Il 17 marzo 1861 il Regno di Sardegna assunse il nome di Regno d’Italia, in seguito all’annessione del grosso dei territori degli stati pre-unitari. Si attuò, così, l’unificazione politica parziale della penisola italiana da parte della nobiltà e della borghesia piemontesi. Non vi fu, pertanto, la costituzione di una nuova entità statuale, bensì un semplice cambio di denominazione del precedente Stato piemontese. La prima convocazione del parlamento italiano avvenne, in ogni caso, il 18 febbraio 1861. Nel gennaio 1861 si erano tenute le elezioni per il primo parlamento unitario. Su quasi 26 milioni di abitanti, il diritto a votare fu concesso dai nuovi governanti solo a 419.938 persone (circa l’1,8%), sebbene soltanto 239.583 si recassero a votare; alla fine i voti validi si ridussero a 170.567, dei quali oltre 70.000 erano di impiegati statali. Vengono eletti 85 fra principi, duchi e marchesi, 28 ufficiali, 72 fra avvocati, medici ed ingegneri. Quest’anno si celebra dunque il 150° anniversario non dell’”unità” d’Italia, ma della piemontesizzazione del paese sotto l’egida monarchica (Vittorio Emanuele II è il primo re d’Italia nel periodo 1861-1878), che affossò i vari progetti federalistici (D’Azeglio, Ricasoli, Cattaneo), repubblicani unitari (Mazzini) e socialisteggianti (Pisacane)[1]. L’Italia come la conosciamo oggi sorse, in realtà, più tardi. Nel 1866, a seguito della terza guerra di indipendenza, vengono annessi al regno il Veneto (che allora comprendeva anche la Provincia del Friuli) e Mantova sottratti all’Impero Austro-Ungarico. Nel 1870, con la presa di Roma, al regno viene annesso il Lazio, sottraendolo definitivamente allo Stato della Chiesa. Roma diventa ufficialmente capitale d’Italia (prima lo erano state nell’ordine Torino e Firenze). Il tratto caratteristico del processo di unificazione italiana, quello anti-proletario e sanguinario, è dato dalla questione meridionale. Il primo atto di Garibaldi dopo il suo sbarco sul continente napoletano fu la distribuzione ai contadini delle terre demaniali, il che gli assicurò il loro appoggio alla sua marcia trionfale su Napoli. Subito dopo l’annessione del napoletano al regno d’Italia, quelle misure furono revocate, sancendo la frattura storica e sociale tra risorgimento borghese e masse contadine meridionali. Essa si manifesta drammaticamente prima con la brutale repressione bixiana della rivolta contadina in Sicilia (Bronte, Randazzo, Castiglione, Regalbuto, Centorbi ecc. nel 1860); e, subito dopo, con il c.d. brigantaggio meridionale e la sua repressione (1861-1865). Si tratta di una vera e propria guerra civile dei contadini del sud contro le forze di occupazione coloniale piemontesi (200.000 soldati, cioè la metà dell’esercito italiano dell’epoca), la quale vedrà più caduti in combattimento di tutte le battaglie delle tre guerre d’indipendenza contro l’Austria insieme considerate (ai quali occorre aggiungere le vittime di azioni di rappresaglia contro la popolazione civile, i 2.000 uomini fucilati perché trovati in possesso di armi, e i 20.000 prigionieri condannati alla deportazione o ai lavori forzati). Solo nel 1865 la rivolta è spenta nel sangue, lasciando i contadini dell’Italia meridionale in uno stato di disperata rassegnazione; e i grandi proprietari terrieri semi-feudali del sud saldamente al potere, protetti dalle baionette piemontesi, con al suo fianco una tremebonda e debole borghesia (agraria, commerciale e industriale). L’unificazione dell’Italia porta il marchio d’origine dell’accumulazione tipica del regno di Sardegna, che è quella che imporrà i suoi tratti distintivi ai centri concorrenti lombardi e liguri, e a tutti gli altri dell’Italia centro-meridionale. L’accumulazione capitalistica del regno di Sardegna è perfettamente personificata ed esemplificata dalla figura di Camillo Benso conte di Cavour: da nobile proprietario di terreni coltivati a riso, li trasforma in azienda capitalistica risicola; e, coi profitti della vendita del suo riso, investe in una fabbrica di candele e partecipa alla fondazione di una Banca di Sconto. Il risorgimento liberale si attuerà, come si è detto, nella forma di una “piemontesizzazione” dell’Italia, cioè di una ascesa al potere della borghesia piemontese moderata senza una vera e propria rivoluzione borghese, dalla quale emergerà, come strato sociale dominante, quello dell’aristocrazia (fondiaria) imborghesita. La politica economica avviata dal Cavour subordinerà lo sviluppo manifatturiero ed industriale a quello di una agricoltura esportatrice di derrate alimentari per il mercato europeo. Tale politica favorirà la trasformazione capitalistica dell’economia agraria padana e di alcune delle più avanzate fattorie del centro (es. in Toscana); nel mentre conserverà intatto l’assetto cerealicolo-latifondistico del sud. La sconfitta di tutte le tendenze borghesi repubblicane (Mazzini e Cattaneo in testa), suggella così la sconfitta del modello industriale di accumulazione capitalistica originaria (tipico