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Scuola, il «piano» Renzi fa acqua —  Lo stato pietoso degli edifici scolastici nel Rapporto di Cittadinanzattiva

martedì 23 settembre 2014

Non basta il piano Renzi sull’edilizia sco­la­stica per met­tere al sicuro isti­tuti peri­co­lanti per scarsa manu­ten­zione. In que­sta situa­zione si tro­vano quat­tro edi­fici su dieci, oltre il 70% dei 213 edi­fici sco­la­stici moni­to­rati in 14 regioni, (oltre 70mila gli stu­denti iscritti e oltre 7mila i docenti) pre­senta lesioni strut­tu­rali. In un caso su tre gli inter­venti non ven­gono effet­tuati men­tre tanti sono gli isti­tuti in zona a rischio sismico e idrologico.
Lo denun­cia il dodi­ce­simo Rap­porto sulla sicu­rezza, qua­lità e acces­si­bi­lità a scuola di Cit­ta­di­nan­zat­tiva pre­sen­tato ieri a Roma. «Pur apprez­zando il note­vole sforzo dell’attuale governo – ha spie­gato Adriana Biz­zarri, coor­di­na­trice nazio­nale dell’associazione — rite­niamo che affi­darsi esclu­si­va­mente a quanto segna­lato dai sin­daci, signi­fica non aver agito secondo cri­teri ogget­tivi e misu­ra­bili di urgenza e gra­vità».
Il metodo seguito da Renzi, invi­tare gli ex col­le­ghi sin­daci a segna­lare per let­tera le situa­zioni più gravi, non è esat­ta­mente un metodo «scientifico».
Per Cit­ta­di­nan­zat­tiva mostra, anzi, ampi mar­gini di arbi­trio. Uno dei casi di «lam­pante non ogget­ti­vità» del metodo ren­ziano segna­lato dal rap­porto l’Istituto Gio­vanni Caso di Pie­di­monte Matese, in con­di­zioni pes­sime dal punto di vista della sicu­rezza ma non ha rice­vuto un euro di finanziamento.
Da tempo Cit­ta­di­nan­zat­tiva segnala l’assenza dell’unico stru­mento utile a moni­to­rare l’edilizia sco­la­stica più disa­strata d’Europa. Si tratta dell’anagrafe dell’edilizia sco­la­stica nazio­nale e delle ana­grafi regio­nali. La prima è attesa inu­til­mente da 18 anni, ma nes­sun governo l’ha mai atti­vata fino ad oggi, nem­meno quello Renzi. Le seconde sono attive in tutte le regioni tranne Cam­pa­nia, Molise, Lazio e Sar­de­gna, ma i data­base sono acces­si­bili solo dagli enti locali, scuole e uffici sco­la­stici. Un ricorso al Tar Lazio dovrebbe obbli­gare il Miur a ren­dere noti i dati.
A que­sto pro­blema strut­tu­rale se ne aggiunge uno più con­tin­gente, legato all’erogazione delle risorse stan­ziate dall’esecutivo. Per il pro­getto «scuole sicure» (una delle tre gambe dell’intervento sull’edilizia sco­la­stica), il governo sostiene di avere aperto più del 93% dei can­tieri, ma solo il 4,2% dei lavori sono stati con­clusi. Il 2,6% dei pro­getti non è stato ancora avviato.
Per que­sta tran­che di inter­venti saranno inve­stiti 150milioni di euro pro­ve­nienti dal «Decreto del Fare» del governo Letta. L’attuale ese­cu­tivo ha stan­ziato 400 milioni di euro che finan­zie­ranno 1.639 inter­venti nelle regioni escluse dal pre­ce­dente decreto. Que­sti lavori par­ti­ranno solo dal 2015.
Cit­ta­di­nan­zat­tiva avanza anche dubbi sulla tipo­lo­gia degli inter­venti pia­ni­fi­cati dal governo. In Sici­lia, Cam­pa­nia e Cala­bria, dove c’è il mag­gior numero di scuole in zone a rischio sismico (rispet­ti­va­mente 4.894, 4.872 e 3.199) avreb­bero biso­gno di «inter­venti ben più pesanti dal punto di vista strut­tu­rale e non certo solo di abbel­li­mento e decoro». Il rap­porto pre­sta par­ti­co­lare atten­zione alla qua­lità del moni­to­rag­gio degli interventi.
Non basta, infatti, ero­gare i fondi. Biso­gna seguire l’andamento dei lavori.
I dati sono pre­oc­cu­panti: il 41% degli edi­fici ha uno stato di manu­ten­zione medio­cre o pes­simo. Quasi tre scuole su quat­tro pre­sen­tano lesioni strut­tu­rali sulla fac­ciata esterna. Una scuola su tre pos­siede il cer­ti­fi­cato di agi­bi­lità sta­tica, poco più del 35% quello igienico-sanitario e il 23% quello di pre­ven­zione incendi. Una scuola su quat­tro è priva di posti per disa­bili nel cor­tile o nel par­cheg­gio interno e quasi una su due non ne ha nem­meno nei pressi dell’edificio. Nel 2013 sono stati 766 gli inci­denti accorsi a stu­denti e per­so­nale scolastico.
Roberto Ciccarelli


