Un fatto come questo è tipico delle guerre asimmetriche, in cui potenze che dispongono di armi letali, ma spesso cieche, si scontrano con guerrieri, «insurgent» o ribelli capaci di mimetizzarsi con la popolazione. Oggi, questi combattenti, che spesso tengono in scacco gli armatissimi eserciti occidentali, sono sparsi in mezzo mondo.
E soprattutto nella fascia che va dal Maghreb alle regioni più occidentali della Cina. Che c'entra l' «errore» o «danno collaterale» in Afghanistan con il dilagare nel mondo musulmano di proteste violente contro gli Stati Uniti e altri paesi occidentali? Che cosa ha a che fare il quotidiano stillicidio di vittime civili nelle guerre asimmetriche con un supposto conflitto tra religioni o culture? Moltissimo. Il fatto, invece, che le manifestazioni siano unanimemente considerate come la conseguenza di una stupido filmetto e della denuncia, da parte dei musulmani, delle bestemmie occidentali, è una prova dei pregiudizi che annebbiano, da noi, l'analisi di questi fatti.
Riusciamo a immaginare un drone di un paese arabo o musulmano che lancia un missile contro una nostra unità militare in Europa e invece uccide dei civili? Riusciamo a immaginarlo? No, assolutamente no, e questo per il semplice motivo che da un paio di secoli, a partire dalla spedizione di Napoleone in Egitto, è la civile Europa a portare la guerra in tutti quei paesi, e non viceversa. Siamo noi ad avere enunciato ripetutamente e pubblicamente una sorta di diritto di ingerenza e di prelievo delle risorse naturali in quei paesi, e non viceversa.
Siamo noi ad avere mandato per secoli i nostri missionari in Africa, Asia e America latina, e non certamente i musulmani ad aver tentato di «coranizzare» l'Europa. E ciò al punto tale che quando i primi migranti dal Maghreb sono comparsi in Europa, il loro arrivo è stato interpretato, dai nostri più brillanti commentatori (e non solo di destra), come una testa di ponte dell'Islam. Tutto questo è ovvio, ma il fatto che non sia considerato tale nel discorso pubblico occidentale dimostra quanto i nostri pregiudizi siano radicati.
Per più di un secolo l'anticolonialismo nei paesi arabi e musulmani è stato al tempo stesso laico e religioso, politico e sociale. Ma da quando le élites laiche e un tempo anticoloniali al potere in Egitto, Siria, Iraq, Libia ecc. si sono dimostrate corrotte o attive nella repressione del radicalismo religioso, questo ha inevitabilmente assunto il ruolo d'avanguardia anti-occidentale. Era del tutto naturale che nella turbolenza della guerra civile in Libia si infilassero islamici ultra-radicali ed elementi stranieri - magari finanziati indirettamente o direttamente da occidentali, dall'Arabia saudita o dal Qatar. Era inevitabile, perché il radicalismo religioso, civile o armato, non è il frutto di qualche complotto terrorista (o comunque non solo), ma un'espressione di quelle società e soprattutto di secoli di frustrazioni, sconfitte e subordinazione agli interessi occidentali, cioè nostri.
E quindi le proteste (compreso l'assalto di Bengasi in cui è stato ucciso l'ambasciatore americano) non sono un tradimento, da parte degli infidi arabi, del generoso e disinteressato occidente, ma l'espressione di un conflitto che si dispiega in tutti i campi - politico, sociale, economico ecc. - e che trova nella religione un fattore simbolicamente unificante (come per secoli è avvenuto in Europa). Che gruppi armati del radicalismo islamico combattessero contro Gheddafi, utilizzando tatticamente la copertura Nato, era evidente fin dal marzo del 2011, se proprio non si era annebbiati dalla mitologia della rivolta laica e democratica. E non si capisce se la cecità occidentale è stata deliberata (come trent'anni fa in Afghanistan, quando gli americani finanziarono la guerriglia contro i russi) o frutto di superficialità e arroganza.
Sta di fatto che, se e quando i droni colpiranno in Libia, Sudan e Yemen (come continuano a colpire in Afghanistan e Pakistan), l'anti-occidentalismo, che oggi trova la sua avanguardia nel radicalismo religioso, continuerà ad avere buoni argomenti. In una catena di cause e conseguenze di cui non si prevede la fine.
il manifesto 18.09.12