Il surrealismo della tecnocrazia di Marco Bascetta
martedì 21 maggio 2013
La costruzione
politica dell'Europa trova un ostacolo nel linguaggio freddo e prescrittivo delle norme decise in nome di un
interesse generale che impone
politiche classiste di austerità. «Il mostro buono di Bruxelles» di
Hans Magnus Enzensberger Vi sono dei
libri tanto più pericolosi quanto maggiore è il contenuto di verità che veicolano. Libri che non dovrebbero cadere
in cattive mani, mani che tuttavia,
per nostra fortuna, ai buoni libri raramente si accostano. Di simili testi è un esempio illuminante il pamphlet
dedicato da Hans Magnus Enzensberger,
uno dei più brillanti intellettuali tedeschi, nonché convinto europeista, all' Unione Europea, Il mostro buono di
Bruxelles (Einaudi, pp. 100, euro
10). Come un Virgilio scanzonato e paziente l'autore ci conduce attraverso i tenebrosi gironi dell'architettura
europea, dei suoi organismi e
funzionari, delle sue infinite commissioni e procedure, direttive e
indicazioni in un viaggio agghiacciante al
termine del quale la convinzione europeista
risulta seriamente scossa se non seccamente rovesciata nel suo contrario. Secondo gli ultimi dati dell'Eurobarometro,
uno dei tanti strumenti di
monitoraggio che l'Unione si è data per valutare il gradimento di cui gode, alla fine dello scorso anno la sfiducia
nell'Europa raggiungeva percentuali
vertiginose: 72% in Spagna, 69% in Gran Bretagna, 59% in Germania, 56% in Francia, 53%in Italia. Le formazioni
politiche euroscettiche o
direttamente antieuropee proliferano in diversi paesi e raccolgono sempre maggiori consensi. La distanza tra i
cittadini dell'Europa e le sue
istituzioni è una tendenza in perenne crescita che la crisi economica non ha fatto che accelerare, approfondire e
avvelenare. Tanto che l'opacità
degli organismi europei e la complessità imperscrutabile delle loro procedure hanno finito col generare una
indifferenza dei cittadini nella
maggioranza dei casi più prossima alla rassegnazione che all'ostilità,
che costituisce il vero pilastro su cui poggia
l'intera Unione. In altre parole,
il governo europeo è tanto più al sicuro quanto meno gli europei se
ne interessano e ne decifrano l'azione.
Ottusità delle burocrazie Non solo non esiste un'Europa politica, ma esiste una
Europa che ostacola strutturalmente
l'affermarsi di qualsivoglia dimensione politica attivando filtri e barriere insormontabili per i più, come ad
esempio le sterminate dimensioni
dei trattati (più di 400 pagine la bocciata Costituzione, più di 200 il Trattato di Lisbona) e l'oscurità tecnicistica
del linguaggio di cui si serve,
proibitiva perfino per gli stessi esperti. Una sterminata burocrazia, articolata in un mosaico surreale di sedi
e commissioni dalle funzioni più
varie, amplia progressivamente e al di fuori da ogni controllo le proprie competenze rovesciando sui cittadini del
continente, dal mare del nord fino
alle più meridionali rive mediterranee un fiume di minuziose normative di cui Enzensberger traccia un divertente
catalogo: dalla curvatura dei
cetrioli al colore dell'aglio e dei porri, dalle dimensioni dei preservativi ai sedili dei trattori, dai requisiti
delle lampadine alle piastrelle
dei bagni. Roba da fare invidia al più maniacale dei nostri sindaci sceriffi. Questo furore prescrittivo può anche far sorridere o
irritare, suscitare indignazione
per il costo dei tanti funzionari dediti a siffatte minuzie vessatorie, ma contiene un elemento assai serio che
minaccia pericolosamente i tessuti
produttivi dei diversi paesi. Vi sono livelli di reddito, di organizzazione sociale e culturale, che non possono
reggere ad apparati normativi
calibrati su situazioni di eccellenza. In altre parole l'economia
del meridione italiano non può sopravvivere con
regole sostenibili in Lussemburgo
o in Finlandia. Non si può pretendere, per esempio, che un disoccupato campano faccia revisionare il motorino che
trasporta il suo nomadismo
precario alle stesse scadenze e costi di un broker francofortese che ci va in borsa. Con il risultato di una
generalizzata trasgressione che purtroppo
si estende anche a quei principi di tutela che invece sarebbero imprescindibili e sostenibili. Il sadismo delle norme Ne sanno qualcosa i detenuti italiani sottoposti a
condizioni extraeuropee, o il
presidente ungherese Orban che, alquanto indisturbato, va costruendo un
regime parafascista nel cuore d'Europa. Poco
importa, il governo etico continentale,
oltre a imporre un'arcigna morale penitenziale ai debitori malgrado il responso negativo di tutti gli indicatori
economici e sociali continua a
prescrivere ai suoi cittadini norme e stili di vita , questi sì «al di sopra dei mezzi di cui dispongono»,
perseguitando gli ammortizzatori informali
che consentono ai più deboli di sopravvivere alla crisi. Questo instancabile furore legislativo si è
sedimentato - ci informa Enzensberger
- in uno sterminato corpus di norme, il cosiddetto Aquis communautaire, che consta di 150.000 pagine in
costante crescita. Quanto alla
Gazzetta ufficiale dell'Unione, già nel 2005 aveva raggiunto il peso
ragguardevole di una tonnellata. Non molti
devono essere i lettori di questa opera
