– Perché avete deciso di pubblicare sul vostro sito le bozze di intesa? [del regionalismo differenziato]
R.
 Perché su scuola e università si gioca tutto il futuro del Paese. Da 
anni scriviamo che le politiche sulla scuola e sull’università in Italia
 […] sono state sequestrate dai “tecnici”, in particolare da una scuola 
di “economisti dell’educazione” che hanno imposto nel dibattito pubblico
 le parole chiave che sono state poi adottate dai governi prima di 
centro-destra poi di centro-sinistra. Le bozze di intesa nascono in 
questo clima, ed era importante renderle pubbliche subito. […] La 
questione delle autonomie regionali di Emilia Romagna, Veneto, Lombardia
 – di cui stiamo dibattendo – non è un “affare” delle regioni che le 
hanno richieste. Gli effetti con cui tali autonomie si realizzano, con 
modalità e portata differenti a seconda dell’interpretazione e delle 
materie di delega che ciascuna regione ha invocato, investono tutti gli 
italiani. E questo soprattutto quando si parla di diritti fondamentali 
come la sanità e l’istruzione. La creazione di sistemi regionali con 
risorse e regole differenziate amplierà i divari regionali; ci saranno 
scuole e università ricche per le regioni più ricche e, scuole e 
università povere per le regioni più povere. Non è difficile immaginare 
che nelle regioni povere si creeranno scuole private che saranno canali 
di accesso privilegiato per il transito nelle università ricche delle 
regioni ricche. Gli studenti capaci e meritevoli privi di mezzi delle 
regioni povere saranno intrappolati in scuole di serie B e in università
 di serie B.
_______________
1.
 Quali sono i cambiamenti che può introdurre nel mondo dell’istruzione 
il regionalismo differenziato sulla base delle bozze di intesa per 
Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna?
Prima
 di rispondere alla domanda, una premessa. La questione delle autonomie 
regionali di Emilia Romagna, Veneto, Lombardia – di cui stiamo 
dibattendo – non è un “affare” delle regioni che l’hanno richiesta. Gli 
effetti con cui tali autonomie si realizzano, con modalità e portata 
differenti a seconda dell’interpretazione e delle materie di delega che 
ciascuna regione ha invocato, investono tutti gli italiani. E questo 
soprattutto quando si parla di diritti fondamentali come la sanità e 
l’istruzione. Per quest’ultima, ad esempio, l’introduzione 
dell’autonomia regionale, non produrrebbe semplici “cambiamenti” di 
natura gestionale, organizzativa, contrattuale, che pure paiono di 
notevole entità. Il punto da sottolineare è un altro: dal momento in cui
 si lega il tema dell’autonomia differenziata al gettito fiscale, si 
introduce il principio in base al quale l’accesso al diritto all’istruzione diventa funzione della residenza. La volontà di trattenere la quasi totalità del gettito fiscale (si parla dei 9/10 per il Veneto) nel territorio regionale, ferme restando le risorse complessive dello stato,
 introduce un elemento di differenziazione nell’accesso a un diritto 
primario, che diventa invece subordinato alla ricchezza del territorio. A
 questo è direttamente connessa l’idea di Scuola e i compiti che, come 
società, riteniamo debbano esserle affidate. Crediamo che la Scuola NON 
abbia come compito quello di formare cittadini veneti, cittadini 
lombardi, cittadini emiliani e via andare, rendendoli capaci di 
affrontare al meglio il mondo e il mercato del lavoro. Compito della 
scuola NON è quello di rispondere all’indirizzo politico dei governatori
 regionali. Crediamo che la Scuola, e l’Istruzione in generale, abbia il
 compito di mettere i cittadini italiani nelle condizioni di diventare 
membri consapevoli, critici e SOLIDALI di una comunità nazionale e non 
particolaristica, i cui valori e i cui principi sono custoditi nella 
Carta costituzionale.
