il Regionalismo differenziato. Roars ne spiega i pericoli per la scuola e l’università

domenica 17 marzo 2019


– Perché avete deciso di pubblicare sul vostro sito le bozze di intesa? [del regionalismo differenziato]
R. Perché su scuola e università si gioca tutto il futuro del Paese. Da anni scriviamo che le politiche sulla scuola e sull’università in Italia […] sono state sequestrate dai “tecnici”, in particolare da una scuola di “economisti dell’educazione” che hanno imposto nel dibattito pubblico le parole chiave che sono state poi adottate dai governi prima di centro-destra poi di centro-sinistra. Le bozze di intesa nascono in questo clima, ed era importante renderle pubbliche subito. […] La questione delle autonomie regionali di Emilia Romagna, Veneto, Lombardia – di cui stiamo dibattendo – non è un “affare” delle regioni che le hanno richieste. Gli effetti con cui tali autonomie si realizzano, con modalità e portata differenti a seconda dell’interpretazione e delle materie di delega che ciascuna regione ha invocato, investono tutti gli italiani. E questo soprattutto quando si parla di diritti fondamentali come la sanità e l’istruzione. La creazione di sistemi regionali con risorse e regole differenziate amplierà i divari regionali; ci saranno scuole e università ricche per le regioni più ricche e, scuole e università povere per le regioni più povere. Non è difficile immaginare che nelle regioni povere si creeranno scuole private che saranno canali di accesso privilegiato per il transito nelle università ricche delle regioni ricche. Gli studenti capaci e meritevoli privi di mezzi delle regioni povere saranno intrappolati in scuole di serie B e in università di serie B.


Pubblichiamo di seguito la versione completa dell’intervista a Redazione ROARS che è stata pubblicata il 2 marzo 2019 su Lettera 43: Gli effetti negativi del regionalismo differenziato sul sistema scuola
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1. Quali sono i cambiamenti che può introdurre nel mondo dell’istruzione il regionalismo differenziato sulla base delle bozze di intesa per Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna?
Prima di rispondere alla domanda, una premessa. La questione delle autonomie regionali di Emilia Romagna, Veneto, Lombardia – di cui stiamo dibattendo – non è un “affare” delle regioni che l’hanno richiesta. Gli effetti con cui tali autonomie si realizzano, con modalità e portata differenti a seconda dell’interpretazione e delle materie di delega che ciascuna regione ha invocato, investono tutti gli italiani. E questo soprattutto quando si parla di diritti fondamentali come la sanità e l’istruzione. Per quest’ultima, ad esempio, l’introduzione dell’autonomia regionale, non produrrebbe semplici “cambiamenti” di natura gestionale, organizzativa, contrattuale, che pure paiono di notevole entità. Il punto da sottolineare è un altro: dal momento in cui si lega il tema dell’autonomia differenziata al gettito fiscale, si introduce il principio in base al quale l’accesso al diritto all’istruzione diventa funzione della residenza. La volontà di trattenere la quasi totalità del gettito fiscale (si parla dei 9/10 per il Veneto) nel territorio regionale, ferme restando le risorse complessive dello stato, introduce un elemento di differenziazione nell’accesso a un diritto primario, che diventa invece subordinato alla ricchezza del territorio. A questo è direttamente connessa l’idea di Scuola e i compiti che, come società, riteniamo debbano esserle affidate. Crediamo che la Scuola NON abbia come compito quello di formare cittadini veneti, cittadini lombardi, cittadini emiliani e via andare, rendendoli capaci di affrontare al meglio il mondo e il mercato del lavoro. Compito della scuola NON è quello di rispondere all’indirizzo politico dei governatori regionali. Crediamo che la Scuola, e l’Istruzione in generale, abbia il compito di mettere i cittadini italiani nelle condizioni di diventare membri consapevoli, critici e SOLIDALI di una comunità nazionale e non particolaristica, i cui valori e i cui principi sono custoditi nella Carta costituzionale.
