Anche in UK, come giè negli Usa, gli "studenti" sono diventati "clienti"e alle università, non chiedono di aiutarli a diventare persone capaci d pensare, ma solo di fornire il titolo per cui hanno pagato
«La riforma dell'istruzione voluta da Toni Blair è messa ora in discussione: gli studenti che pagano vogliono giudicare docenti e corsi»
Un sistema d’istruzione di prima qualità, in cui si imparava in fretta sotto la guida di docenti preparati. Questa era stata la mia prima esperienza di studentessa e giornalista, all’inizio della mia carriera, negli atenei britannici alla fine degli anni Novanta. Vent’anni dopo sono tornata per un semestre in un’università del nord Inghilterra a insegnare italiano nella facoltà di lingue. Le cose erano cambiate moltissimo.
Gli studenti che partecipavano al mio corso chiacchieravano, mentre insegnavo, guardando i telefonini, proprio come alunni di liceo poco cresciuti, e non ne volevano sapere né di stare zitti e di ascoltare né tanto meno di impegnarsi nel corso. Non solo. Alla fine sono riusciti anche a vendicarsi perché avevo protestato per la loro maleducazione. Nei moduli con i quali hanno dato un voto al contenuto del mio corso e alla qualità del mio insegnamento, hanno scritto che non sono stata una brava docente.
Sono rimasta impressionata e mi è dispiaciuto anche per l’amica che mi aveva offerto l’opportunità del corso, la quale, in quel momento, si trovava in difficoltà. Quei fogli con le valutazioni degli studenti, infatti, sono importantissimi, perché questi ultimi pagano tasse salate e il loro parere è tenuto in grande considerazione. Se non sono contenti di un docente, quest’ultimo si ritrovava nei guai. «Sì, è vero – conferma Elisabetta Zontini, professoressa di Sociologia all’università di Nottingham –. Se gli studenti se ne lamentano, i professori possono essere convocati dal preside di facoltà e messi sotto osservazione. All’inizio dell’anno, uno dei nostri obiettivi più importanti è prendere un buon voto dalle matricole e, se non succede, la nostra valutazione come docenti ne risente». «Non credo che chi frequenta i corsi si renda conto fino in fondo di quanto sia importante quel modulo che deve compilare, ma i professori lo sanno e fanno di tutto per farsi amare dagli allievi – aggiunge la docente –. Si sono alzati i voti degli studenti perché, pur di farli contenti, li si tiene buoni anche così. Un 2.1 di adesso, che corrisponde a un 28 delle università italiane, si prende molto più facilmente di quindici anni fa. I voti si danno con molta più leggerezza».
Negli atenei di tutto il Regno Unito chi impara non è più uno studente desideroso di approfondire la materia, ma un vero "cliente" che paga per una merce che dev’essere di una certa qualità. Il rapporto tra giovani e professori è cambiato per sempre con l’introduzione delle tasse universitarie nel 1998. Una scelta sofferta, adottata dal governo laburista di Tony Blair, che scatenò ai tempi la ribellione dei parlamentari e le proteste degli studenti. «Fino ad allora l’istruzione universitaria britannica era ottima, anche se molto elitaria, con il sistema del tutoraggio che metteva a stretto contatto alunni e professori, come ai tempi di Aristotele e Platone. Così si preparavano le élite, meno del 10% della popolazione, per le quali pagava lo Stato», spiega il professor Michael Alexander, classe 1941, uno dei più importanti esperti di Shakespeare, il primo cattolico a salire in cattedra all’università scozzese di St. Andrews dai tempi della Riforma protestante.
Ma, poi, venne appunto Blair, con la sua convinzione (ispirata a principi di democrazia) che la base universitaria andasse allargata fino a comprendere almeno il cinquanta per cento degli studenti britannici. A quel punto il Paese decise di seguire la strada intrapresa dagli atenei europei e americani e, dunque, di ammettere nelle aule universitarie moltissimi studenti in più. Sulla scena arrivarono pertanto tasse più salate per pagare i costi dovuti al numero in forte espansione degli iscritti. La popolazione universitaria è passata dai 909.300 studenti dell’anno accademico 1985-86, alla vigilia della riforma di Blair, ai 2,32 milioni del 2017. Il doppio delle cifre del nostro Paese, se si pensa che l’Italia, nel 2017, contava 1.654.680 iscritti contro il milione e 113.000 che si era registrato nel 1985.
