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Cremaschi: perchè lascio la CGIL

Ricordiamo Giorgio Cremaschi ad ottobre 2014 davanti ai cancelli TK che svelava i meccanismi con cui, nel 2004, si ritrovò a firmare un accordo per la FIOM in cui ufficialmente si affermava che il magnetico sarebbe rimasto a Terni mentre era stato concordato da sindacati, amministrazioni locali (Regione, provincia e Comune) e padroni della TK che sarebbe stato spostato in Germania.E' tornato a Terni durante il lungo sciopero dell'autunno scorso per chiedere scusa agli operai per la firma messa come funzionario nazionale FIOM e per avvertirli di evitare la concertazione tra sindacato e padroni che si sarebbe conclusa con grandi proclami di vittoria nei giornali e nei mass media e con una sconfitta reale dei lavoratori. Proprio quello che è successo poi.
A Giorgio un solo commento, per le sue necessarie e attese dimissioni da quel baraccone come la CGIL orfano della concertazione che ha svenduto diritti dei lavoratori per privilegi alla propria organizzazion e e alla casta sindacale: MEGLIO TARDI CHE MAI....
qui sotto le motivazioni di Cremaschi per le dimissioni dalla CGIL
La ragioni per le quali ho restituito dopo 44 anni la tessera della Cgil sono semplici e brutali. Oramai mi sento totalmente estraneo a ciò che realmente è questa organizzazione e non sono in grado minimamente di fare sì che essa cambi.La mia è quindi la presa d’atto di una sconfitta personale: ci ho provato per tanto tempo e credo con rigore e coerenza personale, non ci sono riuscito. Anzi la Cgil è sempre più distante da come avrei voluto che fosse. Non parlo tanto dei proclami e
delle dichiarazioni ufficiali, ma della pratica reale, della vita quotidiana che per ogni organizzazione, in particolare per un sindacato, è l’essenza. Non è questo il sindacato che vorrei e di cui credo ci sia bisogno, e soprattutto non vedo in esso la volontà di diventarlo.
Naturalmente mi si può giustamente rispondere: chi ti credi di essere? Certo la mia è la storia di un militante come ce ne sono stati tanti, che ha speso tanto nell’organizzazione ma che non può pretendere di essere al centro del mondo. Giusto, tuttavia credo che la mia fuoriuscita possa almeno essere registrata come un pezzetto della più vasta e diffusa crisi sindacale di cui tanto si parla, e che come tale possa essere collocata e spiegata.
Nei primissimi anni 70 del secolo scorso a Bologna come lavoratore studente ho preso con orgoglio la mia prima tessera Cgil. Poi sono stato chiamato a Brescia per cominciare a lavorare a tempo pieno nella Fiom. Nella quale sono rimasto fino al 2012. Ho visto cambiare il mondo, ma se tornassi indietro con la consapevolezza di oggi rifarei tutte le scelte di fondo. Scherzando penso che io ed il mondo siamo pari, io non sono riuscito a cambiarlo come volevo, ma pure lui non ce l’ha fatta con me.
CremaschiQuando ho cominciato a fare il “sindacalista” a tempo pieno questa parola suscitava rispetto. Io la maneggiavo con un pò di timore. Il sindacalista era una persona giusta e disinteressata che raddrizzava i torti, era il difensore del popolo. Oggi se dici che sei un sindacalista ti vedi una strana espressione intorno, molto simile a quella che viene rivolta ai politici di professione. Sindacalista eh? Allora sai farti gli affari tuoi…
Questo discredito del sindacato è sicuramente alimentato da una disegno del potere economico e delle sue propaggini politiche ed intellettuali. Ma è anche frutto della burocratizzazione e istituzionalizzazione delle grandi organizzazioni sindacali. Paradossalmente oggi è proprio il sindacalismo moderato della concertazione, che ho contrastato per quanto ho potuto, ad essere messo sotto accusa.
Negli anni 80 e 90 è stata la mutazione genetica del sindacato più forte d’Europa, la sua scelta di accettare tutti i vincoli e le compatibilità del mercato e del profitto, che ha permesso al potere economico di riorganizzarsi e riprendere a comandare. In cambio le grandi organizzazioni sindacali hanno chiesto compensazioni per se stesse.
