Nel segno dell’impresa la scuola del ministro BIANCHI

sabato 10 aprile 2021

 Proponiamo qui uno stralcio del ampio articolo di Carosotti&Latempa postato su Roars, ci sembra l’ideale continuazione di un precedente articolo, qui proposto, a firma di Serena Tusini, in cui appunto si richiamava l’attenzione sulla filosofia di fondo che ha guidato e guida l’operato di Patrizio Bianchi , prima come assessore regionale della Regione Emilia - Romagna, poi nello staff di esperti del Ministero e, ora, ministro esso stesso. G.Z.

Nel segno dell’impresa la scuola del ministro BIANCHI

di Giovanni Carosotti e Rossella Latempa da roars.it

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Difficile, dal nostro punto di vista, individuare in questo progetto di nuova scuola principi e caratteristiche in linea con lo spirito della Costituzione repubblicana. Eppure, è ciò che i documenti del Ministro rivendicano in modo risoluto in più parti. La nuova scuola renderebbe finalmente concreto il principio più nobile del testo costituzionale, quello dell’uguaglianza, che la scuola è incapace di realizzare.
Il paralogismo utilizzato, per sostenere una tesi che a noi continua a sembrare paradossale, sta nell’identificare la raggiunta eguaglianza con la capacità da parte di tutti di essere in grado di conformarsi alle esigenze avanzate dal mercato del lavoro e del mondo delle imprese; e quindi di non venire esclusi dalla possibilità di percepire un reddito.

Poiché il mercato del lavoro è feroce, e molti giovani rischiano di esserne espulsi se non ricevono una formazione adeguata alle sue richieste, diventa dovere delle scuole -e di conseguenza fondamento deontologico della professione docente- quello di adeguarsi a tale imperativo. L’esigenza dell’utente-studente sarebbe così prioritaria, coinvolgendo la sua stessa possibilità di sopravvivenza, tanto da sacrificare quel fastidioso principio contenuto nell’art.33, la “libertà d’insegnamento”, che andrebbe trasformato da diritto individuale a diritto assegnato all’entità “metafisica” collegiale, le cui decisioni prevarrebbero su quelle dei singoli. Sarebbe questa ciò che nel rapporto finale viene indicata come “funzione sociale dell’insegnamento”.[7]

Si tratta in realtà, a nostro parere, di una profonda operazione di condizionamento culturale, di naturalizzazione dello stato di cose e dei rapporti di forza del presente, sullo sfondo di una visione conciliatoria delle relazioni sociali, delle relazioni lavoro-impresa, delle differenze territoriali e delle loro cause – che sparirebbero dall’orizzonte dei progetti educativi dei singoli istituti – ciascuno centrato sul proprio territorio. E’ questa un’educazione concepita nel senso della resilienza, intesa come capacità di accettare la dimensione futura della precarietà quale condizione permanente; condizione che diventa sopportabile quanto più si è capaci di conformarsi intellettualmente e materialmente alle richieste della “società”. Invece in Nello Specchio della Scuola leggiamo: “alla scuola viene quindi demandato il compito di rendere effettiva la democrazia affermata dalla Costituzione» e nel Rapporto c’è addirittura un riferimento al secondo comma dell’articolo 3. Noi dubitiamo che una scuola in cui la formazione risulti così condizionata dagli interessi economici possa poi coincidere con quella “dignità sociale” richiamata proprio all’inizio di quell’articolo.

L’ apertura necessaria alla società e alla logica del mondo produttivo vengono invece giustificate, quasi paradossalmente, con affermazioni di segno contrario. Il mettere “Le mani sulla scuola” viene descritto come un processo solidale ed inclusivo. L’inclusività, evidentemente, consisterebbe nel rendere universale la costruzione di una forma mentis imprenditoriale, creativa e strategica, che garantirebbe l’accesso al mondo delle imprese, considerato come quello in cui ogni individuo raggiungerebbe la più piena emancipazione e la realizzazione di sé.

Poco importa che tale inserimento non sarà per tutti, e che la competenza di chi sarà costretto a realizzarsi in forme di lavoro non gratificanti, soprattutto se poste in relazione al titolo di studio posseduto, dovrà fare riferimento con la gestione delle incertezze. Su questo Patrizio Bianchi soprassiede, ma tale cruda realtà la troviamo espressa proprio in un testo che fa riferimento alla Fondazione Agnelli: essere competenti significa “saper porsi in modo proattivo in ambienti difficili e contraddittori, come quelli caratterizzati dall’incertezza sulla permanenza della propria occupazione”.[8] Una prospettiva, quella promessa dagli economisti, dunque tutt’altro che irenica. È solo in questa chiave che a nostro parere vanno interpretati i concetti di “comunità” e i corrispondenti “patti educativi” che, nelle parole di Bianchi, hanno l’obiettivo di garantire un “travaso” continuo, dalla filiera scuola-università a quella d’impresa:

“rendere la comunità corresponsabile dell’educazione dei giovani, dando piena attuazione alla legge sull’autonomia. Qui diviene cruciale il rapporto con l’università e i centri di ricerca, che devono avere la possibilità di costruire relazioni più strette con la scuola, in modo da garantire un “travaso” continuo dei loro studi e la loro messa a disposizione di un sistema educativo che deve poterli tradurre – soprattutto per quanto riguarda le materie scientifico-tecnologiche (Science, Technology, Engineering and Mathematics, STEM), cioè quelle più legate all’evoluzione delle scienze sperimentali – nella capacità di lavorare in gruppo per risolvere problemi complessi. Del resto, le imprese che stanno affrontando oggi la transizione verso la Quarta rivoluzione industriale richiedono proprio queste competenze – le cosiddette soft skills – […]”.

Come si nota, le “comunità educanti” educano alle richieste delle imprese, oggi preda di una nuova fase di crisi, mentre la scuola perde così ogni autorità nell’immaginare il proprio progetto didattico.

Sarebbe questo l’esito definitivo della completa realizzazione dell’“autonomia scolastica”. Risulta difficile, giunti a questo punto, evitare il sospetto di trovarsi di fronte a una ben pensato progetto politico, che ai nostri occhi si presenta, oltretutto, come un’indubbia operazione di espropriazione di un patrimonio e di una tradizione culturale, presentata con l’immagine opposta dell’apertura, dell’inclusività e della partecipazione. Conviene allora riflettere proprio su questo: sull’ inferenza ingiustificata, sulla distorsione del lessico che vuole convincere che il dominio neoliberale sulla cultura si traduca in solidarietà e interesse generale, e non invece in una forzatura delle finalità che la Costituzione repubblicana assegna alla scuola democratica.

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