Accordo sulla produttività, non fermarsi alla superficie.
Al di là delle etichette propagandistiche con cui governo e “parti sociali” vogliono rivestirlo, sostanzialmente questo accordo serve a istituzionalizzare, a favore dei datori di lavoro, altri elementi di flessibilità, deregolamentazione e differenziazione dei contratti di lavoro, in perfetta coerenza con il percorso tracciato dagli “accordi quadro” precedenti.
In estrema sintesi, infatti, esso sposta definitivamente il baricentro della contrattazione dal livello nazionale a quello locale ed aziendale.
Salari, inquadramento, organizzazione ed orari del lavoro, mansioni... nulla sarà più deciso a livello nazionale, le aziende potranno stabilire ciascuna per sé queste materie. Tra l’altro, questa contrattazione di “secondo livello” esiste solo per una parte delle aziende, quelle più grandi, mentre per la maggior parte l’unico riferimento certo era fin qui proprio il contratto nazionale. È prevedibile che i rapporti di lavoro in queste aziende saranno ridotti, ancora più di oggi, ad accordi personali ed individuali.
Il contratto nazionale deve servire solo a “rendere la dinamica degli effetti economici (…) coerente con le tendenze generali dell’economia, del mercato del lavoro, del raffronto competitivo internazionale”.
Inoltre esso (il contratto nazionale) potrà stabilire che una quota degli aumenti contrattuali (anche tutto?) sia spostata su retribuzioni legate all’ incremento della produttività e della redditività definite dalla contrattazione aziendale.
Queste quote, ringraziando il governo, saranno sottoposte a regimi fiscali e contributivi di favore. A tutto e primario vantaggio delle aziende, naturalmente, perché per queste retribuzioni, già incerte perché strettamente legate ai risultati, esse verseranno meno tasse e probabilmente nessun contributo, tra l’altro con forti ripercussioni negative anche sulle pensioni, condizionate proprio dal montante contributivo.
Vi sono altre “perle” nell’accordo, che riguardano ad esempio l’obiettivo di connettere il rapporto di lavoro ai destini ed all’andamento dell’azienda, agevolando la partecipazione dei lavoratori all’impresa, e l’immancabile riferimento alla previdenza integrativa, per la quale, per cercare di renderla minimamente appetibile, si sottolinea la necessità di prevedere agevolazioni fiscali aggiuntive
Una ulteriore “chicca” è rappresentata da una sezione in cui si fa riferimento, con formule fumose, a “soluzioni utili a conciliare le esigenze delle imprese e quelle dei lavoratori più anziani, favorendo percorsi che agevolino la transizione dal lavoro alla pensione”; che vorranno dire ?
In relazione alle ultime riforme pensionistiche che hanno spostato indefinitamente l’età della pensione, i lavoratori più anziani sono sempre più anziani ed è quindi necessario consentire alle aziende di “rideterminare” il loro utilizzo, potendoli adibire a mansioni più “adatte” alla loro età, indipendentemente dal loro profilo di inquadramento. Quindi massima elasticità delle mansioni (si parla di “equivalenza delle mansioni”), tutti possono fare tutto.
Quindi, sotto il mantello della “produttività” vengono nascoste politiche contrattuali ed aziendali che continuano ad essere ispirate alla flessibilizzazione spinta del rapporto di lavoro, nonostante questo indirizzo, in questi anni, non abbia prodotto nessun risultato positivo non solo dal punto di vista occupazionale e sociale, ma neppure da quello produttivo ed economico.
Un ulteriore accanimento del padronato e dei sindacati complici per accentuare l’incertezza dei diritti, la deregolamentazione e i rapporti di lavoro spostati a vantaggio delle aziende.
Inutile dire che CISL e UIL, oltre all’UGL (che ridicolmente firma nonostante non sia stata chiamata al tavolo) sono corse a firmare questo accordo, che rispecchia in pieno la loro filosofia di sindacato che si accinge a cogestire e compartecipare in varie forme con e nelle aziende.
Ma va anche sottolineato che sull’impianto dell’accordo anche la CGIL non ha obiezioni di sostanza, perché il suo attuale rifiuto di firmare è legato esclusivamente alla questione della rappresentanza, cioè, in chiaro, alla richiesta di riammissione della FIOM alla contrattazione nazionale, nonostante la mancata firma sugli ultimi contratti. È questa l’unica condizione posta dalla CGIL per la sua firma, senza contestazioni di merito sugli altri contenuti, che, lo ribadiamo, sono coerenti e proseguono nel solco tracciato da precedenti accordi, a cui la CGIL non si è mai sottratta.
Questo accordo, restringendo ancora di più gli spazi democratici e contrattuali nei posti di lavoro, tende ad imporre per norma il “modello Marchionne”, un sistema di relazioni improntato alla collaborazione stretta ed amichevole tra azienda e sindacati, dove qualunque conflittualità organizzata o disaccordo individuale con i criteri produttivi adottati, sono etichettati come “inadempienza” e passibili di sanzioni per l’organizzazione e licenziamento o emarginazione per il dipendente.
Esso impone una riflessione anche al sindacalismo conflittuale, che deve assolutamente ripensare i suoi modelli organizzativi e di azione: si dimostra che non vi è più la possibilità di ottenere riconoscimento della propria rappresentatività attraverso l’inseguimento testardo dei semplici “numeri”, la controparte aziendale è decisa a “riconoscere” solo chi collabora con essa.
È necessario cambiare strada, è indispensabile tralasciare gli elementi di insignificante divisione che hanno caratterizzato questi ultimi anni, ritornando ad interpretare unitariamente il nostro ruolo, dalla nostra parte, nella lotta di classe, che d’altronde il capitalismo, per i suoi scopi, non ha mai abbandonato.
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