Back to school con Renzi l’americano

Il documento. Il governo punta forte su un modello che ha già fatto disastri negli States. Adottando il «bring your own device», ovvero «portati il tuo pc da casa», e «social impact bonds» a beneficio dei privati. Così il preside-manager sarà costretto a cercarsi uno sponsor
Rem tene, verba sequen­tur (attieniti ai fatti, le parole seguiranno) si diceva tanto tempo fa. E allora ana­liz­ziamo le parole e rico­struiamo indut­ti­va­mente il para­digma cul­tu­rale sot­teso alla recente pro­po­sta del Governo sulla scuola.
Il docu­mento, da sot­to­porre nei pros­simi due mesi a con­sul­ta­zioneonline e offline, è tutto un flo­ri­le­gio di angli­smi: la scuola deve uscire dalla com­fort zone e diven­tare l’avamposto del rilan­cio del made in Italy. Dotarsi di inse­gnanti men­tor capaci di pro­porre for­ma­zione online ma anche blen­ded. Pro­durre piat­ta­forme spe­ri­men­tali con un design chal­lenge lan­ciato pre­sto­daun hac­ka­ton mirante alla crea­zione di una app. Attrez­zarsi per sfide di gover­nance policy a colpi di data school nazio­nali, design di ser­vizi e ope­ning up edu­ca­tion, ovvia­mente rife­rita allebest prac­ti­ces.
Ma non basta: final­mente arriva la good law e il nud­ging sbarca al Miur per­ché «assi­cu­rare piena com­pren­sione e chia­rezza su quanto il Miur pub­blica è un’azione di aper­tura e tra­spa­renza di pari dignità rispetto all’apertura dei dati».
La buona scuola pro­muove il CLIL, cioè il Con­tent and Lan­guage Inte­gra­ted Lear­ning, e alle ele­men­tari inse­gna il coding attra­verso la gami­fi­ca­tion. Valo­rizza il pro­blem sol­ving, il deci­sion making e, ove neces­sa­rio, poten­zia l’agri-business. Gli stu­denti diven­te­ranno digi­tal makers, si supe­rerà il digi­tal divide e riu­sci­remo a intrat­te­nere gli early lea­vers, ovvero quei «gio­vani disaf­fe­zio­nati» (sic) che la scuola oggi non rie­sce a tenere con sé. Per fare que­sto adotta il BYOD, bring your own device, ovvero «por­tati il tuo pc da casa». Ma, non paga, la buona scuola del governo pro­porrà school bonus, school gua­ran­tee, cro­w­d­fun­ding, emet­tendo all’occorrenza social impact bonds a bene­fi­cio dei pri­vati che vor­ranno appro­fit­tare del suc­cu­lento ban­chetto dell’istruzione imban­dito da Renzi. Good appe­tite.
Ma l’anglofilia del docu­mento non si esau­ri­sce nella patina les­si­cale e nel regi­stro lin­gui­stico. La buona scuola di Renzi è quella ame­ri­cana, auto­noma nell’organizzazione, nella didat­tica e nei finan­zia­menti. È la scuola intesa non come isti­tu­zione della Repub­blica, costi­tu­zio­nal­mente garan­tita a tutti e che offre pari oppor­tu­nità di accesso cri­tico alla cono­scenza e al sapere, bensì come espres­sione dif­fe­ren­ziata, cul­tu­ral­mente mar­cata e com­pe­ti­tiva, delle realtà e delle comu­nità locali: la scuola che si fa il suo pro­getto for­ma­tivo e si cerca sul mer­cato qual­cuno che abbia inte­resse a pagarlo.
La scuola, in Ame­rica, è nata prima degli Stati Uniti, quando i coloni strap­pa­vano le terre ai Nativi e costrui­vano pri­gioni e saloon. Comi­tati locali le orga­niz­za­vano, spesso in case pri­vate, si pro­cu­ra­vano gli inse­gnanti, met­te­vano a dispo­si­zione i libri e la Bib­bia non man­cava mai. Oggi i comi­tati si chia­mano Con­si­gli Diret­tivi, sono com­po­sti da cit­ta­dini eletti e man­ten­gono gli stessi com­piti: adot­tano pro­grammi didat­tici e gesti­scono il bilan­cio. L’autonomia sco­la­stica con­sente alle fami­glie ame­ri­cane il con­trollo sui con­te­nuti dell’insegnamento — in Lou­siana e nel Ten­nes­see, la lobby crea­zio­ni­sta osta­cola tena­ce­mente l’insegnamento dell’evoluzionismo — e per­mette ai fun­zio­nari eletti di imporre con­te­nuti e metodi di inse­gna­mento nei loro distretti scolastici.