La cosiddetta “identità” di una nazione – a cui molti degli attuali sostenitori della autonomia differenziata si sono sempre richiamati – si edifica attraverso la condivisione di un patrimonio comune fatto di idee, memorie, tradizioni, eroi e protagonisti, insomma di una narrazione che lega insieme, come un ordito, i diversi aspetti della vita nazionale e nella quale i singoli si sono distinti non in quanto portatori di un particolarismo asfittico, ma a condizione di essere protagonisti di una storia nazionale a partire dalla loro esperienza locale. L’unità d’Italia è stata edificata facendosi ciascuno interprete di un sentimento comune nazionale, e non per alimentare l’egoismo delle singole regioni. I grandi padri che hanno edificato l’Italia avevano ben chiaro in mente tutto ciò e hanno appunto per questo puntato alla creazione di una scuola unitaria, diffusa sul territorio nazionale, quanto più universale possibile e dai contenuti uniformi. Mettere in discussione tutto ciò significa negare la stessa idea che è stata alla base dell’unità nazionale, significa di fatto regredire alla condizione dell’Italia preunitaria, quando piccoli staterelli gelosi della propria autonomia erano facile preda delle grandi potenze del tempo. La stessa circolazione degli insegnanti su tutto il territorio nazionale – che con l’autonomia verrebbe messa in crisi, almeno al sentire certe dichiarazioni di regionalizzazione del corpo docente – ha avuto una forte funzione di assimilazione e di superamento degli egoismi e dei sospetti reciproci, una funzione fondamentale nella unificazione intellettuale e culturale del paese. .
2. In che modo l’intesa con l’Emilia Romagna si differenzia da quella per Lombardia e Veneto?
Per quel che riguarda l’istruzione, e limitatamente alla bozza pubblicata e datata 20/12/18, nell’intesa emiliana leggiamo la richiesta (art. 1 comma b) di “particolare autonomia” in tema di “istruzione tecnica e professionale, istruzione e formazione professionale e universitaria” e non, come per Veneto e Lombardia (art 2. comma 2, 3) in “materia di norme generali sull’istruzione e istruzione”.
La differenza sostanziale è qui, e riguarda una vera e propria ridefinizione su scala locale dell’idea di istruzione ed educazione. Idea che deriva da un substrato culturale e da un portato storico ineludibili  di ascendenza celtico-padana, che richiamano quell’auto-rappresentazione e quei miti di efficienza,  merito e abnegazione che lo stesso ministro Bussetti ha eloquentemente sintetizzato qualche giorno fa in visita nelle scuole del napoletano: “impegno lavoro e sacrificio”
Non per caso, nei testi di intesa lombardo veneti (art. 10) si chiede fra le altre cose l’attribuzione alla regione della:
  • “disciplina e finalità, delle funzioni e organizzazione del sistema educativo regionale di istruzione e formazione, anche specificandone le finzioni in relazione al contesto sociale ed economico della Regione”
  • “disciplina e modalità di valutazione del sistema educativo regionale [..] mediante l’introduzione di ulteriori indicatori di valutazione legati al territorio. .
3. Quali sono i punti dell’iniziativa a vostro avviso più controversi?
Non ci sono punti “più controversi”. E’ l’iniziativa tutta ad essere drammaticamente controversa, specie per un aspetto che tutta la caratterizza: l’assenza di una discussione pubblica su un argomento di tale importanza e portata e la esautorazione del parlamento da ogni possibilità di intervento. Il che dà una inevitabile impressione di “coda di paglia”, di chi avrebbe voluto far passare la questione con quanta meno pubblicità possibile, attraverso accordi sostanzialmente riservati e senza occhi indiscreti e critici. Insomma l’impressione che sia voluto attuare un vero e proprio colpo di mano. .
4. Si parla di “Secessione dei ricchi”. E’ a vostro avviso realmente così? In che modo l’iniziativa è destinata ad incidere negativamente sull’uguaglianza fra cittadini in materia di scuola e università?
La creazione di sistemi regionali con risorse e regole differenziate amplierà i divari regionali; ci saranno scuole e università ricche per le regioni più ricche, e scuole e università povere per le regioni più povere. Non è difficile immaginare che nelle regioni povere si creeranno scuole private che saranno canali di accesso privilegiato per il transito nelle università ricche delle regioni ricche. Gli studenti capaci e meritevoli, ma privi di mezzi delle regioni povere saranno intrappolati in scuole di serie B e in università di serie B. .
5. Perché a vostro avviso non c’è stato un ampio dibattito pubblico/parlamentare su un tema così importante? Perché avete deciso di pubblicare sul vostro sito le bozze di intesa?