Questo è stato il grande scambio politico che ha accompagnato trent’anni di politiche liberiste contro il lavoro. I grandi sindacati accettavano la riduzione dei diritti e del salario dei propri rappresentati e in cambio venivano riconosciuti ed istituzionalizzati. Partecipavano ai fondi pensione, a quelli sanitari, agli enti bilaterali, firmavano contratti che costruivano relazioni burocratiche con le imprese, stavano ai tavoli dei governi che tagliavano lo stato sociale, insomma crescevano mentre I lavoratori tornavano indietro su tutto.
Quando il mondo del lavoro è precipitato nella precarietà e nella disoccupazione, quando si è indebolito a sufficienza, il potere economico reso più famelico dalla crisi, ha deciso che poteva fare a meno dello scambio della concertazione. Ha dato il via Marchionne e tutti gli altri lo hanno seguito. Quelle concessioni sul ruolo e sul potere della burocrazia, che le stesse imprese ed il potere politico elargivano volentieri in cambio della “responsabilità” sindacale, son state messe sotto accusa. Coloro che più si sono avvantaggiati dei “privilegi” sindacali ora sono i primi a lanciare lo scandalo su di essi.
giorgio-cremaschi.jpg.aspx copiaI vecchi compagni da cui ho imparato l’abc del sindacalista mi dicevano: se al padrone dai una mano poi si prende il braccio e tutto il resto. Ma nel mondo moderno certe massime sono considerate anticaglie, e quindi i gruppi dirigenti dei grandi sindacati son rimasti sconvolti e travolti dalla irriconoscenza di un potere a cui avevano fatto così ampie concessioni. Hanno così finito per fare propria la più grande delle falsificazioni sul loro operare. I sindacati hanno difeso troppo gli occupati e abbandonato i giovani ed i precari, questo è passato nei mass media. Mentre al contrario non si sono trasmessi diritti alle nuove generazioni proprio perché si è rinunciato a difendere coloro che quei diritti tutelavano ancora. I grandi sindacati han subito la catastrofe del precariato non perché troppo rigidi, ma perché troppo subalterni e disponibili verso le controparti. Questa è la realtà rovesciata rispetto all’immagine politica ufficiale, realtà che qualsiasi lavoratrice o lavoratore conosce perfettamente sulla base della proprie amare esperienze.
La condizione del lavoro in Italia oggi è intollerabile e dev’essere vissuta come un atto di accusa da ogni sindacalista che creda ancora nella propria funzione. Non è solo lo perdita di salari e diritti, il peggioramento delle condizioni di lavoro, lo sfruttamento brutale che riemerge dal passato di decenni. Sono la paura e la rassegnazione diffuse, il rancore, la rottura di solidarietà elementari, che mettono sotto accusa tutto l’operato sindacale di questi anni.
Di Vittorio rivendicò alla Cgil il merito di aver insegnato al bracciante che non ci si toglie il cappello quando passa il padrone. Di chi è la colpa se ora chi lavora deve piegarsi e sottomettersi come e peggio che nell’800? È chiaro che la colpa è del potere economico e di quello politico ad esso corrivo, oggi ben rappresentato da quella figura trasformista e reazionaria che è Matteo Renzi. È chiaro che c’è tutto un sistema culturale e mediatico che educa il lavoro alla rassegnazione e alla subordinazione all’impresa. Ma poi ci son le responsabilità da questo lato del campo, quelle di chi non organizza la contestazione e la resistenza.
Lascio la Cgil perché non vedo nei gruppi dirigenti alcuna volontà di cogliere il disastro in cui è precipitato il mondo del lavoro e le responsabilità sindacali in esso. Vedo una polemica di facciata contro le politiche di austerità e del grande padronato, a cui corrispondono la speranza e l’offerta del ritorno alla vecchia concertazione. E se le dichiarazioni ufficiali, come sempre accade, fanno fuoco e fiamme sui mass media, la pratica reale è di aggiustamento e piccolo cabotaggio, nell’infinita ricerca del minor danno. Il corpo burocratico della Cgil è più rassegnato dei lavoratori posti di fronte ai ricatti del mercato e delle imprese, come può comunicare coraggio se non ne possiede? Certo ci sono tante compagne e compagni che non si arrendono , che fanno il loro dovere, che rischiano, ma la struttura portante dell’organizzazione va da un’altra parte, è dominata dalla paura di perdere il residuo ruolo istituzionale e quando ci sono occasioni di rovesciare i giochi, volge lo sguardo da un’altra parte. Quando la FIOM nel 2011 si è opposta a Marchionne, quando Monti ha portato la pensione alla soglia dei 70 anni, quando si è tardivamente ripristinato lo sciopero generale contro il governo, in tutti quei momenti si è vista una forza disposta a non arrendersi. Quei momenti non sono lontani, eppure sembrano distare già decenni perché subito dopo di essi i gruppi dirigenti son tornati al tran tran quotidiano. E temo che lo stesso accada ora nel mondo della scuola ove un grande movimento di lotta non sta ricevendo un adeguato sostegno a continuare.
