potete scaricare il numero 14 di parole di acciaio, il bollettino dei cobas e degli autorganizzati alla Thyssenkrupp_AST di Terni sulle lotte contro licenziamenti e mobilità
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Fiat e Fiom davanti alla Costituzione
La sentenza della Corte - sia pure nella forma estremamente sintetica in cui la conosciamo - spazza via la "linea Marchionne". Che era stata ampiamente accettata da Cgil, Cisl, Uil con l'accordo del 31 maggio.
Apriamo qui la discussione con un intervento apparso stamattina sul sito della Fondazione Pintor e che ricostruisce con precisione sia la tempistica, sia gli aspetti politici e costituzionali di una situazione abnorme da sempre esistente nelle "relazioni industriali", tra imprese e sindacati.
L'intervento tiene chiaramente conto della linea critica del comportamento dei sindacati confederali, a partire dalla Cgil, da sempre sostenuta dal principale dei giuslavoristi italiani, Umberto Romagnoli. Che per esempio, aveva definito il rapporto tra sindacati e lavoratori - costruito in assenza di legge ma in pieno vigore degli accordi - con queste parole:
L'intervento tiene chiaramente conto della linea critica del comportamento dei sindacati confederali, a partire dalla Cgil, da sempre sostenuta dal principale dei giuslavoristi italiani, Umberto Romagnoli. Che per esempio, aveva definito il rapporto tra sindacati e lavoratori - costruito in assenza di legge ma in pieno vigore degli accordi - con queste parole:
a) il prodotto più caratteristico dell’azione sindacale ha l’aspetto esteriore di un contratto e l’anima della legge;
b) il sindacato si qualifica come un rappresentante sui generis, perché agisce nella veste più di un tutore incaricato di un munus publicum (funzione pubblica) che di un mandatario provvisto della procura rilasciata dai diretti interessati.c) Visto che il contratto collettivo si applica ad una platea composta di rappresentati e assistiti in senso tecnico, dove i secondi sovrastano numericamente i primi, anche i senza tessera sono dei soggetti sui generis. Come un celebre personaggio di Italo Calvino, sono dei soggetti dimezzati perché hanno una capacità d’agire limitata e di fatti lo stesso sindacato finisce per trattarli come bisognosi di un’autorità tutoria.
Sennonché, l’analisi dell’enunciato costituzionale mette in evidenza che il problema della democratizzazione del potere para legislativo di questo rappresentante sui generis è ineludibile. Alla fin dei conti, la garanzia di democraticità del funzionamento di quella che per i non iscritti è un’istituzione esterna, un altro da sé, risiederebbe essenzialmente nell’intensità (ampiezza, incisività) della partecipazione degli associati ai processi decisionali e nell’efficienza dei controlli interni sulle decisioni adottate. Non è molto, ma è tutto e sparirebbe se il sindacato fosse, come di solito è, un’associazione più virtuale che virtuosa.
Parole nette che illuminano la ragione costitutiva e costituente per cui i sindacati, una volta ridotta la partecipazione degli iscritti a quella di "assistiti paganti", al pari dei non iscritti (che non pagano "il servizio", ma vengono disciplinati da norme contrattuali su cui non hanno diritto di parola né, ormai quasi sempre, di voto), abbiano trapassato nella funzione di "tutori presunti" dei lavoratori, invece che loro "rappresentanti necessariamente dotati di mandato revocabile".
L'accordo del 31 maggio, e la velenosa proposta di Roberto Alesse (presidente dell'"autorità garante per il diritto di sciopero") di trasformarlo subito in legge, punta a trasformare questa condizione abnorme e incostituzionale in "quadro legale" entro cui i lavoratori dovrebbero restare espropriati per sempre della capacità di "rappresentare se stessi" dando vita ad altre organizzazioni o partecipando a quelle escluse da questo accordo.
L'accordo del 31 maggio, e la velenosa proposta di Roberto Alesse (presidente dell'"autorità garante per il diritto di sciopero") di trasformarlo subito in legge, punta a trasformare questa condizione abnorme e incostituzionale in "quadro legale" entro cui i lavoratori dovrebbero restare espropriati per sempre della capacità di "rappresentare se stessi" dando vita ad altre organizzazioni o partecipando a quelle escluse da questo accordo.
tratto da http://www.contropiano.org
6 luglio 2013
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Fiat-Fiom, una svolta imbarazzante
La Costituzione è uguale per tutti, per questo è a rischio
Francesco Piccioni
Quella della Corte Costituzionale è una sentenza che apre una falla gigantesca nell'accordo del 31 maggio tra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria. Ed è una conseguenza, forse involontaria, della strenua e giusta difesa messa in atto dalla Fiom per mantenere il proprio diritto alla presenza negli stabilimenti Fiat, fornendo così ai lavoratori un'alternativa rispetto alla finta “rappresentanza” dei sindacati “complici” (Fim-Cisl, Uilm, Fismic).