dell’Inghilterra), a favore di un modello agrario di matrice sociale aristocratico-latifondista. Altro segno indelebile del modello piemontese di accumulazione originaria è quello dato dal “problema finanziario”. Tale problema non sorge per l’arretratezza e il sottosviluppo dell’economia italiana dell’epoca, bensì per la volontà politica dell’oligarchia governativa dell’Italia post-unitaria di non caricare di imposte dirette i redditi delle classi proprietarie di cui essa è espressione. Soprattutto nasce dal fatto che il nuovo stato unitario si è accollato i pesantissimi deficit degli stati pre-unitari, riconoscendo tutto il loro debito pubblico, che avrebbe invece potuto cancellare, avendo esso distrutto tali stati. Ma i titoli del debito pubblico dei territori ex-borbonici ed ex-pontifici annessi al nuovo regno sono detenuti per la maggior parte da quei grandi proprietari terrieri semi-feudali i cui diritti acquisiti i liberali piemontesi si sono impegnati a rispettare; e in parte minore, sono detenuti da banche francesi, i cui interessi sono diventati intangibili in séguito all’alleanza piemontese con Napoleone III. In conseguenza di tutto ciò, le spese del nuovo regno vengono ad essere sin dall’inizio assai superiori alle sue entrate, tanto che, per far fronte al deficit, devono essere emessi in continuazione nuovi titoli del debito pubblico, i cui interessi (molto elevati per renderne possibile la collocazione in una situazione di sfiducia verso le possibilità dello Stato unitario) allargano a loro volta il deficit, in un drammatico circolo vizioso. Il marchio d’origine del capitalismo italiano sarà la commistione tra rendita parassitaria, interesse speculativo e profitto assistito dallo Stato; il tutto assicurato dal super-sfruttamento del proletariato, soprattutto meridionale, nonché della sua componente femminile e minorile. Armatori e commercianti tentano una breve e fallimentare politica coloniale (1869-1896), che non ha basi industriali sufficienti di supporto. Si potrebbe dire, in definitiva, che quello italiano non è tanto un capitalismo senza capitali (o senza materie prime), bensì un capitalismo senza veri e propri capitalisti industriali, e con un proletariato super-sfruttato ma con un bagaglio di lotta di classe pluri-secolare. La mancata formazione in Italia di una vera e propria classe di imprenditori industriali è strettamente legata alla mancata rivoluzione borghese in Italia. Mancata, non a causa di una passività – che abbiamo visto non esserci affatto stata – dei contadini, bensì delle titubanze e dei timori della nascente borghesia italiana a prendere la testa dei moti rivoluzionari contadini. Titubanze nei confronti della nobiltà, cui la giovane borghesia italiana era legata mani e piedi fin dall’epoca dei comuni, delle repubbliche marinare e del rinascimento. Timori nei confronti dei contadini, in quanto quest’ultimi, occupando i latifondi e lottando per il mantenimento degli usi civici, contrastavano la privatizzazione dei terreni, che era invece la bandiera della borghesia, e avrebbero potuto trascendere in rivendicazioni comunistiche di abolizione della proprietà privata stessa. - Bontempelli, Bruni: Storia e coscienza storica, Vol.3, Milano, Trevisini Editori. - Wikipedia: voce Regno d’Italia (1861-1946). - Agire per capire, capire per agire: L’accumulazione primitiva in Italia (1347-1896) V. anche: Femminismo a Sud, Ma chissene frega dell’unità d’Italia [1] Da ricerche molto recenti, è emerso che Cavour, nei suoi progetti originali, prevedeva tre stati distinti per la penisola: un Regno D’Italia comprendente tutto il nord, dal Piemonte alla Dalmazia, fino al centro sotto il dominio Sabaudo; un Regno del Centro composto dal Lazio e parte di Umbria e Toscana, sotto il dominio di un Bonaparte e infine un Regno dell’Italia Meridionale, sotto la corona borbonica, comprendente il territorio del regno duosiciliano ampliato tuttavia delle Marche e di parte del Lazio meridionale. Tali progetti, previsti negli originali segreti degli accordi di Plomberies con l’Imperatore Napoleone III, sarebbero tuttavia naufragati sia a causa dell’opposizione dei Savoia stessi, sia da quella di Garibaldi e dei mazziniani e persino dal Re Francesco II delle Due Sicilie, che non voleva acquisire territori appartenenti allo Stato Pontificio. V. Arrigo Petacco, Il Regno del Nord , Milano, Mondadori, 2009. CIRCOLO DI INIZIATIVA PROLETARIA GIANCARLO LANDONIO
Nell’approssimarsi del 150° dell’”unità” d’Italia, da destra e da “sinistra” non si perde occasione per sventolare bandiere tricolori, cantare l’inno nazionale, inneggiare alla patria e alla nazione (tranne i leghisti che si tengono appartati nel chiuso del loro localismo razzista e reazionario). In tutto questo trambusto nazionalistico (che prepara, di solito, avventure guerrafondaie: la Libia è vicina…), ovviamente poco o nulla si dice di quello che fu, storicamente, la nascita dell’Italia unita.
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