La cosiddetta 
“identità” di una nazione – a cui molti degli attuali sostenitori della 
autonomia differenziata si sono sempre richiamati – si edifica 
attraverso la condivisione di un patrimonio comune fatto di idee, 
memorie, tradizioni, eroi e protagonisti, insomma di una narrazione che 
lega insieme, come un ordito, i diversi aspetti della vita nazionale e 
nella quale i singoli si sono distinti non in quanto portatori di un 
particolarismo asfittico, ma a condizione di essere protagonisti di una 
storia nazionale a partire dalla loro esperienza locale. L’unità 
d’Italia è stata edificata facendosi ciascuno interprete di un 
sentimento comune nazionale, e non per alimentare l’egoismo delle 
singole regioni. I grandi padri che hanno edificato l’Italia avevano ben
 chiaro in mente tutto ciò e hanno appunto per questo puntato alla 
creazione di una scuola unitaria, diffusa sul territorio nazionale, 
quanto più universale possibile e dai contenuti uniformi. Mettere in 
discussione tutto ciò significa negare la stessa idea che è stata alla 
base dell’unità nazionale, significa di fatto regredire alla condizione 
dell’Italia preunitaria, quando piccoli staterelli gelosi della propria 
autonomia erano facile preda delle grandi potenze del tempo. La stessa 
circolazione degli insegnanti su tutto il territorio nazionale – che con
 l’autonomia verrebbe messa in crisi, almeno al sentire certe 
dichiarazioni di regionalizzazione del corpo docente – ha avuto una 
forte funzione di assimilazione e di superamento degli egoismi e dei 
sospetti reciproci, una funzione fondamentale nella unificazione 
intellettuale e culturale del paese. .
2. In che modo l’intesa con l’Emilia Romagna si differenzia da quella per Lombardia e Veneto?
Per
 quel che riguarda l’istruzione, e limitatamente alla bozza pubblicata e
 datata 20/12/18, nell’intesa emiliana leggiamo la richiesta (art. 1 
comma b) di “particolare autonomia” in tema di “istruzione tecnica e 
professionale, istruzione e formazione professionale e universitaria” e 
non, come per Veneto e Lombardia (art 2. comma 2, 3) in “materia di 
norme generali sull’istruzione e istruzione”.
La
 differenza sostanziale è qui, e riguarda una vera e propria 
ridefinizione su scala locale dell’idea di istruzione ed educazione. 
Idea che deriva da un substrato culturale e da un portato storico 
ineludibili  di ascendenza celtico-padana, che richiamano 
quell’auto-rappresentazione e quei miti di efficienza,  merito e 
abnegazione che lo stesso ministro Bussetti ha eloquentemente sintetizzato qualche giorno fa in visita nelle scuole del napoletano: “impegno lavoro e sacrificio” 
Non per caso, nei testi di intesa lombardo veneti (art. 10) si chiede fra le altre cose l’attribuzione alla regione della:
- “disciplina
 e finalità, delle funzioni e organizzazione del sistema educativo 
regionale di istruzione e formazione, anche specificandone le finzioni 
in relazione al contesto sociale ed economico della Regione”
- “disciplina
 e modalità di valutazione del sistema educativo regionale [..] mediante
 l’introduzione di ulteriori indicatori di valutazione legati al 
territorio. .
3. Quali sono i punti dell’iniziativa a vostro avviso più controversi?
Non
 ci sono punti “più controversi”. E’ l’iniziativa tutta ad essere 
drammaticamente controversa, specie per un aspetto che tutta la 
caratterizza: l’assenza di una discussione pubblica su un argomento di 
tale importanza e portata e la esautorazione del parlamento da ogni 
possibilità di intervento. Il che dà una inevitabile impressione di 
“coda di paglia”, di chi avrebbe voluto far passare la questione con 
quanta meno pubblicità possibile, attraverso accordi sostanzialmente 
riservati e senza occhi indiscreti e critici. Insomma l’impressione che 
sia voluto attuare un vero e proprio colpo di mano. .
4.
 Si parla di “Secessione dei ricchi”. E’ a vostro avviso realmente così?
 In che modo l’iniziativa è destinata ad incidere negativamente 
sull’uguaglianza fra cittadini in materia di scuola e università?
