Archive for 2014
VITTORIA DEI LAVORATORI, REINTEGRATI E RISARCITI, CONTRO L’ARROGANZA PADRONALE
Un anno fa partiva la campagna di solidarietà “ladri di merendine”, lanciata dalla Confederazione Cobas - che ha assistito uno dei due lavoratori sia a livello sindacale che tramite il proprio legale, l’avvocato Gabriella Caponi- dopo il licenziamento, ingiusto ed illegittimo, di due lavoratori da parte di Coop Centroitalia, con la pesante quanto insussistente accusa di furto.
Una campagna in solidarietà ai due lavoratori accusati ingiustamente con una protervia inaccettabile da parte di Coop Centroitalia, cooperativa della grande distribuzione, che pur avendo le sue radici nella storia del movimento operaio e mutualistico, si è comportata con i lavoratori con lo stesso stile del padronato più autoritario.
Un anno dopo il licenziamento il Giudice del lavoro di Terni Chiara Aytano con un’ordinanza del 22 dicembre “ritenuto insussistente il fatto” ha riconosciuto “illegittimo il licenziamento intimato a XX e per l’effetto ordina la sua immediata reintegrazione nel posto di lavoro; condanna la Coop Centro Italia soc. Coop. al pagamento dell’indennità risarcitoria (…) al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali dal licenziamento sino alla reintegra (…) e al pagamento delle spese di lite”.
Un anno duro per i lavoratori licenziati, supportati dalla solidarietà di tanti che hanno firmato petizioni e manifestato pubblicamente la loro contrarietà ai licenziamenti. Cene sociali, volantinaggi davanti all’ipermercato e allo stadio, striscioni, concerti, petizioni e prese di posizione pubbliche hanno supportato la giusta e vincente lotta per il reintegro dei lavoratori licenziati illegittimamente da Coop che aveva addirittura istallato nel magazzino impianti di videosorveglianza illegali.
Come confederazione Cobas, oltre al fatto che non poteva esserci migliore notizia per festeggiare l’anno nuovo, esprimiamo una piena e totale soddisfazione per questa vittoria dei diritti dei lavoratori contro la protervia padronale.
Ricordiamo infine che abbiamo presentato ricorso contro il comportamento di Coop Centroitalia, che a tutt’oggi nega ai al sindacato Cobas, votato dal 30% dei lavoratori alle elezioni delle RSU, il diritto di affiggere comunicazioni in bacheca sindacale o di poter indire assemblee coi lavoratori.
La Confederazione Cobas di Terni
MAFIA CAPITALE E LA MUTAZIONE GENETICA DELLE COOP
Nelle vicende di Mafia Capitale che gettano una luce pessima sul mondo cooperativo, Mario Frau, ex dirigente Coop, vede una continuità in quella che nel suo libro La Coop non sei tu, definì la mutazione genetica delle Cooperative
Per concludere, ritengo indispensabile una riforma organica della legislazione sulla cooperazione in modo da garantire maggiormente i soci circa il rispetto dei principi solidaristici e mutualistici, della correttezza amministrativa ed etica dei propri manager.
Mario Frau
18 dicembre 2014
Il post che segue è un insieme di riflessioni sul mondo Coop di Mario Frau dopo lo scandalo Mafia Capitale. Frau è stato Direttore alla programmazione e sviluppo di Novacoop e membro della Direzione dell'Associazione Nazionale Cooperative di Consumo. Lo abbiamo conosciuto nel 2010, dopo aver letto il suo libro La Coop non sei tu dal significativo sottotitolo: La mutazione genetica delle Coop, dal solidarismo alle scalate bancarie. Su quel libro il blog intervistò l'autore.
***
Nel mio saggio La Coop non sei tu ho più volte usato il termine mutazione genetica riferendomi ai cambiamenti che hanno coinvolto le grandi coop. Che ci sia stata tale trasformazione - meglio sarebbe usare il termine degenerazione - che ha investito diffusamente alcune grandi Coop che operano in una pluralità di settori dell’economia, lo confermano i fatti di questi giorni emersi a Roma. Tale mia convinzione è supportata anche dalla progressiva finanziarizzazione di tutto il sistema cooperativo e l’affermazione al proprio interno di una casta autoreferenziale di intoccabili, l’assenza di adeguati controlli democratici da parte dei soci, che sono stati emarginati ed esclusi da qualsiasi processo decisionale. Il modello solidaristico è stato abbandonato, per sposare tout court la logica del profitto, omologandosi alle imprese capitalistiche. Si è così affermato una sorta di organismo geneticamente modificato che, godendo di molti privilegi, crea una distorsione del mercato e anziché distinguersi dalle imprese di capitali, ha finito per scimmiottarle, omologandosi ad esse. Dopo la nascita del PD, che ha indubbiamente affievolito il collateralismo, alcune coop hanno cominciato a intessere rapporti anche con gli altri partiti.
Il verminaio che sta uscendo dallo scandalo di Mafia Capitale dà idea di un malcostume diffuso e tollerato. Non credo che sia un fenomeno isolato, come dimostra anche la recente vicenda dell’Expo, ma è presumibile che abbia investito anche altre grandi cooperative. Ho letto un interessante articolo a firma di Andrea Cangini, che merita essere riportato in parte: Ad esempio Salvatore Buzzi, protagonista dello scandalo Mafia Capitale si sapeva che aveva precedenti per truffa e omicidio, fondatore di una cooperativa di ex detenuti e da lì divenuto membro, a Bologna, del consiglio di sorveglianza del Consorzio nazionale servizi (Cns). «Ti presento il capo delle cooperative rosse di Roma», disse Alemanno a Berlusconi mentre Buzzi gli tendeva la mano. «In Cns sono riverito», ha detto Buzzi in un’intercettazione. E l’incarico di sorvegliante che gli è stato affidato dimostra che non ha detto il falso. Ora, pur evitando facili moralismi, è chiaro che la parola «valori» esibita da Legacoop sul proprio sito s’è persa. Si è persa perché si è persa l’identità di un’associazione di lavoratori nata per nobili ideali, ma cresciuta male. La base, ancora popolata di persone che ci credono, è sconcertata. E non se ne esce costituendosi parte civile nel processo capitolino. Se ne esce affrontando la realtà. La realtà di un’associazione di imprese perfettamente calata nella logica capitalista. Urge metter mano, se non alla Costituzione, almeno allo statuto.”
Qualche giorno fa che Poletti ha rilasciato una intervista a Repubblica, sostenendo che era assolutamente normale partecipare a quella cena (quella con Buzzi e esponenti del clan dei Casamonica), dichiarando testualmente: come presidente di Legacoop ho partecipato sempre alle iniziative ed alle assemblee delle cooperative aderenti. Era dunque assolutamente normale che partecipassi alla cena organizzata dalla cooperativa sociale 29 giugno, che aveva per obiettivo il reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti e delle persone più deboli. Fa presente Poletti che quando si vive in questo mondo e si vede come lavorano le cooperative sociali, non si pensa che possano esistere comportamenti come quelli che oggi vengono alla luce. Mi permetto solo di fare qualche osservazione. Tutto bene, Poletti, ma chi aveva il compito di controllare la correttezza di Buzzi e della cooperativa associata 29 giugno? In primis lo aveva il servizio revisioni di Legacoop, in secundis l'associazione di appartenenza, deputata a controllare e a vigilare, come prevede la legge.
Anche in questa circostanza torna alla mente quello che ebbe a dire un grandesindacalista e uomo di cultura come Bruno Trentin, che dopo la fallita scalata alla BNL da parte di Unipol: le Coop hanno perso l’anima inseguendo ad ogni costo il profitto e l’arricchimento a scapito dei propri valori originari.
La mutazione genetica consiste nel fatto che i vari supermercati e ipermercati coop sono diventati le filiali di una grande Banca, senza tuttavia soggiacere ai vincoli e ai controlli imposti alle Banche dalla Banca d’Italia, con la messa a rischio del prestito sociale e dei posti di lavoro come è accaduto recentemente alla coop in Friuli. Tali attività finanziarie, svolte in modo talvolta spregiudicato, spostano ingenti risorse dagli investimenti produttivi sui mercati che non si conciliano con le finalità sociali, etiche e mutualistiche che ne dovrebbero guidare l’attività.