La fram­men­ta­zione della scuola pub­blica ame­ri­cana ha pro­dotto e pro­duce risul­tati sco­la­stici così sca­denti da indurre oggi il Con­gresso a forme di con­trollo cen­tra­liz­zato ex post. Stan­dard e obiet­tivi di appren­di­mento nazio­nali da misu­rare con bat­te­rie di test dai cui risul­tati dipende la soprav­vi­venza o la chiu­sura delle scuole. Un rime­dio peg­giore del male, per­ché tra­sforma l’insegnamento in adde­stra­mento e, soprat­tutto, non sol­leva gli stu­denti ame­ri­cani dalle ultime posi­zioni nelle clas­si­fi­che inter­na­zio­nali. La buona scuola di Renzi è quella di un paese, l’America, in cui le scuole migliori sono pri­vate e costo­sis­sime; un paese in cui anche le scuole pub­bli­che, finan­ziate con la fisca­lità muni­ci­pale, pos­sono avere rette molto ele­vate e dove le più acces­si­bili si tro­vano nei quar­tieri depri­vati e accol­gono i poveri, gli svan­tag­giati, i discri­mi­nati. Un paese in cui la dispa­rità eco­no­mica è diret­ta­mente pro­por­zio­nale alla dispa­rità educativa.
C’è un pas­sag­gio, nel docu­mento, in cui si dice che «ogni scuola dovrà avere la pos­si­bi­lità di schie­rare la squa­dra con cui gio­care la par­tita dell’istruzione», ossia la libertà di sce­gliere i docenti che riterrà «più adatti» per rea­liz­zare la pro­pria offerta for­ma­tiva. La meta­fora cal­ci­stica di ber­lu­sco­niana memo­ria, rivela esat­ta­mente qual è la dire­zione del governo: por­tare a com­pi­mento il pro­cesso di pri­va­tiz­za­zione della gestione della scuola intra­preso da Ber­lin­guer con la legge sull’autonomia e, con­tem­po­ra­nea­mente, com­ple­tare il per­corso di arre­tra­mento dello stato inau­gu­rato da Tre­monti, fino alla com­pleta dismis­sione della scuola pub­blica. Il preside-manager, costan­te­mente in cerca di spon­sor per finan­ziare la sua scuola, sce­glierà e licen­zierà discre­zio­nal­mente i suoi docenti, affian­cato in que­sto da un nucleo di valu­ta­zione in cui la pre­senza di esterni garan­tirà forme di con­trollo politico-culturale ma soprat­tutto il ritorno eco­no­mico degli inve­sti­menti pri­vati. L’esperienza di Chan­nel One, che in Ame­rica ha un con­tratto con 12.000 scuole, impo­nendo a milioni di stu­denti in classe dosi quo­ti­diane della sua pro­gram­ma­zione tele­vi­siva e pub­bli­ci­ta­ria, dovrebbe indurre i cit­ta­dini ita­liani a una rifles­sione seria.
Il resto del docu­mento è pura dema­go­gia. La pro­po­sta del ser­vi­zio civile a scuola, la col­la­bo­ra­zione con il terzo set­tore, l’ingresso del volon­ta­riato: un omag­gio dell’esecutivo a certa cul­tura scou­ti­sta e demo­cri­stiana; il rife­ri­mento alla sus­si­dia­rietà, una striz­zata d’occhio a Com­pa­gnia delle Opere e a Comu­nione e Liberazione.
E infine, l’impegno di assun­zione di 150.000 pre­cari nel 2015, accom­pa­gnato dall’ignobile ricatto a milioni di inse­gnanti di ruolo che impone di rinun­ciare al loro attuale sta­tus giu­ri­dico e di restare inchio­dati fino alla pen­sione al loro mise­re­vole sti­pen­dio ini­ziale. Un impe­gno spac­ciato come scelta e come testi­mo­nianza della volontà del governo di inve­stire nella scuola, in realtà ine­lu­di­bil­mente impo­sto dalla pro­ce­dura d’infrazione avviata a Bru­xel­les con­tro l’Italia per la vio­la­zione della nor­ma­tiva comu­ni­ta­ria sulla rei­te­ra­zione dei con­tratti a termine.
Una pro­messa da far tre­mare i polsi in tempi di tagli dra­co­niani e di riforme feu­dali impo­ste dalla Troika: ma forse, l’ennesima vel­leità di chi, assai peri­co­lo­sa­mente, «vuo’ fa’ l’americano».