Perché su scuola e università si gioca tutto il futuro del Paese. Da anni scriviamo che le politiche sulla scuola e sull’università in Italia non sono mai state oggetto di dibattito pubblico. Le politiche sono state sequestrate dai “tecnici”, in particolare da una scuola di “economisti dell’educazione” che hanno imposto nel dibattito pubblico le parole chiave che sono state poi adottate dai governi prima di centro-destra poi di centro-sinistra. Le bozze di intesa nascono in questo clima ed era importante renderle pubbliche subito. .
6. Sulla piattaforma change.org si stanno raccogliendo firme per fermare la “secessione dei ricchi”. Sono utili iniziative come questa?
Sono poche le voci che si sono mosse contro la secessione dei ricchi. Gianfranco Viesti che ha promosso la raccolta firme, è con Marco Esposito, giornalista de Il Mattino di Napoli, una delle poche voci critiche che si sono levate per tempo a denunciare la secessione dei ricchi. Le firme, da poche migliaia, sono gradualmente cresciute fin oltre quota 50.000. In un contesto in cui i mezzi di informazione e la politica avevano sottovalutato la portata del progetto in corso, la raccolta firme ha avuto un duplice ruolo: non solo quello di sensibilizzare i cittadini, ma anche di misurare la crescente consapevolezza del problema nell’opinione pubblica. Una consapevolezza testimoniata anche dall’iniziativa dell’editore Laterza che ha pubblicato e distribuito gratuitamente un breve saggio di Gianfranco Viesti, significativamente intitolato “La secessione dei ricchi”. Un contributo che va ad aggiungersi alla documenta analisi di Marco Esposito che in “Zero al Sud” (Rubbettino 2018) aveva ricostruito in dettaglio le modalità con cui il federalismo fiscale finisce per cristallizzare e legittimare gli squilibri territoriali. .
7. Il rapporto Invalsi 2018 ha rilevato come la preparazione degli studenti meridionali sia meno consistente di quelli del Centro-Nord e in particolare che “gli studenti del Nord-Ovest e del Nord-Est fanno registrare risultati migliori in matematica, italiano e inglese. Resta nettamente indietro il Sud, con risultati peggiori e un sistema definito meno equo”. Siamo in presenza di due Italie in materia di istruzione? Da dove originano queste marcate differenze?
A dire il vero non è il rapporto INVALSI 2018 a registrare il divario Nord-Sud nelle abilità (Italiano, Matematica) misurate dai test standardizzati. Alla stessa conclusione, da ormai 10 anni, giungono inesorabilmente tutti i rapporti INVALSI redatti a valle dei test di fine anno scolastico. Il tema è ampio e articolato ed è stato in numerose e ripetute occasioni affrontato sulle schermate di ROARS. Senza entrare nel merito di questioni  di tipo tecnico (cosa misurano i test standardizzati? su quali modelli statistici sono basati? quali sono i loro limiti?..), pure da autorevoli voci sollevate e mai contraddette, è bene, ancora una volta, sottolineare che la conoscenza delle disparità in campo educativo, nel nostro Paese, non è frutto prezioso delle ricerche e delle analisi condotte dall’Istituto di Valutazione del Sistema Nazionale INVALSI. La sempre più  fiorente attività e risonanza mediatica di quest’ultimo, piuttosto, vanno lette in funzione:
1) del crescente peso che i test hanno assunto nei percorsi di valutazione di tutti i soggetti coinvolti a vario titolo nella relazione scolastica (studenti  “certificati” in diversi traguardi dall’INVALSI, insegnanti e dirigenti, valutati in maniera più o meno diretta da indicatori elaborati dall’INVALSI, addirittura bambini, stando al mai smentito “progetto pilota” INVALSI VIPS, realizzato in alcune scuole d’infanzia italiane…);
2) di una precisa (e preoccupantemente dilagante su scala globale) concezione dei processi educativi, basata sulla raccolta di “evidenze” standardizzate da quantificare e comparare; evidenze presunte oggettive semplicemente perché numeriche, e dunque ritenute per ciò solo più affidabili dei giudizi e dell’esperienza delle comunità professionali.