Dopo le vicende di Mafia Capitale viene da chiedersi se ci sia ancora spazio per una realtà cooperativa sana. Credo che ci siano oggi molti spazi per lo sviluppo e il rilancio di un modello cooperativo sano, in grado di offrire alle giovani generazioni una alternativa al precariato e alla disoccupazione, riempiendo gli spazi che le grandi imprese di capitali non riescono ad occupare. Penso che una organizzazione di persone che si mettono assieme per dotarsi di servizi o di un posto di lavoro a condizioni più vantaggiose rispetto al mercato in un momento di generale impoverimento, come accade in questo periodo, sia di estrema attualità. Per fortuna non tutto il sistema cooperativo è composto da coop degenerate e corrotte, governate da caste autoreferenziali che non rispondono mai a nessuno del loro operato e meno che mai ai propri soci. Il problema della partecipazione dei soci alla vita sociale delle cooperative ha assunto negli ultimi anni, a causa della diffusa disaffezione, un aspetto molto preoccupante, per non dire patologico. Di norma alle assemblee separate di bilancio partecipa una percentuale bassissima degli aventi diritto e approvano ad occhi chiusi qualsiasi decisione, molto spesso non comprendendo neppure il significato di ciò che vanno ad approvare. Nell’ultimo decennio sono nate cooperative di ogni genere che praticano salari da fame, non pagano i contributi previdenziali ed evadono le imposte. Esse agiscono ai margini della legalità, facendo concorrenza sleale alle imprese e alle cooperative sane e solo in qualche occasione finiscono nelle maglie della giustizia. Vengono chiamate cooperative spurie, sono cooperative controllate da pochi capi bastone (i negrieri del terzo millennio) dediti alla intermediazione di manodopera, sia Italiana che straniera che svolge lavori dequalificati, con turni e ritmi di lavoro massacranti, come nel caso della logistica. Anche questo fenomeno, da combattere con ogni mezzo, è la prova di come la mutazione genetica delle coopsi sia spinta molto avanti, direi quasi tollerata.
Diversa è per fortuna la situazione di molte piccole e medie cooperative, dove spesso il presidente è realmente espressione dei soci e vive del proprio lavoro partecipando onestamente al successo del sodalizio. La partecipazione e il controllo da parte dei soci si sviluppa in modo libero e senza ostacoli, in nome della trasparenza e del rispetto delle regole statutarie e democratiche condivise. Ciò detto, occorrono urgenti provvedimenti legislativi per arginare fenomeni come quelli accaduti nella Coop 29 giungo di Roma e in altre cooperative.
Per concludere, ritengo indispensabile una riforma organica della legislazione sulla cooperazione in modo da garantire maggiormente i soci circa il rispetto dei principi solidaristici e mutualistici, della correttezza amministrativa ed etica dei propri manager.
Mario Frau
18 dicembre 2014
Renzi, ci fai o ci sei?
giovedì 18 dicembre 2014
Ecco qui di seguito la lettera che ho inviato al Corriere della Sera subito dopo avere letto l’articolo a firma Valentina Santarpia, di cui si trova una versione ridotta nel giornale on line.
Gentile Direttore,
in qualità di prima firmataria del Disegno di legge di Iniziativa Popolare per una Buona Scuola per la Repubblica, ritengo che sia doveroso fare alcune precisazioni e ricondurre alla realtà dei fatti molte delle dichiarazioni contenute nell’articolo da voi pubblicato ieri dal titolo, sull’edizione cartacea, “La ‘buona scuola’ rimandata a febbraio” a firma di Valentina Santarpia
Dall’articolo si apprende il mea culpa di Matteo Renzi riguardo alla scarsa adesione riscossa dalla consultazione sulla “Buona Scuola” promossa dal Governo e conclusasi il 15 novembre scorso.
Il Presidente del Consiglio dichiara di non essere riuscito a “raccontare come questa riforma sia la ragione di speranza del nostro Paese, come si giochi qui la scommessa sul futuro dell’Italia”. E fino a qui non possiamo che essere d’accordo con lui.
Ciò che invece sorprende, o meglio, lascia totalmente esterrefatti è come il Premier auspichi una maggiore consapevolezza da parte dei rappresentanti del mondo della scuola, a cui rivolge questo accorato invito: “avvertano questa battaglia come una battaglia propria, che entrino nel merito dei provvedimenti e che dicano: questa cosa mi riguarda troppo, non posso lasciarla al Presidente del Consiglio o al sottosegretario”. Renzi si augura inoltre di fare della “Buona Scuola” non più un “progetto calato dall’alto”, ma un progetto “su cui chiedere pareri e consigli”.
Vorrei pertanto tranquillizzare il Presidente del Consiglio e ricordargli alcune cose:
- il tanto auspicato progetto che viene dal basso esiste già, è il Disegno di Legge di Iniziativa Popolare per una Buona Scuola per la Repubblica (LIP), regolarmente depositato in Senato (Atto del Senato 1583) e di cui io sono la prima firmataria
Fondata sui principi costituzionali del pluralismo, della democrazia e della laicità, la LIP è il primo progetto organico che affronta il tema della scuola dalla scuola dell’infanzia alla scuola superiore, tenendo conto di tutti gli attori coinvolti (insegnanti, studenti, genitori, personale ATA) e senza escludere alcuno dei temi essenziali, dall’edilizia scolastica, alle risorse finanziarie, alla formazione e valutazione dei docenti, all’obbligo scolastico, solo per citarne alcuni;
Fondata sui principi costituzionali del pluralismo, della democrazia e della laicità, la LIP è il primo progetto organico che affronta il tema della scuola dalla scuola dell’infanzia alla scuola superiore, tenendo conto di tutti gli attori coinvolti (insegnanti, studenti, genitori, personale ATA) e senza escludere alcuno dei temi essenziali, dall’edilizia scolastica, alle risorse finanziarie, alla formazione e valutazione dei docenti, all’obbligo scolastico, solo per citarne alcuni;
- depositata alla Camera per la prima volta nel 2006 e ripresentata nell’agosto di quest’anno, la LIP è il frutto di un lunghissimo confronto cui hanno partecipato in tutta Italia centinaia di rappresentanti del mondo della scuola. Persone che hanno già fatto propria la battaglia tanto auspicata da Renzi e che la stanno portando avanti con tenacia, nonostante il Governo abbia finora totalmente finto di ignorare questo disegno di legge. Persone che per amore della conoscenza e della sua trasmissione hanno dedicato il proprio tempo a titolo gratuito, a fronte di un sondaggio ufficiale,quello della “Buona Scuola” promosso dal governo, che è stato pagato con il denaro dei contribuenti;
- docenti, studenti e famiglie chiedono da tempo cambiamenti anche radicali, ma finora la volontà di avere una scuola migliore si è sempre scontrata con la ferma determinazione a ridurne le risorse. A dispetto della retorica politica che periodicamente indica nell’istruzione un valore su cui non si può non investire, negli ultimi 15 anni la voce di spesa destinata alla scuola è rimasta invariata.
E la nuova legge di stabilità conferma lo stesso orientamento: il miliardo destinato alle assunzioni dei precari (che la Comunità Europea ci obbliga a regolarizzare e che risarciscono solo parzialmente le irregolari assunzioni fatte dalla metà degli anni ‘90 a oggi per garantire, anche qui, notevoli risparmi in quei 20 anni) � ciò che si risparmia con il blocco degli scatti stipendiali: le nuove assunzioni sono finanziate con la riduzione dello stipendio a tutti. Inoltre, con la stessa legge di stabilità si tagliano anche il personale ATA e i fondi per l’offerta formativa;
E la nuova legge di stabilità conferma lo stesso orientamento: il miliardo destinato alle assunzioni dei precari (che la Comunità Europea ci obbliga a regolarizzare e che risarciscono solo parzialmente le irregolari assunzioni fatte dalla metà degli anni ‘90 a oggi per garantire, anche qui, notevoli risparmi in quei 20 anni) � ciò che si risparmia con il blocco degli scatti stipendiali: le nuove assunzioni sono finanziate con la riduzione dello stipendio a tutti. Inoltre, con la stessa legge di stabilità si tagliano anche il personale ATA e i fondi per l’offerta formativa;
- personalmente, non vedo l’ora di parlare con Renzi e Giannini di scuola: abbiamo tanta esperienza, passione, idee e consapevolezza; vorremmo parlare con loro e con tecnici all’altezza, non con burocrati e comunicatori raccogliticci. Abbiamo con noi,confluito nel lavoro preparatorio per la LIP, un popolo intero di lavoratori esperti dipedagogia, di didattica dalla matematica alle lingue, anche delle più avanzate esperienze d’insegnamento in lingua straniera di discipline scientifiche e umanistiche,di TIC applicate alla didattica;
- il desiderio di ascolto tanto sbandierato dal Presidente del Consiglio è smentito da un fatto molto grave che è accaduto il novembre scorso e per il quale è stata depositata un’interpellanza parlamentare da me presentata e sottoscritta: un pacifico gruppo di professori e studenti recatisi al Miur a consegnare riflessioni e proposte in risposta alla campagna di partecipazione sulla “Buona Scuola” è stato accolto da una schiera di poliziotti in assetto antisommossa. E’ questo il dialogo, caro Renzi?