Anna Angelucci, Asso­cia­zione Nazio­nale Per la Scuola della Repubblica

Ministri sui banchi spot a larghe intese

Nella giornata in cui otto milioni di studenti rientrano in aula in quindici regioni, il premier ha pubblicizzato la riforma che piace anche a Mariastella Gelmini. Tutto l’esecutivo ha ribadito l’impegno ad assumere «149 mila precari» a settembre 2015. Ma nessuno ha spiegato perché il contratto dei docenti dovrà fermarsi per un altro anno e gli scatti di anzianità saranno sostituiti con quelli «di competenza» comprimendo ulteriormente i già magri stipendi. 
I docenti scioperano con i Cobas e gli studenti si preparano a protestare venerdì 10 ottobre

imo giorno di scuola per il governo Renzi. Con la car­tella e lo zaino in spalla, ma senza grem­biule, ieri molti mini­stri si sono seduti tra
i ban­chi. Facen­dosi largo tra inse­gnanti e docenti, il pre­si­dente del Con­si­glio Renzi è andato alla Don Pino Puglisi, nel quar­tiere Bran­cac­cio di Palermo, Gian­nini all’istituto tec­nico agra­rio Emi­lio Sereni di Roma, Madia al Neruda di Roma Nord. Poletti, Del­rio e Gal­letti in Emi­lia Romagna.
In una gior­nata di mas­sic­cia pro­pa­ganda rivolta a quasi 8 milioni di stu­denti di 15 regioni (domani aprono le scuole anche in Puglia e Sici­lia), Renzi ha riba­dito l’impegno di assu­mere «149 mila pre­cari» a set­tem­bre 2015. Nes­sun espo­nente dell’esecutivo ha spie­gato per­ché il con­tratto dei docenti è stato bloc­cato anche per il 2015.
Ai docenti pre­cari con il tiro­ci­nio for­ma­tivo attivo (Tfa) che lo hanno con­te­stato a Palermo insieme agli stu­denti medi, Renzi non ha spie­gato per­ché non ver­ranno assunti, dopo averli obbli­gati ad abi­li­tarsi. In que­sta situa­zione ci sono anche gli abi­li­tati Pas: in totale oltre 80 mila per­sone. Nel 2015 que­ste per­sone rischiano di restare disoc­cu­pate se non riu­sci­ranno a vin­cere una cat­te­dra nel con­corso che il Miur si appre­sta a ban­dire. Nella «buona scuola» ci sarà infatti solo un’unica fascia di inse­gnanti abi­li­tati da uti­liz­zare nei rari casi in cui le sup­plenze non potranno essere coperte con i docenti di ruolo.
Il nuovo anno sco­la­stico è comin­ciato all’insegna dello slo­gan: lavo­rare (non) tutti per gua­da­gnare tutti di meno. In attesa della par­tenza della con­sul­ta­zione pub­blica e online sul «patto edu­ca­tivo» (www.labuonascuola.gov.it), Renzi si è espresso in maniera crip­tica sulla risorse neces­sa­rie per le assun­zioni. «Faremo di tutto per assu­mere i pre­cari. – ha detto — Non vuol dire che li but­te­remo den­tro, ma che stiamo cam­biando il sistema per far sì che ciò avvenga. Ma occorre fare uno sforzo da parte di tutti per cam­biare il sistema».