La
 creazione di sistemi regionali con risorse e regole differenziate 
amplierà i divari regionali; ci saranno scuole e università ricche per 
le regioni più ricche, e scuole e università povere per le regioni più 
povere. Non è difficile immaginare che nelle regioni povere si creeranno
 scuole private che saranno canali di accesso privilegiato per il 
transito nelle università ricche delle regioni ricche. Gli studenti 
capaci e meritevoli, ma privi di mezzi delle regioni povere saranno 
intrappolati in scuole di serie B e in università di serie B. .
5.
 Perché a vostro avviso non c’è stato un ampio dibattito 
pubblico/parlamentare su un tema così importante? Perché avete deciso di
 pubblicare sul vostro sito le bozze di intesa?
Perché
 su scuola e università si gioca tutto il futuro del Paese. Da anni 
scriviamo che le politiche sulla scuola e sull’università in Italia non 
sono mai state oggetto di dibattito pubblico. Le politiche sono state 
sequestrate dai “tecnici”, in particolare da una scuola di “economisti 
dell’educazione” che hanno imposto nel dibattito pubblico le parole 
chiave che sono state poi adottate dai governi prima di centro-destra 
poi di centro-sinistra. Le bozze di intesa nascono in questo clima ed 
era importante renderle pubbliche subito. .
6. Sulla piattaforma change.org si stanno raccogliendo firme per fermare la “secessione dei ricchi”. Sono utili iniziative come questa? 
Sono
 poche le voci che si sono mosse contro la secessione dei ricchi. 
Gianfranco Viesti che ha promosso la raccolta firme, è con Marco 
Esposito, giornalista de Il Mattino di Napoli, una delle poche voci 
critiche che si sono levate per tempo a denunciare la secessione dei 
ricchi. Le firme, da poche migliaia, sono gradualmente cresciute fin 
oltre quota 50.000. In un contesto in cui i mezzi di informazione e la 
politica avevano sottovalutato la portata del progetto in corso, la 
raccolta firme ha avuto un duplice ruolo: non solo quello di 
sensibilizzare i cittadini, ma anche di misurare la crescente 
consapevolezza del problema nell’opinione pubblica. Una consapevolezza 
testimoniata anche dall’iniziativa dell’editore Laterza che ha 
pubblicato e distribuito gratuitamente
 un breve saggio di Gianfranco Viesti, significativamente intitolato “La
 secessione dei ricchi”. Un contributo che va ad aggiungersi alla 
documenta analisi di Marco Esposito che in “Zero al Sud”
 (Rubbettino 2018) aveva ricostruito in dettaglio le modalità con cui il
 federalismo fiscale finisce per cristallizzare e legittimare gli 
squilibri territoriali. . 
7.
 Il rapporto Invalsi 2018 ha rilevato come la preparazione degli 
studenti meridionali sia meno consistente di quelli del Centro-Nord e in
 particolare che “gli studenti del Nord-Ovest e del Nord-Est fanno 
registrare risultati migliori in matematica, italiano e inglese. Resta 
nettamente indietro il Sud, con risultati peggiori e un sistema definito
 meno equo”. Siamo in presenza di due Italie in materia di istruzione? 
Da dove originano queste marcate differenze?