Concludo con una preghiera e un invito. La scuola rappresenta il futuro dei nostri figli:farne uno strumento di propaganda significa giocare direttamente sulla loro pelle.Non trasciniamo la scuola nell’arena politica.
Purtroppo, il fatto che il Presidente del Consiglio abbia fissato per il 22 febbraio,primo anniversario del suo governo, l’incontro con mille rappresentanti del mondo della scuola che dovrebbero portare suggerimenti, lascia proprio intendere questo.
Renzi, mi convinca che non è così, attendo il suo invito per parlare di scuola.
Purtroppo, il fatto che il Presidente del Consiglio abbia fissato per il 22 febbraio,primo anniversario del suo governo, l’incontro con mille rappresentanti del mondo della scuola che dovrebbero portare suggerimenti, lascia proprio intendere questo.
Renzi, mi convinca che non è così, attendo il suo invito per parlare di scuola.
Senatrice Maria Mussini
Perché la commissione Moro non si occupa delle torture impiegate durante le indagini sul sequestro e l’uccisione del presidente Dc ?
mercoledì 17 dicembre 2014
· Posted in
Brigate Rosse,
De Tormentis,
Nicola Ciocia,
Perché la commissione Moro non si occupa delle torture impiegate durante le indagini sul sequestro e l’uccisione del presidente Dc ?,
tortura,
Triaca
by insorgenzeAnche le democrazie torturano |
Nel maggio 1978 la nazionale di calcio italiana era in Argentina dove stava completando la preparazione in vista del campionato del mondo che sarebbe cominciato il mese successivo, vinto alla fine dai padroni di casa. Due anni prima, nel marzo 1976, un golpe fascista aveva portato al potere una giunta militare ma nonostante ciò i mondiali di calcio si tennero lo stesso. Furono una bella vetrina per i golpisti mentre i militanti di sinistra sparivano, desaparecidos; prima torturati nelle caserme o nelle scuole militari, poi gettati dagli aerei nell’Oceano durante i viaggi della morte, attaccati a delle travi di ferro che li trascinavano giù negli abissi. Intanto i neonati delle militanti uccise erano rapiti e adottati dalle famiglie degli ufficiali del regime dittatoriale.
Nel resto dell’America Latina imperversava il piano Condor orchestrato dalla Cia per dare sostegno alle dittature militari che spuntavano un po’ ovunque nel cortile di casa di Washington. Cinque anni prima, l’11 settembre del 1973, era stata la volta del golpe fascio-liberale in Cile, dove gli stadi si erano trasformati in lager.
In Italia l’opposizione sfilava solo nelle strade. In parlamento da un paio di anni si era ridotta a frazioni centesimali di punto a causa di un fenomeno politico che gli studiosi hanno ribattezzato col termine di “consociativismo”’: ovvero la propensione a costruire larghe alleanze consensualistiche, trasversali e trasformiste, che annullano gli opposti e mettono in soffitta alternanze e alternative. Il 90% delle leggi erano approvate con voto unanime nelle commissioni senza passare per le aule parlamentari. Il consociativismo di quel periodo aveva un nome ben preciso: “compromesso storico”. Necessità ineludibile, secondo il segretario del Pci dell’epoca Enrico Berlinguer, per scongiurare il rischio di derive golpiste anche in Italia.
Dopo un primo “governo della non sfiducia”, in carica tra il 1976-77, mentre la Cgil imprimeva con il congresso dell’Eur una svolta fortemente moderata favorevole politica dei sacrifici e il Pci, sempre con Berlinguer, assumeva l’austerità come nuovo orizzonte politico, improntata ad una visione monacale e moralista dell’impegno politico e del ruolo che le classi lavoratrici dovevano svolgere nella società per dare prova della loro vocazione alla guida del Paese,
nel marzo 1978, il giorno stesso del rapimento Moro, nasceva il “governo di solidarietà nazionale”, col voto favorevole di maggioranza e opposizione.
Oltre al calcio e alla folta schiera di oriundi cosa poteva mai avvicinare una strana democrazia senza alternanza, come quella italiana, ad una dittatura latinoamericana come quella argentina?
La risposta sta in una parola sola: le torture. La repubblica italiana torturava gli oppositori, definiti e trattati come terroristi
Paolo Persichetti
Il Garantista 10 dicembre 2014
Il Garantista 10 dicembre 2014
Con un’accelerazione sui tempi, prima che la nuova maggioranza repubblicana in senato potesse bloccare tutto, l’amministrazione Obama ha deciso di rendere noto un rapporto, preparato dalla Commissione di controllo dei servizi segreti del senato Usa che descrive l’uso delle torture impiegate durante gli interrogatori dei prigionieri catturati dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 e sospettati di appartenere ad al Quaeda. Pratica a cui mise fine Obama nel 2009. A distanza di nemmeno cinque anni dalla conclusione di quei fatti si possono conoscere le varie tecniche di tortura utilizzate (in buona parte già note), in particolare l’uso del waterboarding (l’annegamento simulato), i luoghi impiegati, le prigioni segrete fuori dal territorio nazionale, gli agenti che le praticarono, l’intero apparato messo in piedi, la filiera di comando.
In Italia, al contrario, dopo oltre 30 anni dalle torture inferte contro persone accusate d’appartenere a gruppi della sinistra armata, domina il buio pesto appena squarciato da una sentenza della corte d’appello di Perugia che un anno fa ha riconosciuto l’esistenza di un apparato parallelo del ministero dell’Interno, attivo tra la fine degli anni 70 e i primi anni 80, guidato da un funzionario di nome Nicola Ciocia, alias professor De Tormentis, specializzato nell’estorcere informazioni con la tortura durante gli interrogatori.
Il 2 ottobre scorso hanno preso avvio i lavori della nuova commissione parlamentare d’inchiesta sul rapimento e l’uccisione del presidente della Dc Aldo Moro. Da allora sono stati ascoltati una serie di responsabili istituzionali e magistrati (Copasir, Interni, Difesa), l’ex presidente della precedente commissione Giovanni Pellegrino, uno dei suoi membri passati più influenti, Sergio Flamigni. I lavori della commissione sin qui svolti non sembrano di grande interesse storico. Vengono seguite piste già battute in passato, circostanze ultranote, sulla falsa riga di un vetusto teorema dietrologico. I commissari mostrano di essere privi di qualsiasi volontà di rinnovamento, di curiosità, totalmente disattenti alle acquisizioni storiche più recenti.
Non stupisce dunque che non vi sia alcuna volontà di fare chiarezza sulla vicenda delle torture che pure si intreccia strettamente con le indagini condotte durante il caso Moro.
C’è un’immagine che lega la vicenda delle torture, in particolare quelle esercitate contro Enrico Triaca, noto alle cronache come il “tipografo delle Br”, arrestato il 17 magio 1978, con il ritrovamento di Moro e le dimissioni di Cossiga. Nella foto che ritrae Cossiga davanti alla Renault 4 rossa, dove giace il corpo senza vita di Moro, c’è anche Nicola Ciocia (alle spalle del ministro dell’Interno), il funzionario che torturò Triaca pochi giorni dopo, come racconta lui stesso in un libro scritto da Nicola Rao, Colpo al cuore. Dai pentiti ai “metodi speciali”, Sperling & Kupfer 2011. Ed è ancora Ciocia a rivelare di aver scortato Cossiga, subito dopo il ritrovamento del corpo del presidente della Democrazia cristiana, nella chiesa del Gesù.
Enrico Triaca denunciò di essere stato torturato mentre era nelle mani della polizia perché rendesse dichiarazioni accusatorie. Il ministro dell’Interno Cossiga si era dimesso da cinque giorni, l’interim del Viminale rimase nelle mani del presidente del consiglio Andreotti fino al 13 giugno successivo, quando si insediò Virginio Rognoni, che lasciò il posto solo nel 1983 gestendo l’intera stagione delle torture.