monumentale. È un caso esemplare di come la quantità delle norme si
rovesci nella qualità di un comando opaco e
impenetrabile quanto ai suoi moventi
e ai suoi scopi. La totale ignoranza degli elettori europei riguardo
ai raggruppamenti, ai personaggi e ai meccanismi
della politica europea è ricambiata
da una altrettanto totale ignoranza delle condizioni di vita reali dei cittadini dell'Unione, nella loro estrema
eterogeneità, da parte dei
funzionari governativi di Bruxelles. Ma poi sono davvero loro i colpevoli? I governi nazionali sostengono di dover
obbedire, di non potersi opporre
alla volontà dell' Unione (il ritornello «ce lo chiede l'Europa»),
l'esecutivo europeo, la Commissione composta da
27 funzionari, uno per ogni stato
membro, replica di non fare null'altro che dar seguito alla volontà e
ai desiderata degli stati membri e cioè dei
governi nazionali. Cosicché nella
conclamata irresponsabilità di tutti l'apparato normativo si sviluppa
su se stesso come sospinto da una legge di
natura, mascherando così i rapporti
di forza tra gli stati, tra i potentati economici e finanziari, continentali e globali, che, una volta pagato il dazio
alla vanità e all'ambizione dei
burocrati, determinano il corso delle politiche comunitarie. Ma che fine fa la democrazia in tutto questo? La risposta sembra essere
questa: la peggiore possibile. Come può darsi
democrazia ove non esiste né opinione
pubblica (l'indifferenza generale per la politica europea), né divisione dei poteri (il parlamento eletto non può di
fatto legiferare). A questo
proposito Enzensberger cita il francese Robert Menasse che, nell'intento di legittimare contro le pulsioni
populiste l'architettura dell'Unione,
ne decreta però il carattere postdemocratico. Scrive dunque Menasse: «la triade composta dal Parlamento, dal
Consiglio e dalla Commissione
produce dunque un buco nero nel quale scompare ciò che noi intendiamo per democrazia». Per giungere a una
conclusione che ha tutto il tono
di un giudizio storico inequivocabile e cioè «che la democrazia classica, un modello elaborato nel XIX secolo per una
adeguata organizzazione degli
stati nazionali, non possa semplicemente essere commutata in una unione sovranazionale ma che anzi la
ostacoli». Dobbiamo dunque
rassegnarci a questa alternativa tra una Unione postdemocratica di
stati democratici costretti, in conseguenza, a
ridimensionare i propri stessi
caratteri democratici e il ritorno alle piene sovranità nazionali che
di pace e di democrazia, anche senza guardare al
passato, non offrono affatto
garanzie certe? In realtà ciò che sembra diametralmente contrapposto
è più contiguo di quanto suggeriscano le
apparenze. La trattativa tra
sovranità gelose delle proprie prerogative e protettive nei confronti dei poteri forti che le sostengono non è
affatto estranea alla natura
antidemocratica del governo europeo. Il Consiglio europeo, composto
dai capi di stato e di governo dei paesi membri,
segue le regole e gli stili, per
loro natura al riparo dalla volontà popolare e dalla pubblica critica, della diplomazia, risponde a rapporti di
forze e gerarchie di fatto che
determinano indirizzi e compromessi sui quali il Parlamento eletto, sia
pure tirando a indovinare dai pochi che ancora
continuano a crederci, non può
esercitare alcun potere. Il muro
della sovranità A guardare le cose
da questa angolazione non è la democrazia, ma sono le prerogative delle sovranità statali, le strategie di
autoconservazione delle classi
dirigenti - che con la democrazia non vanno assolutamente confuse - a
ostacolare la costruzione politica dell'Europa.
Di queste sovranità, e del gioco diplomatico
che intrattengono fra loro, il Consiglio dell' Unione europea (da non confondersi con il Consiglio europeo)
nelle sue molteplici e ubique
incarnazioni e la Commissione (l'esecutivo) sono alla fine l'espressione, sia pure incline a una poderosa autoreferenzialità
protetta da quel labirinto
procedurale in cui gli stessi poteri statuali dei paesi membri finiscono il più delle volte col perdersi. Il
fatto è che la democrazia non si
offusca nel passaggio di scala dalla dimensione nazionale a quella sovranazionale, ma è nei singoli paesi che
patisce la sua più drastica
riduzione come la crisi politica italiana e il suo esito (diametralmente opposto alla volontà degli elettori,
almeno quella più o meno
decifrabile) dimostra con una certa chiarezza, per proiettarsi in
seguito a livello comunitario. A tutto questo l'Europa dovrebbe costituire un
correttivo se non fosse ostaggio
delle sovranità nazionali con le loro classi dirigenti che sopravvivono tenacemente al collasso della
rappresentanza. Ci sono allora due
strade: o affidarsi a una sorta di «dispotismo illuminato» dei tecnocrati europei, della cui «illuminazione» è
tuttavia lecito dubitare, o combattere
con nuovi strumenti politici e sociali su ogni piano, nazionale e
sovranazionale, quell'iniqua distribuzione della
ricchezza, quel ricatto del lavoro
precario e quel contrarsi progressivo della democrazia che in minore
o maggiore misura attraversa tutto il
continente, laddove a ogni latitudine le cicale muovono i capitali e le formiche stringono la cinghia.