Quanto ai divari territoriali, tema su cui la letteratura pedagogica e sociologica  s’interroga da lungo corso, la loro origine – inutile dirlo – sta nella storia che ha condotto alla formazione della scuola unitaria del nostro Paese: una storia politica, sociale, economica. Quanto al loro perdurare, esso non può essere derubricato come una mera questione di dislivelli di “capitale umano”. La parola “equità” – che l’INVALSI scomoda ad ogni piè sospinto – va sostanziata e accompagnata politicamente: non si realizza con “più valutazione” o “più indicatori”. L’equità è un “lusso”, un investimento politico-economico, una visione, un progetto di società. Che costa e va sostenuto con scelte, programmazioni e misure di sostegno adeguate. E di fronte a una simile diagnosi, ammesso che essa sia corretta nella gran parte, ci si può porre in due modi: o rassegnarsi ad essa e quindi decidere di puntare e ulteriormente finanziare avvantaggiandole le realtà che già hanno migliori performance; oppure porsi il problema del superamento del divario e quindi pensare a delle soluzioni e a una programmazione a ciò rivolta. Nel primo caso abbiamo il progetto delle autonomie regionali che, disinteressandosi del destino del paese nel suo complesso, mira a salvaguardare le proprie isole di “eccellenza”; nel secondo caso si ha invece un’idea di nazione che insieme deve superare i propri limiti e punti critici, senza abbandonare parte del paese a se stesso. E in un mondo dalla competizione globale, la divisione (come è avvenuto con la balcanizzazione della ex Jugoslavia) è la via che porta sicuramente alla emarginazione e alla irrilevanza. .
8. Mario Barcellona su Il sussidiario ha affermato che “Di questa questione, che concerne, innanzitutto, l’autonomia differenziata di Lombardia e Veneto, le opposizioni non parlano affatto, e pour cause dato che proprio esse ne sono all’origine. Essa risale alla sciagurata riforma dell’art 116 Cost. voluta nel 2001 da D’Alema, che prevedeva la possibilità che lo Stato contrattasse con singole Regioni il trasferimento di competenze ad esso riservate (soprattutto istruzione e sanità) ed all’indecente “pre-intesa” proditoriamente stipulata dal governo Gentiloni ad esecutivo ormai praticamente scaduto con la Lombardia ed il Veneto. Perché quel governo l’abbia stipulata non si sa: per una ingenua captatio benevolentiae dell’elettorato del Nord? per colpevole collusione con un establishment che nel settentrione ha in larga prevalenza le proprie radici ed i propri interessi e che, con sguardo miope, si aspetta di ricavarne benefici economici diretti o indiretti?” o solo perché la pattuglia berlusconiana guidata da Verdini, di dritto o di storto, si è fatta valere? “ Quali sono secondo voi i motivi reali per cui quel governo l’ha stipulata?
R.: La riforma del 2001 è figlia della malriposta ambizione con la quale la sinistra di governo seguita al primo Governo Berlusconi ha primapensato di riuscire a imbrigliare sul piano tecnico l’istanza politica che l’avvento della Lega Nord aveva posto al Paese (anche con toni preoccupanti: si è cercato di farlo credere, ma non vanno archiviati solo nel folklore i fatti di Piazza San Marco del 9 maggio 1997) e poi di avvalorare, facendosene alfiere sul piano politico, il cattivo risultato tecnico di quell’ambizione. Detto questo, occorre riconoscere che il lungo processo istituzionale che ha partorito la riforma del 2001 ha visto all’opera i migliori costituzionalisti di cui il Paese appariva dotato in quegli anni ed ha conosciuto un momento di ratifica popolare – sia pure assai parziale – con il referendum confermativo del 2001, in esito al quale 10.438.419 italiani su un totale di 49.462.222 di iscritti alle liste si portarono alle urne per dirsi rassicurati da quel risultato. La formulazione assai vaga del secondo comma dell’attuale art. 116 cost., figlio abborracciato e poco dibattuto (fuori dalla cerchia degli addetti ai lavori) di quella riforma, è all’origine della totale opacità e semiclandestinità con cui il PD, uscito sconfitto dal referendum del 4 dicembre 2016, ha avviato il percorso che ha prodotto gli accordi (in gergo definiti pre-intese) firmati dal Governo Gentiloni, quando ormai la compagine di quel governo era consapevole di essere destinata a uscire di scena.
Data la premessa, alla domanda si può rispondere con quattro tesi.
A) Tesi dell’autoillusione. Candidarsi a “gestire tecnicamente” la pulsione proveniente dal Lombardo-Veneto a trazione leghista, per illudersi di intercettare un elettorato saldamente e storicamente collocato nella pancia più profonda della Lega.
B) Tesi del “Muoia Sansone”. Lasciare una polpetta avvelenata, per un verso destinata a vendicarsi di chi non aveva voluto dar credito al referendum del dicembre del 2016, per l’altro avviata a deflagrare nella scena politica che sarebbe seguita alla irrefrenabile caduta che il PD era consapevole di fronteggiare in quel momento politico.