Dagli uffici della Digos, dove era stato condotto dopo l’arresto, Triaca fu portato nella caserma di Castro Pretorio. Qui venne a parlargli un funzionario che si presentò come un suo compaesano (Triaca è di origini pugliesi e Ciocia anche), quindi fu prelevato da una squadra di uomini travisati che lo incappucciarono e lo trasportarono in una sede ignota. Nel corso del tragitto iniziarono le minacce mentre i suoi sequestratori scarrellavano le armi. Arrivato a destinazione fu violentemente pestato ed alla fine sottoposto alla tortura dell’acqua e sale che produce una sensazione di annegamento.
Ricondotto in questura, di fronte al magistrato denunciò le torture subite ma per rappresaglia venne a sua volta incriminato per calunnia dall’allora procuratore capo di Roma Achille Gallucci.
Nel corso del processo tenutosi nel novembre successivo Triaca fu condannato ad un anno e quattro mesi di carcere per calunnia. Pena che si aggiunse a quella per appartenenza alle Brigate rosse e in un primo momento anche per il sequestro Moro. Verdetto ribadito in appello e poi in cassazione. Nel corso del processo, oltre all’allora capo della Digos romana, Domenico Spinella, sfilarono poliziotti che successivamente hanno fatto molta carriera, da Carlo De Stefano che condusse l’iniziale perquisizione nella tipografia di via Pio Foà, arrivato a dirigere la Polizia di prevenzione (denominazione assunta dall’Ucigos), poi nominato prefetto e sottosegretario agli Interni durante il governo Monti, a Michele Finocchi, promosso capo di gabinetto del Sisde, praticamente il numero due sotto la gestione di Malpica e coinvolto nello scandalo dei fondi neri per questo latitante in Svizzera dove venne successivamente arrestato dal Ros dei carabinieri. Il ruolo di Finocchi è centrale nella gestione dell’interrogatorio violento di Triaca poiché è lui che raccoglie i due fogli della “deposizione” estorta, di cui uno mai controfirmato.
Non ci sono solo poliziotti ad interrogare Triaca, arrivò anche l’allora giudice istruttore Ferdinando Imposimato, che delle torture non si curò minimamente omettendo di fare luce su tutte le circostanze che seguirono l’arresto.
Chi ordinò a Ciocia di intervenire? E chi disse ancora a Ciocia che era meglio fermarsi, perché un solo caso di tortura poteva restare coperto ma di fronte a più casi non sarebbe stato possibile?
E chi, 4 anni dopo, all’inizio del 1982, durante il governo Spadolini, nel pieno del sequestro del generale americano Dozier, decise invece che torturare in massa era possibile garantendo il massimo di copertura all’apparato speciale che fece il lavoro sporco?
Domande alle quali una commissione di indagine parlamentare - che sostiene di voler cercare la verità - dovrebbe avere il coraggio di fornire delle risposte, ma che a quanto pare non è in grado nemmeno di formulare.
La commissione presieduta da Giuseppe Fioroni, e animata da Gero Grassi, più che porre nuove domande, domande scomode, sembra privilegiare risposte già confezionate, prigioniere dello schema complottista.
E’ proprio questo il punto, lì dove non c’è trasparenza alligna la dietrologia, inevitabilmente si rincorrere il gioco delle ombre, si coltiva il mito dell’occulto fino a scambiare lo scandaglio dei fatti, l’affondo verso la radice delle cose, con la ricerca di un supposto lato nascosto, invisibile.
La coltre fumogena della dietrologia è un ottimo espediente per evitare imbarazzanti domande su quello che è stato l’unico vero grande mistero mai affrontato sugli anni della lotta armata: l’impiego delle torture di Stato.
In Italia, al contrario, dopo oltre 30 anni dalle torture inferte contro persone accusate d’appartenere a gruppi della sinistra armata, domina il buio pesto appena squarciato da una sentenza della corte d’appello di Perugia che un anno fa ha riconosciuto l’esistenza di un apparato parallelo del ministero dell’Interno, attivo tra la fine degli anni 70 e i primi anni 80, guidato da un funzionario di nome Nicola Ciocia, alias professor De Tormentis, specializzato nell’estorcere informazioni con la tortura durante gli interrogatori.
Il 2 ottobre scorso hanno preso avvio i lavori della nuova commissione parlamentare d’inchiesta sul rapimento e l’uccisione del presidente della Dc Aldo Moro. Da allora sono stati ascoltati una serie di responsabili istituzionali e magistrati (Copasir, Interni, Difesa), l’ex presidente della precedente commissione Giovanni Pellegrino, uno dei suoi membri passati più influenti, Sergio Flamigni. I lavori della commissione sin qui svolti non sembrano di grande interesse storico. Vengono seguite piste già battute in passato, circostanze ultranote, sulla falsa riga di un vetusto teorema dietrologico. I commissari mostrano di essere privi di qualsiasi volontà di rinnovamento, di curiosità, totalmente disattenti alle acquisizioni storiche più recenti.
Non stupisce dunque che non vi sia alcuna volontà di fare chiarezza sulla vicenda delle torture che pure si intreccia strettamente con le indagini condotte durante il caso Moro.
C’è un’immagine che lega la vicenda delle torture, in particolare quelle esercitate contro Enrico Triaca, noto alle cronache come il “tipografo delle Br”, arrestato il 17 magio 1978, con il ritrovamento di Moro e le dimissioni di Cossiga. Nella foto che ritrae Cossiga davanti alla Renault 4 rossa, dove giace il corpo senza vita di Moro, c’è anche Nicola Ciocia (alle spalle del ministro dell’Interno), il funzionario che torturò Triaca pochi giorni dopo, come racconta lui stesso in un libro scritto da Nicola Rao, Colpo al cuore. Dai pentiti ai “metodi speciali”, Sperling & Kupfer 2011. Ed è ancora Ciocia a rivelare di aver scortato Cossiga, subito dopo il ritrovamento del corpo del presidente della Democrazia cristiana, nella chiesa del Gesù.
Enrico Triaca denunciò di essere stato torturato mentre era nelle mani della polizia perché rendesse dichiarazioni accusatorie. Il ministro dell’Interno Cossiga si era dimesso da cinque giorni, l’interim del Viminale rimase nelle mani del presidente del consiglio Andreotti fino al 13 giugno successivo, quando si insediò Virginio Rognoni, che lasciò il posto solo nel 1983 gestendo l’intera stagione delle torture.
Dagli uffici della Digos, dove era stato condotto dopo l’arresto, Triaca fu portato nella caserma di Castro Pretorio. Qui venne a parlargli un funzionario che si presentò come un suo compaesano (Triaca è di origini pugliesi e Ciocia anche), quindi fu prelevato da una squadra di uomini travisati che lo incappucciarono e lo trasportarono in una sede ignota. Nel corso del tragitto iniziarono le minacce mentre i suoi sequestratori scarrellavano le armi. Arrivato a destinazione fu violentemente pestato ed alla fine sottoposto alla tortura dell’acqua e sale che produce una sensazione di annegamento.
Ricondotto in questura, di fronte al magistrato denunciò le torture subite ma per rappresaglia venne a sua volta incriminato per calunnia dall’allora procuratore capo di Roma Achille Gallucci.
Nel corso del processo tenutosi nel novembre successivo Triaca fu condannato ad un anno e quattro mesi di carcere per calunnia. Pena che si aggiunse a quella per appartenenza alle Brigate rosse e in un primo momento anche per il sequestro Moro. Verdetto ribadito in appello e poi in cassazione. Nel corso del processo, oltre all’allora capo della Digos romana, Domenico Spinella, sfilarono poliziotti che successivamente hanno fatto molta carriera, da Carlo De Stefano che condusse l’iniziale perquisizione nella tipografia di via Pio Foà, arrivato a dirigere la Polizia di prevenzione (denominazione assunta dall’Ucigos), poi nominato prefetto e sottosegretario agli Interni durante il governo Monti, a Michele Finocchi, promosso capo di gabinetto del Sisde, praticamente il numero due sotto la gestione di Malpica e coinvolto nello scandalo dei fondi neri per questo latitante in Svizzera dove venne successivamente arrestato dal Ros dei carabinieri. Il ruolo di Finocchi è centrale nella gestione dell’interrogatorio violento di Triaca poiché è lui che raccoglie i due fogli della “deposizione” estorta, di cui uno mai controfirmato.
Non ci sono solo poliziotti ad interrogare Triaca, arrivò anche l’allora giudice istruttore Ferdinando Imposimato, che delle torture non si curò minimamente omettendo di fare luce su tutte le circostanze che seguirono l’arresto.