A
 dire il vero non è il rapporto INVALSI 2018 a registrare il divario 
Nord-Sud nelle abilità (Italiano, Matematica) misurate dai test 
standardizzati. Alla stessa conclusione, da ormai 10 anni, giungono 
inesorabilmente tutti i rapporti INVALSI redatti a valle dei test di 
fine anno scolastico. Il tema è ampio e articolato ed è stato in numerose e ripetute occasioni affrontato sulle schermate di ROARS. Senza entrare nel merito di questioni  di tipo tecnico (cosa misurano i test standardizzati? su quali modelli statistici sono basati? quali sono i loro limiti?..), pure da autorevoli voci
 sollevate e mai contraddette, è bene, ancora una volta, sottolineare 
che la conoscenza delle disparità in campo educativo, nel nostro Paese, 
non è frutto prezioso delle ricerche e delle analisi condotte 
dall’Istituto di Valutazione del Sistema Nazionale INVALSI. La sempre 
più  fiorente attività e risonanza mediatica di quest’ultimo, piuttosto,
 vanno lette in funzione: 
1) del crescente
 peso che i test hanno assunto nei percorsi di valutazione di tutti i 
soggetti coinvolti a vario titolo nella relazione scolastica (studenti  “certificati” in diversi traguardi dall’INVALSI, insegnanti e dirigenti, valutati in maniera più o meno diretta da indicatori elaborati dall’INVALSI, addirittura bambini, stando al mai smentito “progetto pilota” INVALSI VIPS, realizzato in alcune scuole d’infanzia italiane…); 
2) di una precisa (e preoccupantemente dilagante su scala globale)
 concezione dei processi educativi, basata sulla raccolta di “evidenze” 
standardizzate da quantificare e comparare; evidenze presunte oggettive 
semplicemente perché numeriche, e dunque ritenute per ciò solo più 
affidabili dei giudizi e dell’esperienza delle comunità professionali. 
Quanto
 ai divari territoriali, tema su cui la letteratura pedagogica e 
sociologica  s’interroga da lungo corso, la loro origine – inutile dirlo
 – sta nella storia che ha condotto alla formazione della scuola 
unitaria del nostro Paese: una storia politica, sociale, economica. 
Quanto al loro perdurare, esso non può essere derubricato come una mera 
questione di dislivelli di “capitale umano”. La parola “equità” – che 
l’INVALSI scomoda ad ogni piè sospinto – va sostanziata e accompagnata 
politicamente: non si realizza con “più valutazione” o “più indicatori”.
 L’equità è un “lusso”, un investimento politico-economico, una visione,
 un progetto di società. Che costa e va sostenuto con scelte, 
programmazioni e misure di sostegno adeguate. E di fronte a una simile 
diagnosi, ammesso che essa sia corretta nella gran parte, ci si può 
porre in due modi: o rassegnarsi ad essa e quindi decidere di puntare e 
ulteriormente finanziare avvantaggiandole le realtà che già hanno 
migliori performance; oppure porsi il problema del superamento del 
divario e quindi pensare a delle soluzioni e a una programmazione a ciò 
rivolta. Nel primo caso abbiamo il progetto delle autonomie regionali 
che, disinteressandosi del destino del paese nel suo complesso, mira a 
salvaguardare le proprie isole di “eccellenza”; nel secondo caso si ha 
invece un’idea di nazione che insieme deve superare i propri limiti e 
punti critici, senza abbandonare parte del paese a se stesso. E in un 
mondo dalla competizione globale, la divisione (come è avvenuto con la 
balcanizzazione della ex Jugoslavia) è la via che porta sicuramente alla
 emarginazione e alla irrilevanza. .
8. Mario Barcellona su Il sussidiario ha affermato che “Di
 questa questione, che concerne, innanzitutto, l’autonomia differenziata
 di Lombardia e Veneto, le opposizioni non parlano affatto, e pour cause
 dato che proprio esse ne sono all’origine. Essa risale alla sciagurata 
riforma dell’art 116 Cost. voluta nel 2001 da D’Alema, che prevedeva la 
possibilità che lo Stato contrattasse con singole Regioni il 
trasferimento di competenze ad esso riservate (soprattutto istruzione e 
sanità) ed all’indecente “pre-intesa” proditoriamente stipulata dal 
governo Gentiloni ad esecutivo ormai praticamente scaduto con la 
Lombardia ed il Veneto. Perché quel governo l’abbia stipulata non si sa:
 per una ingenua captatio benevolentiae dell’elettorato del Nord? per 
colpevole collusione con un establishment che nel settentrione ha in 
larga prevalenza le proprie radici ed i propri interessi e che, con 
sguardo miope, si aspetta di ricavarne benefici economici diretti o 
indiretti?” o solo perché la pattuglia berlusconiana guidata da Verdini,
 di dritto o di storto, si è fatta valere? “ Quali sono secondo voi i motivi reali per cui quel governo l’ha stipulata? 