La sentenza non è ancora stata pubblicata, si conosce soltanto una breve nota in cui la stessa Corte Costituzionale dà conto di aver «dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 19, 1° c. lett. b) della legge 20 maggio 1970, n. 300 (c.d. “Statuto dei lavoratori”) nella parte in cui non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale sia costituita anche nell’ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie di contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell’azienda».
Poche parole, ma decisive. Qui c'era il punto forte del “modello Pomigliano” secondo i legali di Sergio Marchionne, che avevano sfruttato falle clamorose nel sistema delle relazioni industriali in Italia. La Costituzione, infatti, qualifica come “libera” l'attività sindacale, rinviando a leggi ordinarie il compito di regolare questo diritto, compresa la natura di un “sindacato” e dei contratti firmati tra le parti sociali (imprese e associazioni di imprese, sindacati singoli o coalizzati).
Ma erano stati gli stessi sindacati – e soprattutto il più grande di tutti, la Cgil – a non voler mai veder regolata la propria azione da una legge, preferendo sempre dare un fondamento “pattizio” a tutta l'attività contrattuale. La ragione era nella stessa forza del sindacato, nella sua capacità di rappresentare davvero la maggioranza assoluta dei lavoratori, nonostante la concorrenza “a destra” di Cisl e Uil. La storica “unità sindacale” tra le tre organizzazioni, sempre molto altalenante, aveva poi fatto il resto. Nessun contratto nazionale poteva essere stipulato senza la partecipazione della Cgil, questa la realtà fino ai primi anni del nuovo millennio.
Restava così nascosta la natura “bipolare” dello stesso sindacato, “libero soggetto di autotutela in una sfera di diritto privato e, nello stesso tempo, soggetto di una funzione pubblica”. Quindi abilitato a firmare come “soggetto privato” (collettivo, certo, ma mai “rappresentante di tutti i lavoratori”) dei contratti di natura altrettanto privata ma validi erga omnes quanto le leggi; ossia per tutte le imprese e tutti i lavoratori.
Finché la coalizione dei sindacati “maggiormente rappresentativi” ha rappresentato effettivamente l'unico soggetto contrattuale possibile, non si è avvertito il bisogno di regole inclusive o escludenti altri soggetti. Il sorgere di numerosi e frammentati soggetti sindacali “di base”, capaci di ottenere un'influenza rilevante in molte categorie soprattutto “pubbliche” (dalla scuola all'amministrazione centrale, dagli enti all'Alitalia, dai vigili del fuoco ai trasporti pubblici nazionali e locali, alla sanità, ecc) ha “disturbato” l'equilibrio del sistema delle relazioni industriali, inducendo a promuovere ben due referendum, poi tenutisi nel 1995. Il primo quesito – che vincolava la libertà d'azione sindacale alla firma dei contratti di categoria, proprio la parte di comma dell'art. 19 dichiarata oggi incostituzionale – raggiunse il quorum e la maggioranza. Il secondo, che liberalizzava l'attività sindacale anche alle sigle “non maggiormente rappresentative” ottenne il quorum, ma fu sconfitto con meno di 15.000 voti di scarto (i testimoni dell'epoca parlano di una valanga di “no” provenienti dalla regione Emilia Romagna, che rovesciarono all'ultimo minuto un esito che sembrava ormai scontato).
Il sindacalismo di base, da allora in poi, è stato costreto in varie “nicchie”, anche molto popolate, essendo spesso un soggetto rilevante e firmatario anche di accordi aziendali o di comparto; ma con difficoltà immense a diventare “soggetto generale”, non potendo mai accedere ai tavoli di contrattazione nazionali né “poter concorrere ad armi pari” nei posti di lavoro. Un concorrente in meno, con soddisfazione dei sindacati confederali “concertativi” (come si prese ad indicarli nel ventennio di politica della “concertazione” iniziata con il “protocollo” del luglio 1993) e del sistema delle imprese, che vedevano così stabilmente confinate le sigle con maggiore conflittualità.
