Un interessante articolo sulla post-democrazia. La domanda da porsi è: quanto hanno contribuito i sindacati concertativi negli ultimi  20 anni
 a creare le condizioni per la morte del conflitto e l'egemonia del 
neoliberismo e del capitale, per l'attacco ai diritti, ai salari, alle pensioni ed ai servizi, per la precarizzazione del lavoro e delle nude vite?
 Franco Coppoli, Cobas Terni
La società non esiste, era il credo
 di Margaret Thatcher negli anni ’70 del secolo scorso. E alla fine, 
passo dopo passo, la società non esiste davvero (quasi) più. Non esiste 
più la polis, l’agorà è stata occupata dal mercato e dalla rete, i corpi
 intermedi e la vecchia società civile sono diventati un fastidio che 
deve essere rimosso. Il partito novecentesco è stato sostituito da un 
rapporto verticale e populista tra gli elettori e il leader, la politica
 è diventata spettacolo, la comunicazione è una compulsione di tweet che
 nascondono una finzione di ascolto e di partecipazione.
Il
 disegno è chiaro, la democrazia partecipativa è da rottamare e da 
sostituire pienamente con il modello-impresa, dove la democrazia non 
deve entrare, dove le decisioni sono assunte rapidamemente, dove anche 
il sindacato deve essere eliminato (o integrato nel sistema). Perché è 
corpo intermedio ancora autonomo, perché è parte della società civile, 
perché è a volte ancora espressione di una volontà di partecipazione dal
 basso e di controllo democratico di ciò che accade nell’impresa (e 
fuori). E così come Taylor, cento e più anni fa considerava inutile il 
sindacato se nelle imprese fosse stata introdotta la sua organizzazione scientifica del lavoro
 – era infatti irrazionale e antiscientifico opporsi a qualcosa di 
scientifico e di scientificamente organizzato – così oggi, nella nuova organizzazione scientifica
 della vita (non solo del lavoro) che è la rete, irrazionale è 
ancora il sindacato (già indebolito per i propri errori ma soprattutto 
per la trasformazione del lavoro e la sua ulteriore scomposizione e individualizzazione), così come la difesa dei diritti.
Due
 esempi rendono bene la profondità del cambiamento (culturale, 
antropologico) intervenuto negli ultimi trent’anni di neoliberismo. Il 
primo, è quello famoso di metà settembre, quando un’assemblea sindacale 
del personale di custodia del Colosseo di Roma ha impedito ai turisti di
 entrare, bloccandoli per alcune ore fuori dai cancelli. Nulla di 
irregolare, tutto secondo le procedure. Eppure, subito si era scatenata 
l’ira della politica e dei media. “Ora basta, la misura è colma". E 
ancora: "Non lasceremo la cultura in ostaggio dei sindacalisti contro 
l'Italia". "Uno sfregio per il nostro paese". Era stata durissima la 
prima reazione del ministro della Cultura Dario Franceschini, del 
premier Matteo Renzi e del sindaco di Roma Ignazio Marino. A poco 
serviva la smentita della Sovrintendenza: "Non
 si è
 trattato di chiusura ma solo di apertura ritardata. Siamo dispiaciuti 
per i disagi ma era impossibile vietare l'assemblea". Ormai la caccia al sindacato era partita, accusato di non rispettare la cultura e i turisti, di subordinare l’economia ai diritti sindacali.
Secondo esempio, speculare al primo e citato da Tomaso Montanari su la Repubblica
 del 9 ottobre: “Giovedì scorso i turisti sono rimasti chiusi fuori 
dalla Villa della Regina a Torino, importantissimo monumento barocco e 
sito dell’Unesco. Un cartello informava, infatti che la Villa e il 
Parco, progettati per Maurizio di Savoia nel 1615 sarebbero rimasti 
chiusi perché ospitavano i giovani manager del Programma di formazione 
Uniquest di Unicredit. I futuri capitani del capitale però ‘collaborano 
alla semina di un prato fiorito… in una ideale restituzione di risorse, 
non solo economiche, della banca verso il territorio’. Tradotto: 
Unicredit prende in esclusiva per un’intera giornata un monumento 
nazionale, chiudendolo al pubblico e senza sborsare un euro. Possibile?”
 Sì, possibile, ma non solo perché (ancora Montanari)
 “l’affitto a privati del patrimonio storico e artistico della nazione è
 totalmente deregolamentato: ogni direttore fa come gli pare”, quanto, e
 piuttosto perché ormai il modello-impresa è dominante, egemone.
Un’assemblea
 sindacale che chiude solo per poche ore un bene artistico crea 
sconcerto e reazione incattivita contro i lavoratori e contro il 
sindacato. L’affitto per una’intera giornata di un altro bene culturale,
 ma a un privato come una banca non produce alcuna reazione (a parte 
Montanari e pochi altri). Nessuno ha gridato: Ora basta, la misura è colma. Non possiamo essere ostaggio dell’impresa. No, l’impresa ha sempre ragione. Il sindacato ha sempre torto. Perché questo è il senso comune che deve
 essere prodotto. Perché questo è lo storytelling che viene raccontato 
dal neoliberismo e dai media. Il sindacato è ormai l’obiettivo, facile facile, troppo facile per le sue stesse debolezze. L’impresa invece è il nuovo sovrano ed ha costruito un consenso per sé tanto condiviso che nessuno (o pochissimi)
 contesterà all’impresa ciò che invece viene contestato al sindacato.
Due
 esempi: per dimostrare che il sindacato e la società civile e i corpi 
intermedi e la partecipazione dal basso e i diritti sociali devono morire. Perché sono un ostacolo al buon funzionamento del mercato. Perché il mercato non ama la democrazia. Perché il mercato deve
 occupare ogni spazio, ogni tempo di vita, sciogliere ogni valore 
alternativo; mentre l’impresa ha in sé valori positivi sempre e 
comunque, a prescindere (e infatti, le retoriche dominanti insegnano non ad essere se stessi – come dovrebbe essere in una società umana e umanistica - ma imprenditori di se stessi). Perché – come ha scritto Dario Di Vico sul Corriere della sera del 27 settembre, condividendolo - il sogno dell’impresa è una società post-sindacale, un’impresa da vivere come una comunità che deve obbedire al mercato
 coltivando allo stesso tempo una responsabilità sociale verso i propri dipendenti, oggi chiamati collaboratori perché devono appunto collaborare con l’impresa e smetterla di opporsi al suo comando (e a quello del mercato), piuttosto introiettandolo. 
In fondo, uno dei sei zeri
 da cercare di raggiungere nella fabbrica toyotista era l’eliminazione 
del conflitto sindacale. Oggi possiamo dire: obiettivo (quasi) 
raggiunto. Sogno (quasi) realizzato. Nell’impresa. E nella società.
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