Dall'estate scorsa, dalla famosa lettera di intenti inviata dalla BCE all'annaspante Governo Berlusconi, è sotto gli occhi di tutti il crollo, anche formale, del rapporto democratico tra cittadini, gruppi sociali, classi e Stati che stava alla base della convivenza sociale, registrato nelle Costituzioni dei Paesi europei, nei Trattati, in quello stesso adottato per la Costituzione Europea: la politica economica della Crisi ha macinato la formalizzazione dei rapporti di forza determinatisi nella seconda meta del secolo scorso e sta ponendo le basi per dei nuovi Contenitori strutturali nazionali ed internazionali. Se consideriamo questo come l'orizzonte sociale ed istituzionale entro cui ci muoviamo e si vanno assestando gli ambiti, gli attori sociali ed istituzionali, possiamo cogliere più agevolmente quanto profondo e radicato nel tempo sia il progetto di trasformazione e di involuzione della democrazia anche nella scuola. La ricaduta normativa dei movimenti di lotta e culturali degli anni 60 produsse una virata nell'istituzione scolastica italiana introducendo, a partire dal 1973 un insieme di 6 leggi che vanno sotto il nome di Decreti Delegati: questi hanno messo nell'angolo la vecchia scuola autoritaria e segnato l'ingresso della democrazia, della cooperazione, della compartecipazione e della sperimentazione nella nostra scuola. In vero la parte radicale dei movimenti li ha fortemente contestati individuando in essi il tentativo istituzionale [allora] di ingabbiare, di svuotare, di stravolgere la spinta destrutturatrice delle lotte studentesche, ma, ciò non di meno, i Decreti Delegati hanno impresso una svolta che ha segnato in profondità il cambiamento nel fare scuola con la presenza degli Organi Collegiali attraverso cui è passata una buona parte della decisionalità nella gestione del sistema scolastico periferico. Questa, peraltro, è l'accusa sottesa agli insegnanti e più in generale alla scuola di sessantottina memoria contro cui si sono scagliati i ministri Moratti e Gelmini, con il codazzo di giornalisti, giornali e metre a pensè di tutti gli orientamenti politici. E' stato il ministro dell'istruzione Luigi Berlinguer del 1° governo Prodi nel lontano 1996 a prendere la scuola pubblica per le corna, dando l'avvio a quel processo di trasformazione strutturale che aveva ed ha come obiettivo la mutazione antropologica dello studente - cittadino in cliente - utente di un servizio erogato secondo i principi aziendali e privatistici con la finalità di ottenere un prodotto finito [lo studente - addestrato] capace di essere duttile e flessibile, al passo con le esigenze della produzione nell'epoca del just in time, superando d'un balzo le peculiarità del sistema educativo italiano. Berlinguer fu dimesso da ministro dalla rivolta degli insegnanti contro l'introduzione della gerarchia/meritocrazia nella professione docente [forse per l'ultima volta nella scuola l'egualitarismo è stato il collante di una lotta vincente] ma la filosofia che sottendeva la sua riforma della scuola aveva già messo forti radici capaci di svilupparsi rizomaticamente fino a produrre, pur con resistenze e momenti di lotta importanti, quei cambiamenti che si era prefissata. La trasformazione è stata imposta a forza di decreti legge e legislativi, modificando i cicli scolastici, le discipline d'insegnamento, i tempi d'apprendimento, le modalità di verifica degli apprendimento, il tutto forzato e giustificato dalle direttive europee, dal progressivo decadimento del successo scolastico anche in riferimento agli standard europei ed internazionali. La progressiva introduzione dell'INVALSI, quale strumento di rilevazione e misurazione delle conoscenze e competenze ha segnato la determinata volontà di, appunto, destrutturare tutto il peculiare percorso formativo italiano per ricondurlo dentro gli alvei delle esigenze e delle compatibilità proprie del contemporaneo modo di produzione. In questo quadro la recentissima legge 953 [ex Aprea], licenziata alla Camera, e presto al Senato, con parere favorevole di tutti gli schieramenti parlamentari, vuole segnare un punto di non ritorno nella struttura del sistema scolastico italiano, con una istituzionalizzazione della privatizzazione oltre che nella gestione delle scuole con la soppressione degli Organi Collegiali compartecipati anche nelle pratiche didattiche. Lo stesso Concorsone, proposto quale risoluzione del reclutamento dei nuovi insegnanti, venduto quale soluzione del precariato nella scuola e del suo svecchiamento, contro il quale si stanno, giustamente, mobilitando le varie stratificazioni storiche dei precari della scuola, rappresenta un ritorno al futuro. Nel senso che viene ripescato un vecchio strumento, il concorso, per funzionalizzarlo alla nuova scuola rimodellata da un comando centralistico senza precedenti, dove sia i soggetti [gli insegnanti] che l'oggetto [la didattica e contenuti della stessa] sono passati al setaccio di un Miniculpop statalista che comprime democrazia e cooperazione didattica, decisionalità e compartecipazione periferica, egualitarismo e contrattazione, facendo a pezzi ogni residua velleitaria idea autonomistica della scuola. Beppi Zambon Adl-Cobas
Powered by Blogger.