Secondo un’inchiesta del Washington Post, negli Stati Uniti la trasformazione degli atenei in mercati dell’istruzione è cominciata molto prima che in Gran Bretagna, addirittura agli inizi del 1900, con la decisione di Charles W. Eliot, allora preside di Harvard, di lasciare agli studenti la scelta delle materie. Quelle non gradite sarebbero scomparse dai piani di studi. Con l’eccezione di alcuni centri di eccellenza, dove il corpo insegnante decide ancora che cosa bisogna studiare per ottenere la laurea, oggi nei campus americani regna la libera scelta. La percentuale del bilancio destinata agli svaghi, alle strutture sportive e ai luoghi di ristoro da parte delle università è salita del 22% tra il 2003 e il 2013, molto più rapidamente di quella destinata alla ricerca o all’insegnamento, rimaste attorno al 9%. La professoressa Sara Goldrick-Rab, chiamata dal Senato americano a riferire sullo stato dell’istruzione universitaria nel 2013, ha dichiarato che i campus americani stavano diventando rapidamente «fantastiche colonie estive». A parere del 'Washington Post', oggi gli studenti americani controllano a tal punto la vita delle università che sono in grado di cacciare professori che non la pensano come loro o di mettere all’indice libri non graditi, con risultati pessimi per il dibattito e la tolleranza intellettuale. «Tony Blair ha trasformato il sapere da bene comune a una transazione economica, sostenendo che i giovani dovevano restituire i soldi investiti dallo Stato nel loro futuro una volta ottenuto un buon stipendio», spiega Alexander. In questo grande 'circo del divertimento accademico', vincono gli atenei che offrono le piscine e le palestre migliori risparmiando sulle pensioni del corpo docente. È dovuto proprio al taglio fino al 50% dei trattamenti di anzianità dei professori il recentissimo sciopero, il più importante della storia delle università britanniche, nel quale sono stati coinvolti migliaia di docenti e oltre la metà delle università britanniche, comprese Oxford e Cambridge.
Nei picchetti, i professori sono stati sostenuti dagli studenti, colpiti da tasse universitarie divenute altissime. Oggi una laurea, in Gran Bretagna, costa circa 31.500 euro, ai quali vanno aggiunti 15mila euro di vitto e alloggio se si studia a Londra o poco meno di 14mila se ci si studia nel resto del Paese. È possibile fare un mutuo che però va poi restituito in modo graduale, una volta che lo stipendio supera la soglia dei 28mila euro.
È stata la stessa premier Theresa May ad annunciare una riforma di questo sistema dopo che Lord Andrew Adonis, proprio il ministro di Blair che introdusse le tasse universitarie, ha ora suggerito di abolirle, riconoscendo che puniscono gli studenti più poveri. «Il sistema è stato sfruttato da rettori e professori avidi per assicurarsi stipendi che stanno tra i 300mila e i 500mila euro l’anno, anziché per migliorare la qualità dell’insegnamento», ha detto Adonis. La professoressa Zontini è arrivata nel Regno Unito grazie all’Erasmus, agli inizi degli anni Novanta, ed è ritornata, come ricercatrice, perché affascinata da un sistema universitario che promuoveva l’indipendenza di chi impara. «Sembrava il paradiso. La cultura era accessibile. Le classi piccolissime. Era importante essere critici. Non si imparavano a memoria i libri, ma si scrivevano piccole tesine. Oggi insegniamo a centinaia di studenti come in Italia – racconta –. E, dal momento che pagano, i nostri studenti vogliono la garanzia del risultato. Quando prendono un voto basso, non pensano di non avere studiato abbastanza, ma di non avere ottenuto quello per cui hanno pagato. A volte, ci fanno persino causa. Gli aspetti più difficili delle materie vengono messi da parte. Oggi si punta tutto sul risultato e lo spazio per pensare non esiste più», conclude con una punta di delusione.
di SILVIA GUZZETTI, Avvenire, 3 aprile 2018.