C) Tesi dell’insipienza. Eminenza grigia di quelle intese è stato, il senatore PD – nato a Belluno – Gianclaudio Bressa, il cui curriculum politico offre modo di verificarne la presenza in tutti i momenti e i luoghi nei quali il processo istituzionale sfociato nel Regionalismo differenziato – e ben prima del 2001 – si è andato dipanando. Aver lasciato che un agente perfettamente allineato alle istanze primordiali che hanno gonfiato le vele della Lega fin dalla prima ora e sempre strategicamente attento a osservare un silenzioso understatement presidiasse questo delicatissimo campo, senza affiancargli uno o più esponenti del partito che fossero interpreti dell’elettorato PD del CENTRO e SUD Italia, offre una cartina di tornasole assai probante per valutare un partito che nelle sue strutture e gerarchie interne ha da lungo tempo smarrito la capacità di istituire quella capacità di studio, sintesi e coesione che faceva storicamente parte del DNA della sinistra italiana quando determinava le sue direttive di azione sui problemi della società italiana, e che non da oggi appare percorso da tanti secondari leader territoriali, il cui orizzonte politico non sa vedere oltre i confini dei propri bacini elettorali. In tal senso una dinamica simil-leghista mostra da tempo di essersi impossessata della tradizione e della struttura decisionale del maggiore partito di quell’area politica che un tempo era la sinistra italiana. La responsabilità di questa incapacità politica è comunque oggettiva e ricade integralmente su chi ha guidato il PD nei due governi che hanno preceduto le elezioni politiche dello scorso anno.
D) Tesi di “San Matteo” (a chi più ha, più sarà dato). C’è, però, un’ulteriore ipotesi, che, più che un’ipotesi distinta è, forse, il terreno di coltura nel quale sono germogliate quelle prima illustrate, l’ambiente entro il quale esse possono aver trovato modo di delinearsi. La riforma promette di concentrare nel NORD del paese, e non una tantum, bensì annualmente e in modo non reversibile, quote importanti di quelle risorse che sono solite transitare attraverso una manovra di bilancio. Buona parte di queste risorse saranno assorbite dall’estensione delle commesse dei diversi centri di spesa (soprattutto dalla sanità), da incrementi stipendiali degli addetti ai servizi trasferiti (soprattutto della scuola) e da nuove assunzioni di personale regionale. Questo immette nello scenario applicativo di un regionalismo differenziato divenuto realtà una inaspettata crescita della domanda, tanto di merci e servizi, quanto di beni di consumo. Una crescita in grado di auto-alimentarsi all’infinito, perché gli incrementi della domanda si traducono in incrementi delle produzioni, i quali, ricorsivamente, incrementano la domanda. Già oggi, questo effetto San Matteo si realizza nei fatti, accompagnando i giovani del SUD che si trasferiscono a studiare al NORD, grazie ai sacrifici delle famiglie meridionali che ancora hanno la possibilità di sostenere economicamente le attese di futuro dei propri figli. Non è difficile immaginare, allora, come l’autonomia differenziata costituisca un grande e appetibile business per il sistema economico del NORD. Il quale già oggi costituisce il nerbo del sistema produttivo nazionale. Tutto ciò spiega le scelte compiute e dà conto dell’autoillusione e dell’insipienza: l’una e l’altra si rendono comprensibili dentro un quadro dove le ragioni del sistema produttivo e dell’establishment che lo sostiene hanno finito per costituire l’ambiente a partire dal quale si pensa, ovvero ciò che, rispettivamente, orienta le aspettative e seleziona l’attenzione del sistema politico. E’ in questo quadro che la politica continua senza ripensamenti a far proprie le ragioni di chi conta e pesa di più. Desta rammarico che recenti analisi tentino ancora una volta di annegare il punto in una visione ostentatamente tecnica del problema, perdendo di vista (o maliziosamente occultando) l’orizzonte e il senso nel quale questo “problema tecnico” viene a collocarsi nel tempo presente. Orizzonte e senso che, per continuare a tenere assieme il Paese ed evitare l’insorgere di conflitti laceranti, dovrebbero restare fermamente collocati sui binari solidali tracciati dagli articoli 2; 3, comma secondo; e 53 della nostra Costituzione. .