Questo comma dell'art. 19 era stato però il varco giuridico in cui si era infilata tre anni fa la lama della Fiat. La categoria guidata da Maurizio Landini veniva da un rinnovo contrattuale “separato”, siglato soltanto da Cisl e Uil (oltre al sindacatino di casa Fiat, il Fismic erede del Sida); che tutti insieme, in quel momento, erano comunque meno rappresentativi della sola Fiom, in termini di iscritti e voti Rsu. Inoltre, fin dall'inizio aveva dichiarato che non avrebbe mai firmato il “modello Pomigliano”. “Non firmatario di contratto, quindi escluso dall'agibilità sindacale”, a termini di art. 19 dello Statuto. Il sotterfugio legale che fin lì aveva protetto Cisl, Uil e Cgil (quindi anche la Fiom) dalla concorrenza “basista”, veniva utilizzato contro una categoria della stessa Cgil e con il concorso attivo di Cisl e Uil. Sul piano nazionale, con la “riforma del modello contrattuale”, stava delineandosi una situazione simile per l'intera Cgil, che in un primo momento non lo aveva firmato.
Si “scopre” soltanto allora che, in assenza di una legge sulla rappresentanza sindacale e sui criteri di misurazione della “rappresentatività” di ogni sigla, un imprenditore o anche tutta la Confindustria potrebbe siglare contratti validi erga omnes anche con sindacati di comodo. Non solo. Si “scopre” che, una volta non firmato un contratto o un accordo, quel sindacato non potrà mai rientrare in partita. Se non a prezzo di conflitti durissimi, che correrebbero addirittura il rischio di essere considerati “illegali”.
Gli idioti e la destra considerano questo esclusivamente un “problema delle burocrazie sindacali”. In parte lo è, ma la questione principale è un'altra, sottolineata anche dalla Fiom durante lo scontro con Marchionne: in questo modo i lavoratori non possono più scegliersi i propri rappresentanti, non possono cioè difendersi collettivamente dalla volontà negativa della controparte. È l'azienda a scegliersi il “rappresentante dei lavoratori” che meglio fa al suo interesse.
La contraddizione che dovrebbe imbarazzare a questo punto soprattutto la Fiom è che il recente accordo sulla rappresentanza siglato da Camusso, Bonanni e Angeletti insieme a Confindustria, recepisce esattamente lo “schema Marchionne” e il comma dell'art. 19 ora dichiarato incostituzionale: chi non ha l'ha firmato non ha agibilità sindacale, non può negoziare, non può presentarsi alle elezioni per le Rsu né nominare le Rsa (dove previste). Anzi, ogni sua azione “ostativa” di contratti o accordi firmati da altri sarebbe passibile si “sanzioni”. Quindi, secondo quell'accordo, la Fiom – in quanto categoria della Cgil - avrebbe potuto mantenere l'agibilità in tutte le aziende, meno che in Fiat (uscita appositamente anche da Confindustria). Una contraddizione palese, impossibile da gestire.
Ora la Corte Costituzionale dice – indirettamente, certo, ma non mancheranno i giuslavoristi che fonderanno su questa sentenza valanghe di ricorsi contro qualsiasi applicazione dell'accordo del 31 maggio – che a nessuno può essere vietata l'agibilità sindacale; e che nessuno, per svolgerla, deve necessariamente aver firmato un accordo che non condivide (né, ne consegue logicamente, può esser sanzionato se ne ostacola l'applicazione); deve aver semplicemente “ partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell'azienda”. Se il risultato della negoziazione non risulta digeribile per alcuni dei protagonisti, questo non pregiudica la libertà d'azione sindacale sul posto di lavoro. Vale per la Fiom, ma anche per Usb, Cobas, Cub e qualsiasi altra sigla dovesse comparire in futuro.
È facilmente prevedibile – come subito suggerito dal presidente della cosiddetta “autorità garante per l'esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali”, Roberto Alesse – che ora si cercherà di “blindare” l'accordo del 31 maggio con una legge ordinaria in Parlamento. Ma anche questa strada sarà necessariamente a rischio di invalidazione da parte della Corte Costituzionale.