Chi ordinò a Ciocia di intervenire? E chi disse ancora a Ciocia che era meglio fermarsi, perché un solo caso di tortura poteva restare coperto ma di fronte a più casi non sarebbe stato possibile?
E chi, 4 anni dopo, all’inizio del 1982, durante il governo Spadolini, nel pieno del sequestro del generale americano Dozier, decise invece che torturare in massa era possibile garantendo il massimo di copertura all’apparato speciale che fece il lavoro sporco?
Domande alle quali una commissione di indagine parlamentare - che sostiene di voler cercare la verità - dovrebbe avere il coraggio di fornire delle risposte, ma che a quanto pare non è in grado nemmeno di formulare.
La commissione presieduta da Giuseppe Fioroni, e animata da Gero Grassi, più che porre nuove domande, domande scomode, sembra privilegiare risposte già confezionate, prigioniere dello schema complottista.
E’ proprio questo il punto, lì dove non c’è trasparenza alligna la dietrologia, inevitabilmente si rincorrere il gioco delle ombre, si coltiva il mito dell’occulto fino a scambiare lo scandaglio dei fatti, l’affondo verso la radice delle cose, con la ricerca di un supposto lato nascosto, invisibile.
La coltre fumogena della dietrologia è un ottimo espediente per evitare imbarazzanti domande su quello che è stato l’unico vero grande mistero mai affrontato sugli anni della lotta armata: l’impiego delle torture di Stato.
Pensione 2015. Compila la domanda, istruzioni
La domanda per il pensionamento 2015 va compilata online, nel sistema istanze online. Quest'oggi le istruzioni per la compilazione. Inserimento, modifica e cancellazione.
Innanzitutto bisogna essere iscritti ad istanze online. Se non sei iscritto segui le istruzioni che trovi nella guida realizzata da Andrea Raciti.
La guida per la compilazione della domanda di cessazione dal servizio o pensione per il personale docente ed ATA è articolata in varie sezioni.
Nella rima sezione vengono analizzati i simboli utilizzati e le descrizioni, segue, dunque, la tempistica e la normativa di riferimento.
Nel terzo capitolo vengono affrontati i prerequisiti per accedere ad istanze online.
Con il quarto capitolo si passa alla vera e propria compilazione della domanda.
Vengono date tutte le istruzioni, anche per la visualizzazione, lo stato, la scelta del modello, l'inoltro, la modifica o cancellazione della domanda.
LE COOP RIPARTANO DAL MONDO DI TOLMEZZO
martedì 16 dicembre 2014
Forse Legacoop dovrebbe fare un congresso straordinario a Tolmezzo. La piccola cittadina della Carnia rappresenta simbolicamente tutto quello che nel mondo Coop non funziona, da Carminati e Mafia Capitale al crac di CoopCa, passando per quello di Coop Operaie
Tolmezzo è un paese di 10.000 abitanti in provincia di Udine, nel cuore della Carnia. Il caso ha voluto che due vicende che impattano fortemente col mondoCoop, diverse per importanza e motivi, abbiano a che fare con questo paese a pochi chilometri dal confine austriaco. Anche il mondo delle Coop è arrivato ad un confine: quello tra legalità e malaffare e tra opacità e trasparenza.
A Tolmezzo, per l'esattezza nel carcere di massima sicurezza, sono stati trasferiti Massimo Carminati e gran parte degli arrestati nell'inchiesta Mafia Capitale che ruota intorno agli affari della famigerata Coop 29 Giugno e al suo presidente, Salvatore Buzzi.
A Tolmezzo si sta affannosamente cercando di salvare CoopCa, Coop Carnica, che ha richiesto il concordato preventivo. La prossima settimana potrebbe essere decisiva con l'incontro tra il vice presidente della Regione Friuli, Sergio Bolzonello, per capire se ci sono i presupposti per un salvataggio. In ballo ci sono 650 dipendenti e 30 milioni di prestito sociale versati da 3.000 soci. La vicenda di CoopCa segue a breve il disastro dell'altra storica coop friulana della distribuzione, più grande nelle dimensioni e nel tonfo, le Coop Operaie di Trieste e Istria, anno di nascita 1903. Anche qui a ballare sono i 600 dipendenti e oltre 100 milioni di prestito di 17.000 soci. La Procura di Trieste ha chiesto al tribunale civile di dichiarare il fallimento delle Coop Operaie e l'immediata adozione di provvedimenti atti a tutelare il patrimonio con nomina di un ufficiale giudiziario. Questo dopo la scoperta di un'enorme bolla finanziaria costituita da cessioni di immobili a società controllate dalle stesse Cooperative Operaie.
Il Prestito Sociale rappresenta da sempre per le Coop più strutturate, ma anche per quelle di minori dimensioni, una risorsa importantissima. Le Coop della grande distribuzione, le cosiddette 9 sorelle (Unicoop Firenze, Coop Adriatica, Coop Consumatori Nordest, Coop Estense, Unicoop Tirreno, Coop Liguria, Coop Lombardia, Novacoop e Coop Centro Italia) raccolgono complessivamente 11 miliardi di risparmi dei soci prestatori. Una potenza di fuoco impressionante. La gestione e i controlli che attengono al prestito sociale sono oggetto di critiche da tempo. In particolare si punta il dito su un sistema dove i controlli sono scarsi e affidati alle stesse coop che non sempre brillano per trasparenza. Un mondo autoreferenziale che non viene sottoposto al vaglio di organismi esterni come invece sarebbe d'uopo. Il prestito sociale delle Coop poggia fondamentalmente sutanta fiducia e poche tutele. Abbiamo scritto più volte della disinvoltura con cui alcuni colossi Coop si lanciano in operazioni finanziarie discutibili, come l'acquisto di Fondiaria-Sai da parte di Unipol o del disastro della partecipazione di Unicoop Firenze in Monte Paschi, costata almeno 400 milioni, dilapidazione di risorse che non ha avuto nessuna conseguenza sui dirigenti responsabili.
Dall'altra parte lo scandalo Mafia Capitale mette il carico da undici su un sistema in cui anche in questo caso controlli e trasparenza paiono lontani come Plutone dalla Terra. E non è certo un fulmine a ciel sereno. Nel tempo ne abbiamo viste purtroppo di vicende torbide. Basti pensare al Mose o all'Expo. E Legacoop? Comeal solito balbetta, proprio ora che ha un suo uomo in un ministero chiave. Anzi,balbetta pure lui. Le frasi sono sempre le solite. Ecco cosa dichiarava nel giugno scorso il presidente di Legacoop Veneto, Adriano Rizzi, dopo lo scandalo Mose: «Bene le dimissioni dei coinvolti, cooperazione in campo per il cambiamento». E ora dopo la vicenda della Coop 29 giugno ecco che di nuovo si fa la faccia feroce.Parla Mauro Lusetti, neo presidente di Legacoop nazionale che ha sostituito Poletti: «Fuori subito chi tradisce i nostri valori». Ora, quel subito induce quantomeno a qualche sorriso, se non ad un ghigno. Anche uno dei più apprezzati cooperatori, Adriano Turrini presidente di Coop Adriatica, fa sentire la sua voce: «Tolleranza zero e rinnovamento». Vedremo. Tutto questo invocare misure drastiche quando sotto il naso ti hanno fatto passare di tutto, lascia qualche comprensibile riserva. Ci limitiamo a constatare che finora si è ignorato per negligenza o per altro, il Problema, mentre la slavina via via assumeva dimensioni sempre più preoccupanti.
Il ministro Poletti ha poco da indignarsi per la nota foto in cui è ritratto a cena con i sodali che sappiamo. E' stato a capo di Legacoop per ben 12 anni. Dovrebbe rispondere non della singola cena, ma di come funziona il mondo Coop. Ecco cosa dovrebbe spiegare Giuliano Poletti. Legacoop vuol fare finalmente un'operazione di profonda pulizia e trasparenza? Prenda coraggio e proceda davvero e celermente, altrimenti la slavina sarà un'enorme valanga e sbandierare il mondo valoriale Coop a quel punto non servirà.
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Faraone: pagamento supplenti è "gesto politico di grande rilevanza"??!!!!
sabato 13 dicembre 2014
Ormai siamo arrivati al punto che il pagamento degli stipendi vene definito da un esponente del Governo gesto di responsabilità politica. Di questo passo gli stipendi diventeranno una elargizione affidata alla bontà d'animo del Ministro di turno?
Con un comunicato stampa dai toni quasi trionfali il sottosegretario Faraone annuncia che nella giornata del 12 dicembre il Consiglio dei Ministri ha dato il via libera (pare con un decreto legge) ad uno stanziamento aggiuntivo di 64milioni di euro per pagare le supplenze già effettuate nel periodo settembre-novembre da migliaia di precari in tutta Italia.