Non si può ripartire se l’obiettivo è sempre solo quello di trovare un accordo che permetta all’organizzazione di sopravvivere. Così alla fine si firma sempre lo stesso accordo in condizioni sempre peggiori. In fondo è una resa continua. Il 10 gennaio 2014 CGiL CISL UIL hanno firmato con la Confindustria un’intesa che scambia il riconoscimento del sindacato con la rinuncia alla lotta quotidiana nei luoghi di lavoro. Una volta che la maggioranza dei sindacati firma un contratto la minoranza deve obbedire e non può neppure scioperare. Se non accetti questa regola non puoi presentarti alle elezioni dei delegati. Se negli anni 50 del secolo scorso la Cgil, in minoranza nelle grandi fabbriche, avesse accettato un sistema simile non avremmo avuto l’autunno caldo e lo Statuto dei Lavoratori. Che non a caso oggi il governo cancella sicuro che le grida sindacali non siano vera opposizione.
Il movimento operaio nella sua storia ha incontrato spesso dure sconfitte, ma le ha superate solo quando le ha riconosciute come tali e quando ha cambiato la linea politica, la pratica e, a volte, i gruppi dirigenti. Invece nulla oggi viene davvero rimesso in discussione.
La Cgil ha sempre avuto una dialettica interna. Tra linee politiche, tra esperienze, tra luoghi di lavoro, territori e centro, tra categorie e confederazione. Dagli anni 90 il confronto tra maggioranza e minoranze si è intrecciato con quello tra la FIOM e la confederazione. In questi confronti e conflitti si aprivano spazi di esperienze ed iniziative controcorrente. Oggi tutto questo non c’è più. Una normalizzazione profonda percorre tutta l’organizzazione e l’ultimo congresso le ha conferito sanzione formale. Non facciamoci ingannare dalle polemiche televisive e dalle imboscate di qualche voto segreto. Fanno parte di scontri di potere tra cordate di gruppi dirigenti, mentre tutte le decisioni più importanti son state assunte all’unanimità, salvo il voto contrario della piccola minoranza di cui ho fatto parte e di cui non si è mai tenuto alcun conto.
Una piccola minoranza che al congresso ha raggiunto successi insperati là dove c’erano le persone in carne ed ossa, ma che nulla ha potuto contro i tanti risultati bulgari per partecipazione e consenso verso i vertici, costruiti a tavolino. Con l’ultimo congresso la struttura dirigente della Cgil ha deciso di ingannare se stessa. La partecipazione bassissima degli iscritti è stata innalzata artificialmente per mascherare una buona salute che non c’è. Ed il resto è venuto di conseguenza. A differenza che nel passato non ci son più problemi nella vita interna della Cgil, tutto è pacificato a parte i puri conflitti di potere. Ma forse anche per questo la Cgil non ha mai contato così poco nella vita sociale e politica del paese.
A questo punto non bastano rinnovamenti di facciata, sono necessarie rotture di fondo con la storia e la pratica degli ultimi trenta anni.
Bisogna rompere con un sistema Europa che è infame con i migranti mentre si genuflette di fronte all’euro. I diritti del lavoro sono incompatibili con una moneta unica i cui vincoli,come ha ricordato il ministro delle finanze tedesco, sono tutt’uno con le politiche di austerità.Bisogna rompere con il PD ed il suo sistema di potere se non se ne vuol venire assorbiti e travolti.
Bisogna rompere con le relazioni subalterne con le imprese e ripartire dalla condizione concreta dei lavoratori .