R.:
 La riforma del 2001 è figlia della malriposta ambizione con la quale la
 sinistra di governo seguita al primo Governo Berlusconi ha primapensato
 di riuscire a imbrigliare sul piano tecnico l’istanza politica che 
l’avvento della Lega Nord aveva posto al Paese (anche con toni 
preoccupanti: si è cercato di farlo credere, ma non vanno archiviati 
solo nel folklore i fatti di Piazza San Marco del 9 maggio 1997) e poi di
 avvalorare, facendosene alfiere sul piano politico, il cattivo 
risultato tecnico di quell’ambizione. Detto questo, occorre riconoscere 
che il lungo processo istituzionale che ha partorito la riforma del 2001
 ha visto all’opera i migliori costituzionalisti di cui il Paese 
appariva dotato in quegli anni ed ha conosciuto un momento di ratifica 
popolare – sia pure assai parziale – con il referendum confermativo del 
2001, in esito al quale 10.438.419 italiani su un totale di 49.462.222 
di iscritti alle liste si portarono alle urne per dirsi rassicurati da 
quel risultato. La formulazione assai vaga del secondo comma 
dell’attuale art. 116 cost., figlio abborracciato e poco dibattuto 
(fuori dalla cerchia degli addetti ai lavori) di quella riforma, è 
all’origine della totale opacità e semiclandestinità con cui il PD, 
uscito sconfitto dal referendum del 4 dicembre 2016, ha avviato il 
percorso che ha prodotto gli accordi (in gergo definiti pre-intese) 
firmati dal Governo Gentiloni, quando ormai la compagine di quel governo
 era consapevole di essere destinata a uscire di scena. 
Data la premessa, alla domanda si può rispondere con quattro tesi.
A) Tesi dell’autoillusione. Candidarsi
 a “gestire tecnicamente” la pulsione proveniente dal Lombardo-Veneto a 
trazione leghista, per illudersi di intercettare un elettorato 
saldamente e storicamente collocato nella pancia più profonda della 
Lega.
B) Tesi del “Muoia Sansone”.
 Lasciare una polpetta avvelenata, per un verso destinata a vendicarsi 
di chi non aveva voluto dar credito al referendum del dicembre del 2016,
 per l’altro avviata a deflagrare nella scena politica che sarebbe 
seguita alla irrefrenabile caduta che il PD era consapevole di 
fronteggiare in quel momento politico.
C) Tesi dell’insipienza. Eminenza grigia di quelle intese è stato, il senatore PD – nato a Belluno – Gianclaudio Bressa,
 il cui curriculum politico offre modo di verificarne la presenza in 
tutti i momenti e i luoghi nei quali il processo istituzionale sfociato 
nel Regionalismo differenziato – e ben prima del 2001 – si è andato 
dipanando. Aver lasciato che un agente perfettamente allineato alle 
istanze primordiali che hanno gonfiato le vele della Lega fin dalla 
prima ora e sempre strategicamente attento a osservare un silenzioso 
understatement presidiasse questo delicatissimo campo, senza 
affiancargli uno o più esponenti del partito che fossero interpreti 
dell’elettorato PD del CENTRO e SUD Italia, offre una cartina di 
tornasole assai probante per valutare un partito che nelle sue strutture
 e gerarchie interne ha da lungo tempo smarrito la capacità di istituire
 quella capacità di studio, sintesi e coesione che faceva storicamente 
parte del DNA della sinistra italiana quando determinava le sue 
direttive di azione sui problemi della società italiana, e che non da 
oggi appare percorso da tanti secondari leader territoriali, il cui 
orizzonte politico non sa vedere oltre i confini dei propri bacini 
elettorali. In tal senso una dinamica simil-leghista mostra da tempo di 
essersi impossessata della tradizione e della struttura decisionale del 
maggiore partito di quell’area politica che un tempo era la sinistra 
italiana. La responsabilità di questa incapacità politica è comunque 
oggettiva e ricade integralmente su chi ha guidato il PD nei due governi
 che hanno preceduto le elezioni politiche dello scorso anno. 