Cosa accadrà, allora? Il poeta cantava “prima cambiarono il giudice, e subito dopo la legge”. Invertendo gli addendi l'equazione non cambia: la questione della rappresentanza sindacale rientrerà probabilmente tra gli argomenti della “riforma costituzionale” che questa bislacca “maggioranza di governo” ha dichiarato di voler portare a termine. Non possiamo che augurar loro il più completo dei fallimenti. Anche perché il segno di questo sentiment anticostituzionale è stata fornito proprio ieri dal Consiglio nazionale di Difesa, che ha stabilito che gli acquisti di armamenti non sono più materia su cui il Parlamento – il “popolo sovrano”! - ha diritto di metter bocca. Ci penserà il governo, e basta. Come in uno stabilimento Fiat....
tratto da Il Manifesto
La scelta del nome "Commissione Comunista Operaia" (CCO) (autunno 1976)
giovedì 27 giugno 2013
· Posted in
AST.,
La scelta del nome "Commissione Comunista Operaia" (CCO) (autunno 1976)
Come ho ricordato nel frammento di memoria “Nel Consiglio di Fabbrica della Belleli (1976-1980)” (pubblicato su questo sito), quando fui eletto delegato del Consiglio di Fabbrica nell’autunno 1976 “facevo parte allora di una piccola organizzazione di base costituita da lavoratori e da delegati sindacali e ci proponevamo di portare avanti quelli che, secondo noi, erano gli interessi immediati dei lavoratori inserendoli nella prospettiva della emancipazione storica come classe (la “Commissione Comunista Operaia”, CCO per noi e i nostri simpatizzanti).”
Anzi, per essere preciso, fondammo la CCO proprio nell’autunno del 1976. Allora eravamo appena in quattro ma, con l’andar del tempo, aumentammo pian piano di numero (sempre, per la verità, con piccoli numeri) man mano che aumentava la nostra notorietà e crescevano i consensi nei confronti delle nostre posizioni politiche tra i lavoratori delle fabbriche della zona industriale di Mantova e dei comuni vicini (di Porto Mantovano, in particolare).
All’inizio eravamo in quattro … Fu Albino, un compagno fuoriuscito da Lotta Comunista che io e mia moglie ospitavamo a casa nostra per solidarietà proletaria e per simpatia umana, a spingerci ad uscire dalle nostre posizioni di critica radicale “astratta” di quel periodo (improntate al rifiuto del “cattivo esistente”, per dirla alla T. W. Adorno) e ad imboccare di nuovo la strada della “prassi” politica. Ma prima di arrivare a quel punto, su consiglio di Albino, avevo affrontato un percorso di progressivo avvicinamento alla teoria “leninista” partecipando a tutte le relazioni pubbliche di Lotta Comunista (cosa che mi spinse a leggere le “Opere scelte” per farmi un’idea personale della interpretazione leninista del marxismo).
Dopo mesi di discussioni e dibattiti tra noi quattro, che provenivamo da esperienze politiche ed esistenziali diverse ed avevamo sensibilità politiche (e, ovviamente, personali) molto diverse, decidemmo ch’era giunto finalmente il momento di passare alla pratica. Si approssimava l’autunno del 1976 e pensavamo che fosse doveroso “scendere in campo” per contribuire all’avanzata del movimento dei lavoratori e del proletariato che, nonostante le stragi di Stato (Piazza della Fontana, Piazza della Loggia, l’Italicus, e quelle minori) e nonostante la repressione continua delle avanguardie di lotta, sembrava deciso ad affermare i propri diritti e, con ciò, a radicalizzare la crisi del sistema borghese.
Io ero propenso a continuare al “vecchio” modo della controcultura: darsi un nome diverso a seconda delle specifiche caratteristiche della fase. Questo significava, implicitamente, che, secondo me, la nostra avrebbe dovuto proporsi a livello progettuale come una “organizzazione per obiettivi”, che poteva cambiare nome e composizione – quanto agli appartenenti – a seconda delle esigenze di crescita della lotta fase per fase (allora non si contemplava l’ipotesi di dover arretrare pesantemente, com’è accaduto invece successivamente a partire dalla sconfitta dell’ottobre 1980 alla FIAT). D’altra parte, questa era la mia esperienza personale: da “Un occhio in due” fino alle “Streghe”, continuando a cambiare compagni di lotta e di strada, e nome del collettivo di riferimento.
Albino, che invece aveva frequentato le scuole di formazione politica prima nella FGCI e poi in Lotta Comunista, mise noi tre “spontaneisti” davanti al fatto che il “San Paolo del movimento comunista internazionale”, il compagno Lenin, aveva detto che la questione del nome dell’organizzazione era fondamentale per la implicita dichiarazione del suo programma e per la sua riconoscibilità e identificazione da parte degli strati proletari di riferimento (come si diceva allora: gli strati proletari di avanguardia).