Questo rotture non sono facili, ma sono indispensabili per ripartire e sono impossibili nella Cgil di oggi.
Certo, fuori dalla Cgil non c’è una alternativa di massa pronta. Ci sono lotte, movimenti, sindacati conflittuali generosi e onesti, ma spesso distanti se non in contrasto tra loro. Ma questa situazione frantumata per me non giustifica il permanere in un’organizzazione che sento indisponibile anche solo a ragionare su queste rotture.
So bene che la svolta positiva per il mondo del lavoro ci sarà quando tutte le organizzazioni sindacali, anche le più moderate, saranno percorse da un vento nuovo. Ho vissuto da giovane quei momenti. Ma ho anche imparato che nell’Italia di oggi questo cambiamento sarà possibile solo se promosso da una spinta organizzata esterna a CGIL CISL UIL. A costruirla voglio dedicare il mio impegno.
Per questo lascio la Cgil da militante del movimento operaio così come ci sono entrato. Saluto con grande affetto le compagne e compagni di tante lotte che non condividono questo mio giudizio finale. Siccome li conosco e stimo, so che ci ritroveremo in tanti percorsi comuni. Saluto anche tutte e tutti gli altri compagni, perché ho fatto mio l’insegnamento di Engels di avere avversari, ma mai nemici personali.
Grazie soprattutto a tutte le lavoratrici e a tutti i lavoratori che hanno insegnato a me, intellettuale piccolo borghese come si diceva una volta, cosa sono le durezze e le grandezze della classe operaia. Spero di poter apprendere ancora.
Giorgio Cremaschi

Quote di assistenza contrattuale, quella tassa occulta pagata ai sindacati

 Le associazioni di categoria ricavano questi introiti dalle buste paga dei lavoratori, così come i "gettoni di presenza" presso gli enti bilaterali. Al ministero del Lavoro li definiscono una "royalty" per avere chiuso i contratti, a Cgil, Cisl e Uil servono a fare quadrare i bilanci di  | 

In molti credono che i sindacati siano finanziati dalle quote dei propri iscritti. Nelle pieghe di bilanci – che per quanto riguarda le categorie o i comitati regionali non sono consultabili – si possono scoprire invece altre voci, diverse da quelle relative alle tessere degli iscritti. Voci complicate, poco conosciute, come le “quote di assistenza contrattuale” o i “gettoni di presenza” presso Enti bilaterali o altri istituti analoghi. Prendiamo il bilancio del più grande sindacato di categoria dellaCgil, dopo i pensionati, la Filcams, che organizza i lavoratori del Commercio del Terziario e del Turismo. Nel 2010, anno cui si riferisce il bilancio in nostro possesso, i ricavi per contributi sindacali, le tessere, ammontavano a 1,7 milioni di euro mentre quelli per le “quote di assistenza contrattuale” erano molto più alti, 2,15 milioni e 685 mila euro provenivano da “gettoni di presenza”. Solo il 37 per cento delle entrate, quindi, proveniva dalle tessere degli iscritti, meno della metà del totale.
Ma cosa sono le “quote di assistenza contrattuale”? La cifra è presente in molti degli oltre 400 contratti stipulati dai sindacati nazionali (l’elenco completo è consultabile sul sito del Cnel) e rappresenta una quota straordinaria che i sindacati e i datori di lavoro prelevano dalle buste paga dei lavoratori per aver concluso il contratto. Un premio per il lavoro fatto. Nell’ultimo Ccnl (contratto nazionale) dei metalmeccanici, ad esempio, Fim e Uilm hanno richiesto un contributo “una tantum di 30 euro per ogni lavoratore non iscritto al sindacato da trattenere sulla retribuzione”. Sul contratto, poi, era indicato il conto corrente bancario (presso il Credito cooperativo di Roma) su cui effettuare il versamento. Parlando di circa un milione di lavoratori è facile fare i conti. Per quanto riguarda i contratti del Commercio e del Terziario, la sola Filcams ha iscritto in bilancio 2,15 milioni che vanno moltiplicati per tre (cioè anche per Cisl e Uil) e poi per due (la parte datoriale). Il totale, quindi, è di circa 15 milioni di euro che rimpolpa bilanci spesso piuttosto magri. Un fiume di denaro assicurato dalla pratica del “silenzio-assenso”, per cui sono i lavoratori a dover mettere per iscritto il proprio rifiuto a versare la “tassa occulta”. Ma sono in pochi a saperlo.