9. Capitolo esami di Stato. Secondo i dati del Miur nel 2018 le regioni le Regioni con il più alto numero di lodi sono Puglia (1.066), Campania (860) e Sicilia (560). La Lombardia risulta in fondo alla classifica con lo 0,6% e poi sugli stessi valori si trovano Piemonte, Trentino, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, con lo 0,9%. Se in Italia meridionale c’è una scuola più disagiata, ci sono anche valutazioni d’eccellenza. E’ a vostro avviso più un problema di finanziamenti ministeriali o di qualità della formazione del personale docente?
Provocatoriamente, si potrebbe dire che la domanda è mal posta. Non si può certo affermare che a maggior disagio corrisponda maggiore “generosità meridionale” o maggiore eccellenza!  Basterebbe leggere l’articolo di Giuliano Laccetti. In precedenza su ROARS Fabrizio Alboni e Giorgio Tassinari hanno studiato questo fenomeno con metodologie statistiche in grado di isolare l’effetto dell’area geografica da quello delle altre caratteristiche. Rimandiamo alla loro analisi chi fosse interessato a una decostruzione tecnica della narrazione dei 100 e lode. In questa sede, per capire l’uso strumentale che ne è stato fatto, basterà ricordare un dato assai semplice: a dispetto della vulgata corrente, l’effetto-regione risulta assai più accentuato nelle regioni dell’Italia Centrale, smentendo così le insinuazioni sul cosiddetto lassismo delle scuole del Mezzogiorno. .
10. Cosa non ha funzionato nella riforma della buona scuola e cosa non sta funzionando ora?
Come già detto sub 8, la Buona Scuola (legge 107/2015), a dispetto dell’ambizioso titolo di ””Riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione” non fa che perfezionare e portare a compimento oltre un ventennio di interventi normativi che, da Berlinguer (legge Bassanini 1997) in avanti, hanno progressivamente – ed in modo sempre più sfacciato -spinto l’istruzione nella direzione di maggiore autonomia, concorrenza fra istituti, gerarchizzazione e gestione di tipo manageriale dei rapporti di lavoro, riduzione delle finalità educative e formative ad obiettivi di marca economicistica, misurabili e standardizzabili. In quest’ottica, la Buona Scuola sta  svolgendo perfettamente il proprio lavoro, checché ne dicano i dirigenti dell’Associazione Nazionale Presidi, che recentemente e d’accordo con la senatrice PD Malpezzi, hanno rivendicato più ampi margini di manovra nella selezione dei docenti e della progettazione curricolare, la quale andrebbe riorganizzata in termini di competenze certificabili e riconoscibili a livello (di mercato) internazionale. A nulla è valsol’avvicendarsi di un nuovo esecutivo, che  non si è – tuttavia – limitato a non dare alcun segnale di discontinuità rispetto alle politiche scolastiche precedenti, ma – cosa prevedibile – ha perseguito nella progressiva riformattazione del ruolo dell’istituzione scolastica a mero servizio individuale e territoriale: l’istruzione è ridotta a vantaggio competitivo da potersi giocare nel mercato della formazione locale. In questa prospettiva, il tanto proclamato quanto demagogico “successo formativo”, diventa funzione non solo del reddito delle famiglie – ma, in epoca di autonomia rafforzata,  del reddito delle famiglie venete, lombarde ed emiliane. Più diritti a chi è più ricco. .
11. Perché la scuola ha smesso di essere uno strumento di ascensione sociale, specie al sud?
Si può rispondere con un’altra domanda: come potrebbe mai essere la Scuola – ancor più al Sud – uno strumento di mobilità in una società nella quale – a livello globale – l’82% dell’incremento di ricchezza  è nelle mani dell’1% più ricco della popolazione e – nel nostro paese –  il 20% più ricco degli italiani detiene oltre il 66% della ricchezza nazionale netta? O anche: di quale ascensore si può mai parlare nella nazione che in ambito OCSE nel periodo 2008-2014 è il paese che più di ogni altro ha tagliato la spesa pubblica destinata all’istruzione? (fonte: Education at a Glance 2017).