D) Tesi di “San Matteo” (a chi più ha, più sarà dato).
 C’è, però, un’ulteriore ipotesi, che, più che un’ipotesi distinta è, 
forse, il terreno di coltura nel quale sono germogliate quelle prima 
illustrate, l’ambiente entro il quale esse possono aver trovato modo di 
delinearsi. La riforma promette di concentrare nel NORD del paese, e non
 una tantum, bensì annualmente e in modo non reversibile, quote
 importanti di quelle risorse che sono solite transitare attraverso una 
manovra di bilancio. Buona parte di queste risorse saranno assorbite 
dall’estensione delle commesse dei diversi centri di spesa (soprattutto 
dalla sanità), da incrementi stipendiali degli addetti ai servizi 
trasferiti (soprattutto della scuola) e da nuove assunzioni di personale
 regionale. Questo immette nello scenario applicativo di un regionalismo
 differenziato divenuto realtà una inaspettata crescita della domanda, 
tanto di merci e servizi, quanto di beni di consumo. Una crescita in 
grado di auto-alimentarsi all’infinito, perché gli incrementi della 
domanda si traducono in incrementi delle produzioni, i quali, 
ricorsivamente, incrementano la domanda. Già oggi, questo effetto San 
Matteo si realizza nei fatti, accompagnando i giovani del SUD che si 
trasferiscono a studiare al NORD, grazie ai sacrifici delle famiglie 
meridionali che ancora hanno la possibilità di sostenere economicamente 
le attese di futuro dei propri figli. Non è difficile immaginare, 
allora, come l’autonomia differenziata costituisca un grande e 
appetibile business per il sistema economico del NORD. Il quale
 già oggi costituisce il nerbo del sistema produttivo nazionale. Tutto 
ciò spiega le scelte compiute e dà conto dell’autoillusione e 
dell’insipienza: l’una e l’altra si rendono comprensibili dentro un 
quadro dove le ragioni del sistema produttivo e dell’establishment che
 lo sostiene hanno finito per costituire l’ambiente a partire dal quale 
si pensa, ovvero ciò che, rispettivamente, orienta le aspettative e 
seleziona l’attenzione del sistema politico. E’ in questo quadro che la 
politica continua senza ripensamenti a far proprie le ragioni di chi 
conta e pesa di più. Desta rammarico che recenti analisi tentino
 ancora una volta di annegare il punto in una visione ostentatamente 
tecnica del problema, perdendo di vista (o maliziosamente occultando) 
l’orizzonte e il senso nel quale questo “problema tecnico” viene a 
collocarsi nel tempo presente. Orizzonte e senso che, per continuare a 
tenere assieme il Paese ed evitare l’insorgere di conflitti laceranti, 
dovrebbero restare fermamente collocati sui binari solidali tracciati 
dagli articoli 2; 3, comma secondo; e 53 della nostra Costituzione. . 
9.
 Capitolo esami di Stato. Secondo i dati del Miur nel 2018 le regioni le
 Regioni con il più alto numero di lodi sono Puglia (1.066), Campania 
(860) e Sicilia (560). La Lombardia risulta in fondo alla classifica con
 lo 0,6% e poi sugli stessi valori si trovano Piemonte, Trentino, 
Veneto, Friuli-Venezia Giulia, con lo 0,9%. Se in Italia meridionale c’è
 una scuola più disagiata, ci sono anche valutazioni d’eccellenza. E’ a 
vostro avviso più un problema di finanziamenti ministeriali o di qualità
 della formazione del personale docente?
Provocatoriamente,
 si potrebbe dire che la domanda è mal posta. Non si può certo affermare
 che a maggior disagio corrisponda maggiore “generosità meridionale” o 
maggiore eccellenza!  Basterebbe leggere l’articolo di Giuliano Laccetti. In precedenza su ROARS
 Fabrizio Alboni e Giorgio Tassinari hanno studiato questo fenomeno con 
metodologie statistiche in grado di isolare l’effetto dell’area 
geografica da quello delle altre caratteristiche. Rimandiamo alla loro 
analisi chi fosse interessato a una decostruzione tecnica della 
narrazione dei 100 e lode. In questa sede, per capire l’uso strumentale 
che ne è stato fatto, basterà ricordare un dato assai semplice: a 
dispetto della vulgata corrente, l’effetto-regione risulta assai più 
accentuato nelle regioni dell’Italia Centrale, smentendo così le 
insinuazioni sul cosiddetto lassismo delle scuole del Mezzogiorno. . 
