI BASE INCONDIZIONATO, e non il lavoro, costuisce oggi un
bene comune, seppur improprio
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