"Si tratta - afferma Faraone - di un gesto politico di grande rilevanza. È un chiaro segnale che questo governo sta investendo molto nella scuola e non intende penalizzare chi, come i docenti e il personale ausiliario tecnico e amministrativo, lavora ogni giorno per il funzionamento dei nostri istituti”.
La dichiarazione merita una piccola chiosa.
Che stanziare soldi per pagare un lavoro già svolto possa essere definito un "gesto politico di grande rilevanza" ci sembra davvero fuori luogo.
Forse il sottosegretario Faraone farebbe bene a rileggere ciò che sta scritto nel sito del Ministero del lavoro: "Il contratto di lavoro subordinato è caratterizzato da una "subordinazione" del lavoratore, il quale in cambio della retribuzione si impegna a prestare il proprio lavoro alle dipendenze e sotto la direzione di un altro soggetto" (definizione che peraltro richiama il disposto dell'articolo 2094 del Codice Civile).
Per essere ancora più chiari: il rapporto di lavoro di pubblico impiego ha natura bilaterale e prevede necessariamente un corrispettivo che, ove non erogato, configurerebbe una palese violazione dell'articolo 2094 del CC e non una semplice "penalizzazione" del dipendente.
Il cittadino che non paga le tasse è un evasore e in taluni casi il suo comportamento può essere sanzionato anche in sede penale. Nessuno si sognerebbe mai di affermare che pagare le tasse è un gesto di magnanimità nei confronti dello Stato. Per quale strano motivo il cittadino che paga le tasse "fa il suo dovere" mentre il Governo che paga i supplenti per un lavoro già svolto "compie un gesto politico di grande rilevanza"?
Il sottosegretario Faraone si rende conto di aver detto una autentica corbelleria?
"Si tratta - afferma Faraone - di un gesto politico di grande rilevanza. È un chiaro segnale che questo governo sta investendo molto nella scuola e non intende penalizzare chi, come i docenti e il personale ausiliario tecnico e amministrativo, lavora ogni giorno per il funzionamento dei nostri istituti”.
La dichiarazione merita una piccola chiosa.
Che stanziare soldi per pagare un lavoro già svolto possa essere definito un "gesto politico di grande rilevanza" ci sembra davvero fuori luogo.
Forse il sottosegretario Faraone farebbe bene a rileggere ciò che sta scritto nel sito del Ministero del lavoro: "Il contratto di lavoro subordinato è caratterizzato da una "subordinazione" del lavoratore, il quale in cambio della retribuzione si impegna a prestare il proprio lavoro alle dipendenze e sotto la direzione di un altro soggetto" (definizione che peraltro richiama il disposto dell'articolo 2094 del Codice Civile).
Per essere ancora più chiari: il rapporto di lavoro di pubblico impiego ha natura bilaterale e prevede necessariamente un corrispettivo che, ove non erogato, configurerebbe una palese violazione dell'articolo 2094 del CC e non una semplice "penalizzazione" del dipendente.
Il cittadino che non paga le tasse è un evasore e in taluni casi il suo comportamento può essere sanzionato anche in sede penale. Nessuno si sognerebbe mai di affermare che pagare le tasse è un gesto di magnanimità nei confronti dello Stato. Per quale strano motivo il cittadino che paga le tasse "fa il suo dovere" mentre il Governo che paga i supplenti per un lavoro già svolto "compie un gesto politico di grande rilevanza"?
Il sottosegretario Faraone si rende conto di aver detto una autentica corbelleria?
Reginaldo Palermo Sabato, 13 Dicembre 2014
analisi operaia della vertenza Thyssenkrupp-AST
giovedì 11 dicembre 2014
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analisi operaia della vertenza Thyssenkrupp-AST,
Emanuele Salvati,
La vittoria dei servi sciocchi,
operaio TKAST,
Thyssenkrupp-AST
La vittoria dei servi sciocchi
di Emanuele Salvati, operaio TK-AST, del Collettivo Stella Rossa
La vertenza TKAST si è conclusa. Lo scorso 3 dicembre al MISE, con la firma dell’ipotesi di accordo si è messa la parola fine ad una delle battaglie sindacali più lunghe e crude che il paese avesse ricordato in questi ultimi anni; uno stato di agitazione iniziato il 17 luglio scorso, 44 giorni di sciopero ad oltranza con blocco delle portinerie, due occupazioni dell’autostrada Milano-Napoli, l’occupazione della sede ternana di Confindustria, l’aula del consiglio comunale occupata per quasi un mese, la Prefettura presidiata e gli scontri con la polizia a Roma.
Una vertenza che per la durata e per il risultato finale ricorda molto quella della FIAT nel settembre 1980. Perché anche questa volta gli operai hanno purtroppo perso ed hanno perso in malo modo. La vertenza che era divenuta avanguardia di una nuova stagione di lotta operaia e di classe nell’intero paese, che poteva divenire esempio di radicalità e di unità proletaria contro il disegno del governo delle banche e della finanza volto a massacrare ciò che resta dell’ordinamento legislativo a difesa dei diritti dei lavoratori e del lavoro stesso, è finita sotto i colpi dell’eversione borghese.
Sembra sintassi pregna di retorica, un feticcio grammaticale indegno dei tempi, ma purtroppo non è così dato che anche questa volta, come a Torino 34 anni fa, l’azienda ha dimostrato non di essere più forte -assolutamente- bensì di essere la figura centrale e trainante -essendo la realtà economica predominante- di un pezzo di società maggioritario che sa ancora governare gli eventi. Il governo, la politica delle larghe intese, la giunta con il sindaco in testa, la presidente della regione Umbria, la Confindustria, l’azienda con la complicità di parte del corpo impiegatizio, hanno creato un fronte di rottura che ha permesso la precipitazione della vertenza.
Qualcuno ha scritto che la storia si ripete, la prima volta come tragedia e la seconda come farsa ed è quello che è accaduto; siamo dunque passati dalla marcia dei 40mila di Torino ai comunicati stampa del sindaco di Terni in cui si chiedeva la rimodulazione della protesta per poter “svelenire il clima”, alle parole minacciose del presidente della Confindustria ternana, alla raccolta firme organizzata da alcuni impiegati per imporre il ritorno al lavoro -con tanto di tentativo di forzatura dei blocchi- fino ad arrivare alla lettera di un impiegato ripresa subito dai giornali.
Lo sciopero ad oltranza con blocco delle portinerie -che erano rimasti anche durante le fasi della trattativa- sono stati, insieme alle manganellate subìte a Roma, il vero perno della lotta operaia ternana ed erano divenuti l’elemento che più parlava alle masse lavoratrici di tutto il paese e questo per il governo, intento a formulare il Jobs Act, era inaccettabile. Il ministro Guidi più volte aveva sollecitato la rimodulazione della protesta ma dai sindacati era venuto sempre un secco diniego, l’azienda quindi cominciava ad accusare il colpo –con gli ordini non spediti e le penali pronte- e pertanto era cominciata l’azione eversiva del gruppo di dissidenti, aiutati dai pennivendoli locali.
Azione che però non riusciva a trovare riscontro nel corpo operaio ed anche nell’ultima assemblea di giovedì 20 novembre i lavoratori decidevano all’unanimità di proseguire con gli scioperi e l’eventualità di una nuova programmazione degli stessi era rimandata in base a come sarebbe finito l’incontro al MISE fissato per il mercoledì successivo. Il fatto grave è poi avvenuto durante la riunine delle RSU di domenica 23 novembre in cui non si è rispettata la decisione dell’assemblea e si è deciso di iniziare ugualmente la rimodulazione degli scioperi. Perché? Che cosa è successo? Si è avuto paura di uno sfaldamento del fronte operaio? L’unità dei rappresentanti dei lavoratori si è dissolta sotto i colpi dei dissidenti che così facendo hanno permesso fughe in avanti di alcune sigle sindacali che avrebbero voluto firmare già da tempo? O peggio ancora, la politica ed i poteri forti locali hanno condizionato la riunione delle RSU che hanno quindi permesso il ritorno in fabbrica?
Un dato è certo, la rabbia degli operai che animavano i picchetti si è riversata anche contro il sindacato; la FIOM-CGIL ha prontamente organizzato un’assemblea per illustrare a tutti gli iscritti le ragioni del rimodulamento, per l’occasione fatte apposta spiegare dal “caro leader” Landini. La decisione della RSU ha portato come risultato l’abbandono dei picchetti da parte di molti operai con l’unica eccezione della Portineria Prisciano, la portineria dell’entrata/uscita mezzi, dove i sindacati hanno preferito concentrare gli sforzi.