10. Cosa non ha funzionato nella riforma della buona scuola e cosa non sta funzionando ora?
Come
 già detto sub 8, la Buona Scuola (legge 107/2015), a dispetto 
dell’ambizioso titolo di ””Riforma del sistema nazionale di istruzione e
 formazione” non fa che perfezionare e portare a compimento oltre un 
ventennio di interventi normativi che, da Berlinguer (legge Bassanini 
1997) in avanti, hanno progressivamente – ed in modo sempre più 
sfacciato -spinto l’istruzione nella direzione di maggiore autonomia, concorrenza fra istituti, gerarchizzazione e gestione di tipo manageriale dei rapporti di lavoro, riduzione delle finalità educative e formative ad obiettivi di marca economicistica, misurabili e standardizzabili. In quest’ottica, la Buona Scuola sta  svolgendo perfettamente il proprio lavoro, checché ne dicano i dirigenti dell’Associazione Nazionale Presidi, che recentemente
 e d’accordo con la senatrice PD Malpezzi, hanno rivendicato più ampi 
margini di manovra nella selezione dei docenti e della progettazione 
curricolare, la quale andrebbe riorganizzata in termini di competenze certificabili e riconoscibili a livello (di mercato) internazionale. A nulla è valsol’avvicendarsi di un nuovo esecutivo, che  non si è – tuttavia – limitato a non dare alcun segnale di discontinuità rispetto alle politiche scolastiche precedenti, ma – cosa prevedibile – ha perseguito nella progressiva riformattazione
 del ruolo dell’istituzione scolastica a mero servizio individuale e 
territoriale: l’istruzione è ridotta a vantaggio competitivo da potersi 
giocare nel mercato della formazione locale. In questa prospettiva, il 
tanto proclamato quanto demagogico “successo formativo”, diventa 
funzione non solo del reddito delle famiglie – ma, in epoca di autonomia
 rafforzata,  del reddito delle famiglie venete, lombarde ed emiliane. 
Più diritti a chi è più ricco. . 
11. Perché la scuola ha smesso di essere uno strumento di ascensione sociale, specie al sud?
Si può rispondere con un’altra domanda: come potrebbe mai essere la Scuola – ancor più al Sud – uno strumento di mobilità in una società nella quale – a livello globale – l’82% dell’incremento di ricchezza  è nelle mani dell’1% più ricco della popolazione e – nel nostro paese –  il 20% più ricco degli italiani detiene oltre il 66%
 della ricchezza nazionale netta? O anche: di quale ascensore si può mai
 parlare nella nazione che in ambito OCSE nel periodo 2008-2014 è il 
paese che più di ogni altro ha tagliato la spesa pubblica destinata 
all’istruzione? (fonte: Education at a Glance 2017). 
Concepire la scuola come uno strumento macroeconomico  (il solo?) di riequilibrio delle “dotazioni di partenza” (M. Franzini, M Raitano, 2018)
 riflette una visione limitata e inadeguata. Da un lato,  schiaccia la 
funzione dell’istruzione – ridotta a puro Capitale Umano – sulla sola 
riproduzione sociale, eliminandone la funzione civile, di cittadinanza, 
al servizio dell’uomo. Dall’altro, non riesce – tanto più all’interno di
 una cornice culturale basata sulla triade merito/efficienza/prestazione
 – a correggere il dato di partenza, a “livellare il terreno di gioco”. 
Le politiche che hanno condotto alla Buona Scuola, legittimate dalla 
parola chiave “meritocrazia”, hanno prodotto un’istruzione che è sempre 
più quella del primato della ricchezza, della famiglia, del territorio. . 