Il pre­mier intende finan­ziare il nuovo sistema (900 milioni di euro pro­messi nella legge di sta­bi­lità 2014, altri 2,7 nel 2015) tagliando le sup­plenze brevi. In que­sto modo rischia di met­tere alla porta cen­ti­naia di migliaia di pre­cari non inclusi nelle gra­dua­to­rie ad esau­ri­mento, ma che lavo­rano già da anni nella scuola. Ai 149 mila pre­cari che pro­mette di assu­mere, Renzi chiede invece lo «sforzo» di rinun­ciare all’aumento dei loro magri sti­pendi. In più dovranno rispon­dere alle chia­mate del preside-manager per tap­pare i buchi lasciati dai docenti assenti. Il governo la chiama «mobi­lità». In realtà si tratta del vec­chio «lavoro a chia­mata» (job on call) adat­tato ad un per­so­nale che dovrebbe rice­vere uno sti­pen­dio ogni mese. A que­sti pre­cari il pre­mier non ha spie­gato per­ché gli «scatti di com­pe­tenza» che sosti­tui­ranno quelli di anzia­nità riguar­de­ranno solo il 66% dei docenti «meri­te­voli» e si tra­dur­ranno a regime in tagli agli sti­pendi fino a 331 milioni di euro (da 26 fino a 75 euro a testa).
In una gior­nata pas­sata all’offensiva, dove non c’era spa­zio per con­trad­di­zioni ma solo per un oriz­zonte radioso, la mini­stra dell’Istruzione Gian­nini si è difesa dalle cri­ti­che al pro­getto sulla «buona scuola»: «Mai par­lato di azien­da­liz­za­zione», ha assi­cu­rato. E ha pun­tato sull’«oggettività» della valu­ta­zione quan­ti­ta­tiva che misu­rerà il «merito». Un’oggettività con­te­stata dagli stu­denti e dai comi­tati dei pre­cari in quanto espres­sione di una visione “neo­li­be­ri­sta” dell’istruzione ispi­rata alla con­cor­renza tra gli inse­gnanti e ad una cul­tura basata sul “problem-solving” e non sulle capa­cità critiche.
Men­tre la rete degli stu­denti medi ha fatto un blitz ieri al Miur, gli stu­denti dell’Uds hanno con­te­stato Gian­nini a Roma e la mini­stra della Difesa Pinotti a Genova: «Non è la scuola a dover pie­garsi ad un modello di svi­luppo ingiu­sto che inve­ste in basse com­pe­tenze e che ci vuole solo pre­cari – ha detto il coor­di­na­tore Uds Danilo Lam­pis — ma è il modello di svi­luppo a dover cam­biare a par­tire da un rin­no­vato ruolo dei saperi».
Venerdì 10 otto­bre tutti gli stu­denti scen­de­ranno in piazza per con­te­stare la riforma. I Cobas di Piero Ber­noc­chi hanno dichia­rato lo scio­pero gene­rale pro­prio quel giorno. È pro­ba­bile che in piazza ci saranno anche i pre­cari abi­li­tati esclusi.  Roberto Ciccarelli