Concepire la scuola come uno strumento macroeconomico  (il solo?) di riequilibrio delle “dotazioni di partenza” (M. Franzini, M Raitano, 2018) riflette una visione limitata e inadeguata. Da un lato,  schiaccia la funzione dell’istruzione – ridotta a puro Capitale Umano – sulla sola riproduzione sociale, eliminandone la funzione civile, di cittadinanza, al servizio dell’uomo. Dall’altro, non riesce – tanto più all’interno di una cornice culturale basata sulla triade merito/efficienza/prestazione – a correggere il dato di partenza, a “livellare il terreno di gioco”. Le politiche che hanno condotto alla Buona Scuola, legittimate dalla parola chiave “meritocrazia”, hanno prodotto un’istruzione che è sempre più quella del primato della ricchezza, della famiglia, del territorio. .
12. Quali sono a vostro avviso i provvedimenti più urgenti da affrontare in materia di scuola e università?
In ordine alla scuola:
  • Fermare in parlamento l’iter del processo di autonomia differenziata regionale;
  • Fermare gli attuali lavori della Commissione preposta (da chi è composta?) alla riscrittura del Testo Unico attualmente vigente (D.Lgs 297/1994), prevista dal comma 181 della L 107/15 e aprire un dibattito pubblico sulle delicate questioni ad essa connessi:riordino degli organi collegiali e dell’organizzazione scolastica.
  • Abrogare la legge 107/15 e ri-pensarne, dopo ampio e serio dibattito pubblico e con i dovuti investimenti a corredo, i nodi cruciali:
  1. i) percorsi di reclutamento dei docenti e il sistema di formazione;
  2. ii) l’alternanza scuola-lavoro, da eliminare e lasciare alle differenti opportunità delle singole istituzioni scolastiche;
iii) valutazione: abrogare il regolamento del 2013 (DPR 80) e separare la valutazione di sistema da quella dei lavoratori e degli apprendimenti degli studenti.
La prima, intesa come  rapporto di efficacia-efficienza tra spesa e rispetto costi e scopi sia qualitativi che quantitativi, da affidare ad enti pubblici in ruolo di terzietà (ad es. Istat), con risultati su dati statistici di frequenza, dispersione, conseguimento titoli resi pubblici e analizzati al fine di studiare gli effetti di struttura ed organizzazione dell’insegnamento sulle popolazioni delle diverse aree geografiche, per trarre informazioni diacroniche ed indirizzare le scelte politiche.
La seconda, intesa come valutazione dell’attività dei lavoratori scolastici – in particolare insegnanti – può essere ricondotta a pratiche di autovalutazione e “valutazione tra pari”, da svolgersi nei rispettivi contesti, anche in reti di scuole, in continuo confronto con Università e Delegati esperti dell’Amministrazione Centrale (Ispettori con competenze disciplinari e didattiche e non solo amministrativo-gestionali, adeguatamente formati);
La terza, valutazione degli apprendimenti (e dei comportamenti, dello sviluppo e crescita) dei singoli studenti, è compito unico e qualificante del/dei docenti, strettamente connesso ai processi di autovalutazione e formazione professionale, oltre che espressione della libera professionalità (Art. 33 Cost.).
In questo senso vanno rifiutate: la logica dell’attuale ciclo della performance scolastica,  le rilevazioni censuarie delle competenze, sostituibili eventualmente da rilevazioni a campione, ogni tipo di certificazione delle competenze a fine I e II ciclo affidate ad agenzie esterne.
In ordine all’università:
  • Garantire un effettivo diritto allo studio su tutto il territorio nazionale, intervenendo sia sul lato degli aiuti agli studenti sia su quello degli organici degli atenei, requisito indispensabile per assicurare un’adeguata offerta formativa; è urgente invertire quel processo di compressione selettiva e cumulativa – per usare l’espressione coniata da G. Viesti – che da un decennio, oltre a colpire in modo differenziato le diverse aree del paese, ha innescato effetti a valanga nei territori più deboli (Università in declino – Un’indagine sugli atenei da Nord a Sud, Donzelli 2016).
  • Orientare le energie e le risorse all’effettivo miglioramento della qualità della didattica e della ricerca, disinnescando la competitività tossica che ha indirizzato gli sforzi dei singoli e delle strutture all’ottimizzazione degli indicatori quantitativi, incentivando comportamenti opportunistici che inquinano i risultati ed erodono l’etica scientifica.
  • Recuperare risorse e produttività alleggerendo sia l’ipertrofia burocratica sia le pratiche di (presunta) assicurazione della qualità, da subito degenerate in adempimenti formalistici che sottraggono tempo prezioso al personale docente e tecnico-amministrativo.
  • Roars, 18.3.2019
     

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