Un futuro per l’Italia pieno di trivelle e di inceneritori, dove bruciare rifiuti è più conveniente che fare la raccolta differenziata e dilaniare territorio per cercare idrocarburi viene definito strategico. Un “affarone” che questo premier sta confezionando pezzo per pezzo dileggiando chi critica e obietta e preparandosi a farsi largo “a prescindere”. Mercato libero non più solo per i rifiuti speciali (quelli già girano da sud a nord e viceversa facendo girare tanti soldi e non sempre puliti), ma anche per i rifiuti solidi urbani che verranno bruciati non solo negli inceneritori già esistenti ma anche in nuovi impianti che sarà sempre più conveniente costruire ma che poi, per far tornare i conti, dovranno continuare a bruciare senza sosta e sempre di più. L’impegno per la raccolta differenziata è solo a parole, ma siccome sarà meno conveniente dell’incenerimento, sfidiamo anche il più allocco o il più in malafede a pensare o raccontare che sarà la priorità. E gli inceneritori saranno gestiti da società partecipate con l’aiuto dello Stato; così i cittadini pagheranno gli inceneritori prima con le tasse e anche dopo con le bollette. Il decreto sblocca Italia, messo a punto dal ministro Gian Luca Galletti, prevederebbe una “rete nazionale integrata e adeguata di impianti di incenerimento e coincenerimento di rifiuti”, dando di fatto il via libera alla circolazione dell’immondizia da una regione all’altra senza più bisogno di procedure particolari; tra gli obiettivi ci sarebbe anche quello della costruzione di nuovi impianti “di termotrattamento”, definiti “infrastrutture strategiche di preminente interesse nazionale”. Finora a far sentire a voce alta la sua protesta sono stati movimenti e cittadini della Lombardia, che, come le altre del Nord e Centro, sarà penalizzata da queste norme. E non solo: la Regione Lombardia, denunciando come svolta autoritaria il decreto stesso, ha deciso di ricorrere alla Corte Costituzionale contro di esso. Intanto molto ci cova anche per le trivellazioni, insomma, come sostengono le associazioni ambientaliste, Renzi sembra proprio inseguire «il miraggio di un Texas nostrano», considerando «strategiche tutte le attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi, diminuendo l’efficacia delle valutazioni ambientali, emarginando le Regioni e forzando sulle norme che avevano dichiarato dal 2002 off limits l’Alto Adriatico, per il rischio di subsidenza». La denuncia arriva da WWF, Legambiente e Greenpeace che chiedono ai membri della Commissione Ambiente della Camera dei deputati di decidere per l’abrogazione dell’articolo 38 del decreto legge Sblocca Italia n. 133/2014. «L’Italia stenta a definire una roadmap per la decarbonizzazione. Punto di riferimento delle politiche governative è ancora la SEN - Strategia Energetica Nazionale - mai sottoposta a Valutazione Ambientale Strategica, nella quale viene presentata una stima di 15 miliardi di euro di investimento (un punto di PIL!) e di 25 mila nuovi posti di lavoro legati al rilancio delle estrazioni degli idrocarburi in Italia» dicono le associazioni. «Ma è da tempo noto che il nostro petrolio è poco e di scarsa qualità. Secondo le valutazioni dello stesso ministero dello Sviluppo economico ci sarebbero nei nostri fondali marini circa 10 milioni di tonnellate di petrolio di riserve certe, che stando ai consumi attuali, coprirebbero il fabbisogno nazionale per sole 8 settimane. Non solo: anche attingendo al petrolio presente nel sottosuolo, concentrato soprattutto in Basilicata, il totale delle riserve certe nel nostro Paese verrebbe consumato in appena 13 mesi». Gli ambientalisti sottolineano come «l’accelerazione indiscriminata impressa dal Governo metta a rischio la Basilicata che è interessata in terra ferma da 18 istanze di permessi di ricerca, 11 permessi di ricerca e 20 concessioni di coltivazione di idrocarburi per circa i 3/4 del territorio. E non è esonerato dalla corsa all’oro nero neanche il mare italiano. In totale le aree richieste o già interessate dalle attività di ricerca di petrolio si estendono per circa 29.209,6 kmq di aree marine, 5000 chilometri quadrati in più rispetto allo scorso anno. Attività che vanno a mettere a rischio il bacino del Mediterraneo dove si concentra più del 25% di tutto il traffico petrolifero marittimo mondiale provocando un inquinamento da idrocarburi che non ha paragoni al mondo». Ci sono 7 buoni motivi per chiedere l’abrogazione dell’articolo 38 del decreto legge 133/2014, perché le disposizioni in esso contenute:
1) consentono di applicare le procedure semplificate e accelerate sulle infrastrutture strategiche ad una intera categoria di interventi senza individuare alcuna priorità;
2) trasferiscono d’autorità le VIA sulle attività a terra dalle Regioni al Ministero dell’Ambiente;
3) compiono una forzatura rispetto alle competenze concorrenti tra Stato e Regioni cui al vigente Titolo V della Costituzione;
4) prevedono una concessione unica per ricerca e coltivazione in contrasto con la distinzione tra le autorizzazioni per prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi del diritto comunitario;
5) applicano impropriamente e erroneamente la Valutazione Ambientale Strategica e la Valutazione di Impatto Ambientale;
6) trasformano forzosamente gli studi del Ministero dell’Ambiente sul rischio subsidenza in Alto Adriatico legato alle attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi in “progetti sperimentali di coltivazione”;
7) costituiscono una distorsione rispetto alla tutela estesa dell’ambiente e della biodiversità rispetto a quanto disposto dalla Direttiva Offshore 2013/13/UE e dalla nuova Direttiva 2014/52/UE sulla Valutazione di Impatto Ambientale.
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