Operazione Isis, l’obiettivo è la Cina

lunedì 22 settembre 2014

Stati uniti. Secondo una società collegata alla Cia, gli islamisti punterebbero al sud est asiatico
Musulmani indonesiani a Jakarta
Men­tre l’Isis dif­fonde attra­verso le com­pia­centi reti media­ti­che mon­diali le imma­gini della terza deca­pi­ta­zione di un cit­ta­dino occi­den­tale, suona un altro cam­pa­nello di allarme: dopo essersi dif­fuso in Siria e Iraq, l’Isis sta pene­trando nel Sud-Est asia­tico. Lo comu­nica la Muir Ana­ly­tics, società che for­ni­sce alle mul­ti­na­zio­nali «intel­li­gence con­tro ter­ro­ri­smo, vio­lenza poli­tica e insur­re­zione», facente parte dell’«indotto» della Cia in Vir­gi­nia, usata spesso dalla casa madre per dif­fon­dere «infor­ma­zioni» utili alle sue operazioni.
Campo in cui la Cia ha una con­so­li­data espe­rienza. Durante le ammi­ni­stra­zioni Car­ter e Rea­gan essa finan­ziò e adde­strò, tra­mite il ser­vi­zio segreto pachi­stano, circa 100mila muja­hed­din per com­bat­tere le forze sovie­ti­che in Afgha­ni­stan. Ope­ra­zione a cui par­te­cipò un ricco sau­dita, Osama bin Laden, arri­vato in Afgha­ni­stan nel 1980 con migliaia di com­bat­tenti reclu­tati nel suo paese e grossi finan­zia­menti. Finita la guerra nel 1989 con il ritiro delle truppe sovie­ti­che e l’occupazione di Kabul nel 1992 da parte dei muja­hed­din, le cui fazioni erano già in lotta l’una con l’altra, nac­que nel 1994 l’organizzazione dei tale­ban indot­tri­nati, adde­strati e armati in Paki­stan per con­qui­stare il potere in Afgha­ni­stan, con una ope­ra­zione taci­ta­mente appro­vata da Washington.
Nel 1998, in una inter­vi­sta a Le Nou­vel Obser­va­teur, Brze­zin­ski, già con­si­gliere per la sicu­rezza nazio­nale Usa, spiegò che il pre­si­dente Car­ter aveva fir­mato la diret­tiva per la for­ma­zione dei muja­hed­din non dopo ma prima dell’invasione sovie­tica dell’Afghanistan per «atti­rare i russi nella trap­pola afghana». Quando nell’intervista gli fu chie­sto se non si fosse pen­tito di ciò, rispose: «Che cosa era più impor­tante per la sto­ria del mondo? I tale­ban o il col­lasso dell’impero sovietico?».
Non ci sarebbe quindi da stu­pirsi se in futuro qual­che ex con­si­gliere di Obama ammet­tesse, a cose fatte, ciò di cui già oggi si hanno le prove, ossia che sono stati gli Usa a favo­rire la nascita dell’Isis, su un ter­reno sociale reso «fer­tile» dalle loro guerre, per lan­ciare la stra­te­gia il cui primo obiet­tivo è la com­pleta demo­li­zione della Siria, finora impe­dita dalla media­zione russa in cam­bio del disarmo chi­mico di Dama­sco, e la rioc­cu­pa­zione dell’Iraq che stava distac­can­dosi da Washing­ton e avvi­ci­nan­dosi a Pechino e Mosca.