Così, si avviò il dibattito tra noi sul nome da assumere come organizzazione, il nostro piccolo strumento di lotta. Condividevamo tutti l’idea che ci dovesse essere un chiaro richiamo alla classe operaia, perché era il nostro comune riferimento (“La classe operaia deve dirigere tutto” all’epoca era uno degli slogan non solo dei maoisti, ma anche dei comunisti consiliaristi, degli operaisti, ecc.). Albino sosteneva che nel nome ci doveva essere un riferimento anche al comunismo, perché gli operai senza la guida del Partito non si elevano alla coscienza di classe ma, al più, maturano una coscienza sindacale. Nel bel mezzo della discussione, mi venne un’idea: “Frazione Comunista Operaia”. << Perché Frazione?>> mi chiese Albino, con il tono tra il mellifluo e il perentorio che assumeva quando si investiva del ruolo di commissario politico nei confronti della nostra “armata Brancaleone”. “Perché non siamo un partito e neppure una vera e propria organizzazione, ma una particella, una frazione del movimento comunista.” risposi pronto, ma lui aveva capito qual’era il “conio” da cui proveniva il termine “frazione” e mi obiettò: <> E, dopo un attimo di esitazione, aggiunse: << Se proprio, come mi pare di capire, vogliamo comunque far sentire anche nel nome il nostro comune sentimento internazionalista, allora propongo che il nome sia Commissione Comunista Operaia, in onore delle Comisiones Obreras organizzate dal PCE negli anni ‘60 in Spagna per condurre la lotta di resistenza sindacale e politica clandestina contro il regime fascista di Franco.>>
Inutile dirlo che fummo tutti d’accordo e che il nome che adottammo per la nostra piccola organizzazione “dal basso” fu proprio “Commissione Comunista Operaia”.
Esordimmo con una campagna massiccia di affissioni: nel giro di 2-3 notti attacchinammo in giro per Mantova e nella zona industriale 300 manifesti dal contenuto inequivocabile: “Nessun sacrificio, non collaborare!”. 300 manifesti in una cittadina di neppure sessantamila abitanti erano tanti (rispetto ai livelli globali della comunicazione all’epoca): ce n’erano davanti alle fabbriche della zona industriale, sulla stazione delle corriere, davanti all’INAM, davanti all’INPS, davanti all’ospedale, davanti all’ENEL, davanti alla SIP, sulle cabine telefoniche in città, ecc. Non si poteva non notarli. Fu un esordio con il “botto”.
Purtroppo, la campagna ebbe come conseguenza inattesa l’abbandono di M. che ci disse che si era reso conto di non essere portato per il tipo di iniziative che noi volevamo attuare e tornò alla sua attività di artista d’avanguardia. Ma fu presto rimpiazzato da Bruno, un giovane operaio delegato di una fabbrica importante di Porto Mantovano, la TecnoSalotto. L’ingresso di Bruno fu determinante per lo sviluppo della CCO sotto vari aspetti: la sua grande esperienza di lotte di fabbrica, il prestigio di cui godeva come delegato combattivo presso gli operai della zona industriale di Porto Mantovano, la sua capacità di elaborazione autonoma della linea politica e sindacale, non da ultimo, la sua concretezza operaia che fungeva da antidoto rispetto alla tendenza ad ideologizzare mia e di Albino.
Pian piano aumentammo di numero e godevamo di consensi e appoggi operai (soprattutto alla Belleli, alla TecnoSalotto e in altre fabbriche minori). Quando ci sentimmo sufficientemente radicati nelle fabbriche, decidemmo di aprire il “fronte giovani”, contando sulla esperienza che alcuni di noi avevano avuto nel movimento studentesco degli anni precedenti. Così, nel marzo 1978, aprimmo un centro di documentazione militante davanti alla stazione di Mantova, il Filo Rosso. A quel punto la nostra piccola organizzazione aveva due livelli: la CCO che era l’organismo “operaio” dirigente e il Filo Rosso che era il nostro organismo giovanile “di massa” con una trentina di iscritti/partecipanti alle varie iniziative.
La CCO si sciolse nel 1982 a seguito dell’ondata repressiva che si abbatté sulle avanguardie di lotta nella stagione degli arresti di massa (circa 7000 persone imputate in processi per ‘associazione sovversiva’, ‘banda armata’ e ‘insurrezione armata contro i poteri dello Stato’, tra la fine degli anni ’70 e la fine degli anni ’80. Fonte: “La mappa perduta”, Edizioni Sensibili alle foglie, 2006).
Dante Goffetti
Bergamo, 1° novembre 2012
Bergamo, 1° novembre 2012
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