Ma la teoria del controllo sull’uscita dei prodotti si è rivelata fin da subito astrusa, come pensavano i lavoratori e infatti l’ultima settimana è passata tra i tentativi dell’azienda di forzare i blocchi e i carichi fatti uscire appositamente come prova del reale controllo dei lavoratori sull’uscita delle merci e come “atto di responsabilità”. Mercoledì 3 dicembre la presunta svolta: dopo quasi 24 ore di trattativa serrata si è arrivati all’ipotesi di accordo e dal giorno successivo è iniziata la pantomima de “è l’unico accordo possibile” e del “più di così non si poteva ottenere”; frasi che già lasciavano intendere la difficoltà delle oo.ss.
Si sono, dunque, rivelati fondati e lungimiranti i timori dei lavoratori, che avevano paventato la possibilità di un accordo al ribasso, di una riproposizione del piano del ministro Guidi (piano alternativo, sbilanciato sulle posizioni dell’a.d. Morselli e presentato dal governo ed Enti Locali che è stato rigettato da azienda e sindacati) o comunque di un “accordicchio” che servisse solo al governo e alla TKAST. A Roma è stata infatti firmata un’ipotesi di accordo che altro non è che il “Lodo Guidi”, neanche “edulcorato” in qualche punto bensì proprio un tremendo “copia/incolla” che ha mandato su tutte le furie i lavoratori, in particolar modo tutti quegli operai che per 44 giorni avevano animato i blocchi ed erano stati la spina dorsale della lotta.
Non solo: sulla ipotesi di accordo non si specifica e non si delineano punti precisi sul futuro delle ditte terze se non per quanto riguarda il già esistente articolo 9 del CCNL. In particolare evidenza la beffa data agli operai dell’Ilserv, l’azienda costola della multinazionale Harsco che si occupa delle seconde lavorazioni il cui futuro rimane incerto per via della proroga dell’appalto fino al settembre 2015; questi lavoratori sono stati in molte occasioni la punta avanzata e radicale della lotta e ad oggi, se l’Ilserv perdesse l’appalto, si profilerebbe una massiccia cassa integrazione, causa ristrutturazione e, per chi venisse riassorbito dalla ditta vincitrice, un reinserimento a condizioni salariali minori rispetto alle attuali.
Tutto questo è esplicitato in un paragrafo del punto 6 in cui si parla degli “impegni delle istituzioni” e in cui si scrive che la Regione Umbria, Comune e Provincia di Terni si impegnano a “promuovere […]specifici protocolli, accordi ed iniziative finalizzati al rafforzamento delle competenze ed alla qualificazione del personale del sistema delle imprese appaltatrici al fine di favorire la continuità occupazionale ed il reimpiego dei lavoratori presso le aziende eventualmente subentranti in esito a procedure di appalto” ed “individuare nel contesto del quadro normativo nazionale, qualora necessario al fine di accompagnare il percorso di qualificazione ed efficientamento dell’indotto AST/TK, specifiche modalità gestione degli ammortizzatori sociali in deroga a favore delle imprese che abbiano esaurito gli ammortizzatori ordinari ovvero non abbiano accesso agli stessi”.
Ciò vale ovviamente anche per tutte le altre ditte terze, che subiranno il peso maggiore della massiccia ristrutturazione che si va profilando e i cui lavoratori, che hanno anch’essi animato i picchetti, si sentono per l’appunto abbandonati e presi in giro; e sì che una delle parole d’ordine che legava insieme la lotta degli operai AST e ditte terze e che la faceva essere quindi una vertenza unica era: “si inizia assieme e si finisce assieme”. La parte del documento riguardante il punto dirimente degli esuberi, prevede la fuoriuscita di 147 lavoratori che andranno ad aggiungersi ai 143 già usciti autonomamente -con il bonus di ottantamila euro- nella fase iniziale della vertenza; si raggiunge quindi il numero di 290 voluto dal ministro Guidi (e probabilmente consigliatogli da qualcuno) nel suo piano iniziale; tutte uscite volontarie che usufruiscono dell’incentivo con in più un anno di mobilità e su tale manovra si stabilisce parte della vittoria dell’azienda: il bonus infatti non è stato tolto, è previsto dall’accordo e verrà protratto.
Per questo, a pochi giorni dall’incontro al ministero, gli “esodi” volontari sono arrivati a più di 350 e sono destinati ad aumentare; non è difficile comprendere il fatto che l’azienda voglia arrivare al numero di esuberi previsto inizialmente e pari a 537, considerato il fatto che dopo l’accorpamento in seno all’AST del Tubificio, SdF, Titania ed Aspasiel, ci sarà una forte eccedenza di impiegati. Perché i sindacati non hanno preteso il blocco degli incentivi, una volta che si fosse raggiunto il numero di esuberi concordato? Perché si è permesso che l’azienda destinasse ancora ottantamila euro per le fuoriuscite volontarie? Tutto lo stabilimento è ora in grande crisi, tutti i reparti si trovano fortemente sotto organico e l’azienda dovrà quindi effettuare una grande riorganizzazione e ristrutturazione interna dei dipartimenti, delle mansioni e di tutta l’organizzazione del lavoro. Ed era proprio quello che volevano.
In che direzione ora si andrà? Si sfrutterà il demansionamento previsto dal Jobs Act facendo retrocedere gli impiegati in eccedenza ad operai? Si assumerà nuovo personale – sfruttando anche la mediaticità dell’azione- con le nuove regole del contratto a tutele crescenti anch’esso previsto dal Jobs Act? Di certo, l’aspetto legato agli esuberi è una grossa sconfitta per i sindacati, nazionali e locali, che hanno urlato durante la vertenza rispetto alla non disponibilità a non firmare nessun licenziamento ma che di fatto hanno avallato il disegno dell’azienda consentendole di attuare il piano originario.
Negli altri punti che riguardano il riassetto produttivo della TKAST, non si produce alcuna novità essendo il documento, come già scritto sopra, solamente un patetico copia/incolla del Lodo Guidi presentato agli inizi di ottobre al MISE; si parla quindi del mantenimento del mix produttivo tra “caldo” e “freddo” in grado di garantire una quantità minima di acciaio colato pari ad un milione di tonnellate l’anno (il piano Guidi parlava di assetto produttivo sui tre anni passati); rispetto al commerciale si attua un “rafforzamento della rete commerciale, nel contesto dell’inserimento di AST nella divisione TK Materials […]” che verrà gestito quindi in Germania, mentre a Terni si gestirà solo la parte amministrativa e le funzioni pre e post vendita, come prevedeva già il piano Guidi e come ugualmente era previsto il punto rispetto al mercato nazionale ed internazionale in cui si certifica la messa a disposizione per AST dei centri servizi ex Outokumpu in Germania, Francia, Spagna e Turchia -dovuti alla decisione dell’Antitrust UE- e a una struttura vendite in Germania appositamente dedicata; tutte disposizioni che risultano inutili se poi il pacchetto clienti e la ricerca di nuovi compratori avviene in Germania.
La parte inerente agli investimenti ripropone anche in questo caso ciò che era stato scritto e rigettato a Roma un mese fa: cento milioni di euro per sostenibilità ambientale ed energetica, mantenimento e miglioramento della sicurezza operativa, progetti di miglioramento dell’automazione di processo e miglioramento impiantistico (pochi, per un’area a caldo vecchia); 10 milioni per programmi di ricerca ed innovazione “valorizzando i marchi AST, Tubificio, SdF, ed Aspasiel e continuando la collaborazione con Il Centro Sviluppo Materiali” e con le università. Per quanto riguarda l’ambiente e la sostenibilità delle produzioni non si dice nulla, a parte il porre l’accento sul “forte impegno per il costante miglioramento delle condizioni di lavoro e della qualità dei prodotti finali” ma non si parla di investimenti e ricerca su nuove tecnologie impiantistiche per la lavorazione e l’inertizzazione delle scorie che sono la causa dell’importante problema a carattere ambientale che interessa il territorio ternano; perché sul piano non se ne parla?
