Come ogni primavera, tornano i test Invalsi nelle scuole italiane. In aprile le prove computerizzate in terza media, da ieri le scuole primarie e secondarie di secondo grado. Si rinnova così la «misurazione oggettiva» delle fantomatiche competenze di base, facendo il punto sulle differenze e sulle disuguaglianze tra i nostri studenti: da Nord a Sud, femmine e maschi, centri e periferie, licei e professionali, autoctoni e immigrati. Un’Italia divisa e diseguale, direbbe Massimo Villone. Non solo nei fatti, ma che si appresta a diventarlo per legge, se il progetto di autonomia differenziata andrà in porto. È proprio la scuola uno dei nodi cruciali della questione. Nodo attorno al quale si attorcigliano non solo interessi economici (Gianfranco Viesti, Robin Hood al contrario, Eticaeconomia) ma anche politici e culturali. Non a caso, storia e lingua, da declinarsi a livello locale e strettamente territoriale, sono i due capisaldi attorno a cui la politica scolastica regionale prima trentina – con i governi autonomisti di centro sinistra – e poi veneto-leghista ha mosso i suoi primi passi, prevedendo corsi di formazione ad hoc per gli insegnanti o percorsi didattici specifici, quando non in dialetto, per gli studenti.
I lavoratori della scuola assistono disorientati alle ultime vicende sindacali. Dall’iniziale mobilitazione unitaria che avrebbe dovuto concludersi con uno sciopero e una manifestazione il 17 Maggio – dal grande valore simbolico – alla recente firma dell’intesa tra sindacati confederali e governo, che (formalmente) sospende lo sciopero, interrompendo bruscamente – e senza alcuna concreta garanzia – un percorso faticosamente intrapreso. A nulla è valsa la dichiarazione di dissenso e la richiesta di annullamento di quell’accordo, scritta da un nutrito gruppo di associazioni impegnate su tutto il territorio nazionale contro il progetto di autonomia differenziata. Quell’intesa resta, del tutto inattesa, frutto di una scelta dirigenziale priva di reale mandato condiviso con la base dei lavoratori. Scelta preoccupante e difficilmente comprensibile dagli insegnanti, sia del Nord che del Sud, ai quali non possono bastare vaghe rassicurazioni pre-elettorali, non tanto su stipendi e graduatorie, quanto su un tema delicato come la regionalizzazione della scuola. Anche il comunicato interno della Cgil (del 2 maggio 2019) che menziona un «federalismo cooperativo e solidale» sembra preoccupare, nonostante il successivo chiarimento pubblico (4 maggio 2019). Ribadire che un federalismo «buono» esista e che la definizione di quei Livelli Essenziali delle Prestazioni (Lep) previsti dalla riforma del titolo V della nostra Carta costituzionale assicurerebbe una cornice normativa unitaria ad esso funzionale, appare una scelta azzardata e pericolosa. Tanto più nella situazione politica attuale, con governo a trazione leghista e con una prospettiva di ulteriore crescita di consensi da parte della Lega, anche nei territori meridionali.
Questo, almeno per due ragioni. La prima, di tipo culturale, è che non possiamo accettare in alcun modo di pensare alla scuola come ad un «servizio da erogare», alla stregua di luce e gas, e agli studenti come «unità di costo standard». Questo modo di pensare e di parlare, che abbiamo introiettato in maniera scellerata, va riconosciuto e raddrizzato, con la lingua inattuale dei diritti e dei beni primari. La seconda ragione, di tipo strategico e politico, è basata sull’esperienza disastrosa di un settore analogo, quello della sanità, in cui la definizione dei Livelli Essenziali di Assistenza (Lea, analogo dei Lep), avvenuta solo nel 2017, dopo 10 anni di attesa, non ha assicurato affatto maggiore efficienza per tutti. Al contrario, ha «depotenziato la funzione statale del Ministero della Salute» (F. Angelini, Autonomia differenziata e tutela della salute, Eticaeconomia), alimentando «al di là dei limiti coerenti col principio di uguaglianza» le differenze tra i cittadini nell’accesso al diritto primario della salute.
La scuola non può in nessun modo imboccare la via del federalismo. Non è questo il tempo di indugiare o di aprire spiragli lessicali con un governo le cui posizioni e le cui scelte sono irricevibili: dalla legittima difesa alla sicurezza, dalle telecamere in classe ai grembiulini rimpianti. E se l’unità sindacale deve essere un valore fondamentale, a tutela dei diritti dei lavoratori, è quanto mai necessario chiedersi in nome o a scapito di cosa quell’unità va perseguita. È tempo di risposte secche, come nei test Invalsi. Di scelte nette e precisi rifiuti: posizioni chiare attorno a cui riaccendere la partecipazione dei lavoratori di fronte ad un progetto non emendabile e non negoziabile. L’autonomia differenziata o il federalismo dell’istruzione si respingono d’un pezzo, non li si può rifinire né tanto meno co-gestire.
da ilmanifesto.it di Rossella Latempa
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