12. Quali sono a vostro avviso i provvedimenti più urgenti da affrontare in materia di scuola e università?
In ordine alla scuola:
- Fermare in parlamento l’iter del processo di autonomia differenziata regionale;
- Fermare gli attuali lavori della Commissione preposta
 (da chi è composta?) alla riscrittura del Testo Unico attualmente 
vigente (D.Lgs 297/1994), prevista dal comma 181 della L 107/15 e aprire
 un dibattito pubblico sulle delicate questioni ad essa 
connessi:riordino degli organi collegiali e dell’organizzazione 
scolastica.
- Abrogare la legge 107/15 e ri-pensarne, dopo ampio e serio dibattito pubblico e con i dovuti investimenti a corredo, i nodi cruciali:
- i) percorsi di reclutamento dei docenti e il sistema di formazione;
- ii) l’alternanza scuola-lavoro, da eliminare e lasciare alle differenti opportunità delle singole istituzioni scolastiche;
iii) valutazione: abrogare il regolamento del 2013 (DPR 80) e separare la valutazione di sistema da quella dei lavoratori e degli apprendimenti degli studenti.
La prima, intesa
 come  rapporto di efficacia-efficienza tra spesa e rispetto costi e 
scopi sia qualitativi che quantitativi, da affidare ad enti pubblici in 
ruolo di terzietà (ad es. Istat), con risultati su dati statistici di 
frequenza, dispersione, conseguimento titoli resi pubblici e analizzati 
al fine di studiare gli effetti di struttura ed organizzazione 
dell’insegnamento sulle popolazioni delle diverse aree geografiche, per 
trarre informazioni diacroniche ed indirizzare le scelte politiche.
La seconda, intesa come valutazione dell’attività dei lavoratori scolastici
 – in particolare insegnanti – può essere ricondotta a pratiche di 
autovalutazione e “valutazione tra pari”, da svolgersi nei rispettivi 
contesti, anche in reti di scuole, in continuo confronto con Università e
 Delegati esperti dell’Amministrazione Centrale (Ispettori con 
competenze disciplinari e didattiche e non solo 
amministrativo-gestionali, adeguatamente formati);
La terza, valutazione degli apprendimenti (e dei comportamenti, dello sviluppo e crescita) dei singoli studenti,
 è compito unico e qualificante del/dei docenti, strettamente connesso 
ai processi di autovalutazione e formazione professionale, oltre che 
espressione della libera professionalità (Art. 33 Cost.).
In
 questo senso vanno rifiutate: la logica dell’attuale ciclo della 
performance scolastica,  le rilevazioni censuarie delle competenze, 
sostituibili eventualmente da rilevazioni a campione, ogni tipo di 
certificazione delle competenze a fine I e II ciclo affidate ad agenzie 
esterne.
In ordine all’università:
- Garantire
 un effettivo diritto allo studio su tutto il territorio nazionale, 
intervenendo sia sul lato degli aiuti agli studenti sia su quello degli 
organici degli atenei, requisito indispensabile per assicurare 
un’adeguata offerta formativa; è urgente invertire quel processo di 
compressione selettiva e cumulativa – per usare l’espressione coniata da
 G. Viesti – che da un decennio, oltre a colpire in modo differenziato 
le diverse aree del paese, ha innescato effetti a valanga nei territori 
più deboli (Università in declino – Un’indagine sugli atenei da Nord a Sud, Donzelli 2016).
- Orientare
 le energie e le risorse all’effettivo miglioramento della qualità della
 didattica e della ricerca, disinnescando la competitività tossica che 
ha indirizzato gli sforzi dei singoli e delle strutture 
all’ottimizzazione degli indicatori quantitativi, incentivando 
comportamenti opportunistici che inquinano i risultati ed erodono 
l’etica scientifica.
- Recuperare risorse
 e produttività alleggerendo sia l’ipertrofia burocratica sia le 
pratiche di (presunta) assicurazione della qualità, da subito degenerate
 in adempimenti formalistici che sottraggono tempo prezioso al personale
 docente e tecnico-amministrativo.
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