Perché ancora oggi non risulta essere una questione importante da affrontare, specialmente in una sede appropriata come quella ministeriale? E sì che questo è proprio un punto nodale non solo per i problemi legati all’inquinamento dell’aria e delle falde freatiche ma anche per poter smascherare i reali piani dell’azienda circa il mantenimento, negli anni, dell’area fusoria. L’aspetto che interessa la questione del contratto integrativo vede sostanzialmente invariata la parte inerente alle maggiorazioni e presenza domenicale -con un piccolo aumento delle percentuali di pagamento- ma vede cancellati i premi trimestrali e le fasce di merito perciò con un saldo in negativo della retribuzione annua di circa duemila euro.
In questo contesto, il giudizio rispetto alla ipotesi di accordo non può essere che negativo ed il malumore tra gli operai è forte, non a caso le assemblee che si sono svolte subito dopo l’incontro al MISE non sono andate bene per i sindacati; si sono registrati interventi molto duri con aspre critiche rivolte ai confederali. Non possono bastare le rassicurazioni circa la vigilanza attiva delle RSU rispetto alla riorganizzazione interna e alla verifica del piano; non possono bastare cento milioni di investimento improntati su voci generiche; non possono bastare gli investimenti sulla “nuova” linea di ricottura e decapaggio proveniente dallo stabilimento di Torino (prevista già nell’accordo sul magnetico del 2004) e sul mantenimento della trasformazione dei semilavorati di titanio.
Non possono altresì bastare le assicurazioni riportate dalle istituzioni locali: gli impegni per il periodo 2014-2020 circa l’individuazione e la definizione di “[…] strumenti ed iniziative per favorire gli investimenti, l’innovazione, la qualificazione delle imprese nonché la salvaguardia dell’occupazione del sistema delle imprese dell’indotto e di servizio alle produzioni di AST/TK localizzate nel territorio regionale, promuovendo specifici programmi, destinazioni di fondi ovvero priorità dedicate” altro non è che l’utilizzo del fondo per le aree di crisi complessa, provvedimento approvato lo scorso maggio dal consiglio regionale ma che ancora deve essere sottoposto al vaglio del governo; la volontà di costruire bretelle stradali per favorire l’uscita dei prodotti e l’impegno, insieme al MISE, di terminare la costruzione della Orte-Civitavecchia, peraltro prevista da decenni e che era stata inserita sul Patto di Territorio che era stato stilato anch’esso dieci anni fa dopo la vertenza sul magnetico, suonano ai lavoratori come l’ennesima presa in giro, come l’ennesima corsa al risultato politico ma che dietro potrebbe nascondere il favoreggiamento dei potentati economici locali circa la volontà di una futura spartizione della fabbrica.
Il pericolo spezzettamento c’è ed uno stabilimento senza la realtà fusoria potrebbe essere, in futuro, preda facile dei falchi locali. I dubbi circa il mantenimento dell’AST per come si conosce oggi ci sono e lo si vede da come vengono gestite altrove le vertenze, sia in Italia e sia in Germania. La IG METALL, il sindacato tedesco, all’incirca tre settimane fa ha concluso un accordo con la ThyssenKrupp dove non si prevedono esuberi bensì contratti di solidarietà rispetto ad un periodo che va dal 2014 al 2020 e pertanto, a fronte di 35 ore settimanali se ne lavoreranno 31 e se ne pagheranno 32 con la 32esima ora pagata dallo stato. La stessa multinazionale che a Terni vuole ridurre le capacità produttive, il lavoro ed i diritti dei lavoratori, in Germania salvaguardia le produzioni, con investimenti massicci e soprattutto salvaguarda il lavoro e i lavoratori.
In Italia si è voluta gestire la partita della siderurgia abdicando all’autoregolamentazione del mercato e degli interessi delle multinazionali e degli altri paesi della UE. Premesso che la commissione europea, per mano dell’Action Plan della siderurgia, sta cominciando a dare forte impulso alla produzione di acciaio da forni ad arco elettrico (come quelli che si usano a Terni), scommettendo pertanto sul rottame per le sue qualità tecniche e per le sue caratteristiche di abbattimento delle emissioni nonché per la sua riciclabilità -in un ottica di riduzione dei rifiuti ferrosi e di sostenibilità ambientale- e in cui si prevede l’innalzamento fino al 20% del contributo della siderurgia al PIL europeo derivato anche dal tentativo di aggressione all’import di acciaio da paesi extra UE, strutturando una sorta di dumping ambientale legato appunto alla sostenibilità ambientale delle produzioni, in un contesto come questo la decisione della ThyssenKrupp parrebbe pertanto estremamente miope se non ci vedesse dietro la volontà di destinare le quote di produzione dell’AST verso altri siti di produzione.
Il pericolo è dunque rimandato e la verifica dell’accordo sottoscritto al MISE tra ventiquattro mesi lascia intendere che Terni, agli occhi dei grandi produttori europei di acciaio deve divenire solo un grande centro servizi. La partita è dunque solo rimandata. A Piombino si è siglato l’accordo con gli algerini di Cevital, in cui si prevedono investimenti pari a cinquecento milioni di euro per la costruzione di due forni elettrici aventi la capacità produttiva di un milione di tonnellate/anno ciascuno mentre Taranto, probabilmente, passerà sotto AcelorMittal dopo che lo stato avrà ripianato la situazione debitoria dell’Ilva e lo scoperto delle banche (Alitalia docet), prendendosi carico del revamping degli impianti per favorire la sostenibilità ambientale delle produzioni.
In questo nuovo assalto alla diligenza della siderurgia, il sindacato gioca un ruolo da spettatore passivo; la mancanza di una visione collettiva delle vertenze, la rinuncia ad avere un piano nazionale che tuteli il lavoro, le lavorazioni ed i lavoratori lo fanno essere addirittura complice rispetto all’idea iper-liberista della società che i partiti di governo hanno ormai nel loro dna. Inoltre, la vertenza a Terni sembra destinata ad assumere le sembianze dell’ultimo tassello che va a completare un puzzle: da una parte si è deciso, chiuse le vertenze come Piombino e Taranto, di chiudere frettolosamente anche quella su Terni per far avere ad ogni attore -governo e sindacati- la possibilità di giocarsi sui mass media la carta del soggetto risolutivo e fondamentale (anche in un contesto storico in cui si attacca la figura istituzionale del sindacato); dall’altra parte la FIOM e la CGIL possono “portare in dote” alla minoranza PD e anche a SEL il potere contrattuale derivatogli dalle vertenze come quella appunto di Terni, dagli scioperi come quello nazionale della siderurgia e come quello generale nazionale della CGIL del 12 dicembre per poter far loro concertare eventuali emendamenti e modifiche al Jobs Act, essendo questa una legge delega.
E su questo punto la FIOM/CGIL, l’organizzazione sindacale che più in questi anni ha rappresentato -e rappresenta ancora oggi- l’argine all’attacco classista del capitale, si gioca la sua credibilità e maggiormente se la gioca il suo leader Landini: a poco sono servite le minacce di occupazioni delle fabbriche che tanto avevano fatto sperare gli operai della TKAST durante la vertenza, a poco sono servite le manganellate a Roma, a poco sono serviti gli scioperi nazionali e le manifestazioni se poi il conflitto rimane prettamente vertenziale e non diventa diffuso. A Terni, la FIOM è stata l’organizzazione che più ha puntato sulla radicalità del conflitto ma che poi ha deciso precipitosamente di far interrompere sacrificandolo sull’altare forzoso dell’unità sindacale e questo è evidente.
A Terni perciò, il “Landinicentrismo” rischia di subire una inaspettata incrinatura. Il 15/16/17 dicembre si voterà per il referendum che sancirà l’approvazione o meno dell’ipotesi di accordo, si sta formando il comitato per il NO e il risultato non è così scontato, il malumore tra gli operai è forte e le assemblee per i sindacati non sono andate bene; ma l’insofferenza operaia travalica il giudizio sulla vertenza e apre fronti di forte critica sull’idea stessa e sul ruolo del sindacato; la fabbrica subirà forti modifiche e riorganizzazioni, le relazioni sindacali tramuteranno e probabilmente le condizioni lavorative peggioreranno anche grazie anche al Jobs Act; si è arrivati dunque ad un punto di non ritorno in cui la presenza di un sindacato conflittuale e classista non è più rinviabile. O le organizzazioni già presenti si muoveranno in questo senso, spinte dai delegati sindacali e dagli iscritti che in questa vertenza si sono contraddistinti per radicalità delle proposte, presenza e integrità morale, oppure i lavoratori costruiranno da soli un nuovo soggetto perché se non si risponde adesso a questo che è l’attacco finale alle acciaierie di Terni, la chiusura della fabbrica passera alla storia come la vittoria dei servi sciocchi.
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