Quella quota, poi, spesso è mescolata all’altra contribuzione poco nota, quella relativa agli Enti bilaterali. Questi organismi, governati alla pari da sindacati e imprese, sono stati istituiti nel 2003 dalla legge 30 e vengono regolamentati dai contratti nazionali e/o territoriali. Servono a offrire prestazioni e servizi ai lavoratori sul piano della formazione professionale o del sostegno al reddito. Solo nel settore del Commercio e dei Servizi, la Filcams ne ha conteggiati circa 200 tra i 20 nazionali e i 194 provinciali e regionali. Ma ormai sono presenti in ogni categoria contrattuale e, come spiega al Fatto il segretario generale del ministero del Lavoro, Paolo Pennesi, “svolgono un ruolo di supporto all’attività pubblicistica” ma sono comunque regolati dal diritto privato. Quindi, di fatto, non sono soggetti a particolari controlli “se non quelli relativi alla loro affidabilità basata sul fatto di essere emanazione di sindacati rappresentativi”.
Il problema è che anche questi Enti ricevono un contributo dai lavoratori: generalmente dello 0,3-0,5 per cento che però, in alcuni casi, sale all’1 per cento della retribuzione. Circa 50 euro l’anno a lavoratore per qualche milione di addetti. Una mole di denaro non rendicontato e non sottoposto ad alcun controllo. Uno studio della Filcams del 2011, relativo al proprio comparto, notava che le risorse “a favore dei lavoratori e delle imprese non superano quasi mai il 50 per cento dei contributi incassati dai singoli enti” oppure che, per quanto riguarda i compensi, si possono “raggiungere indennità elevatissime fino a 70 mila euro annui per una presidenza”.
Un particolare Ente bilaterale, come l’Enasarco che gestisce il fondo pensioni per gli Agenti di commercio, spende ogni anno, per retribuire i suoi 18 amministratori (Cda e Collegio sindacale) 1,3 milioni di euro, oltre 72 mila euro a testa. Ma il presidente, Brunetto Boco, percepisce molto di più. E Boco è anche il segretario generale della UilTucs, il sindacato del Commercio, Turismo e Servizi. Lo stesso dottor Pennesi ricorda che il ministero del Lavoro ha già chiarito “che gli accordi in materia di bilateralità impegnano soltanto le parti aderenti”. In questo spirito, dunque, fa notare, anche le quote di assistenza contrattuale, definite alla stregua di “royalties”, dovrebbero poter essere imposte “solo a chi è iscritto” ai sindacati, dei lavoratori o delle aziende.
“In realtà i nostri contributi derivano principalmente dalle tessere”, spiegano sia in Cgil che in Cisl anche se, ammettono, le quote di assistenza sono un modo in cui “soprattutto le categorie più deboli” compensano iscrizioni basate su stipendi bassi (la tessera al sindacato mediamente è l’1 per cento della retribuzione). “Si tratta di un metodo utilizzato dal sindacato anglosassone” spiegano in Cisl dove in molti dichiarano conclusa “l’epoca del sindacalismo gratuito”.
Il fenomeno delle entrate aggiuntive alle iscrizioni è molto più ampio, e opaco, se si considerano i contributi indiretti provenienti dal settore pubblico. La tanto decantata, e assolutamente priva di risultati, “relazione Amato sul finanziamento diretto e indiretto del sindacato” indicava in 113 milioni di euro il costo dei circa 2mila distacchi sindacali; in 330 milioni il trasferimento dagli Istituti di previdenza ai Patronati nazionali; in 170 milioni le convenzioni dei Caf, i centri di assistenza fiscale che, in più, ricevono dallo Stato 14 euro per ogni singola dichiarazione dei redditi e 26 euro per quelle in forma congiunta. Formalmente questi soldi non vanno a Cgil, Cisl e Uil che però gestiscono quegli istituti con tutti i vantaggi del caso. Come si può vedere, le vie del finanziamento al sindacato sono infinite. da Il Fatto Quotidiano del 15 gennaio 2014

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