Il patto di non-aggressione in Siria tra Isis e «ribelli mode­rati» è fun­zio­nale a tale stra­te­gia (v. sul mani­fe­sto del 10 set­tem­bre la foto dell’incontro, nel mag­gio 2013, tra il sena­tore Usa McCain e il capo dell’Isis facente parte dell’«Esercito siriano libero»). In tale qua­dro, l’allarme sulla pene­tra­zione dell’Isis nelle Filip­pine, in Indo­ne­sia, Malay­sia e altri paesi a ridosso della Cina – lan­ciato dalla Cia attra­verso una sua società di comodo – serve a giu­sti­fi­care la stra­te­gia già in atto, che vede gli Usa e i loro prin­ci­pali alleati con­cen­trare forze mili­tari nella regione Asia/Pacifico.
Là dove, avver­tiva il Pen­ta­gono nel 2001, «esi­ste la pos­si­bi­lità che emerga un rivale mili­tare con una for­mi­da­bile base di risorse, con capa­cità suf­fi­cienti a minac­ciare la sta­bi­lità di una regione cru­ciale per gli inte­ressi sta­tu­ni­tensi». La «pro­fe­zia» si è avve­rata, ma con una variante. La Cina viene temuta oggi a Washing­ton non tanto come potenza mili­tare (anche se non tra­scu­ra­bile), ma soprat­tutto come potenza eco­no­mica (al cui raf­for­za­mento con­tri­bui­scono le stesse mul­ti­na­zio­nali Usa fab­bri­cando molti loro pro­dotti in Cina). Ancora più temi­bile diventa la Cina per gli Usa in seguito a una serie di accordi eco­no­mici con la Rus­sia, che vani­fi­cano di fatto le san­zioni occi­den­tali con­tro Mosca, e con l’Iran (sem­pre nel mirino di Washing­ton), impor­tante for­ni­tore petro­li­fero della Cina.
Vi sono inol­tre segnali che la Cina e l’Iran siano dispo­ni­bili al pro­getto russo di de-dollarizzazione degli scambi com­mer­ciali, che sfer­re­rebbe un colpo mor­tale alla supre­ma­zia sta­tu­ni­tense. Da qui la stra­te­gia annun­ciata dal pre­si­dente Obama, basata sul prin­ci­pio (spie­gato dal New York Times) che, in Asia, «la potenza ame­ri­cana deve seguire i suoi inte­ressi eco­no­mici». Gli inte­ressi Usa che seguirà l’Italia par­te­ci­pando alla coa­li­zione inter­na­zio­nale a guida Usa «con­tro l’Isis».

Jobs Act, ritorno al passato remoto

giovedì 18 settembre 2014

Jobs Act, ritorno al passato remoto
Claudio Conti - tratto da http://contropiano.org
Il governo ha trovato "la quadra" intorno al Jobs Act, varando un ddl delega che dovrebbe affrontare il vaglio del Parlamento, ma che può diventare un decreto in ogni momento, in modo da evitare lungaggini o "stravolgimenti". E deve essere ben chiaro che l'unico "stravolgimento" intollerabile sarebbe il mantenimento di qualche istituto di tutela per il lavoratore.
Prima ancora di elencare le singole misure di "riforma", converrà dare un giudizio organico: questa "riforma del mercato del lavoro" segna una rottura completa con la storia delle relazioni industriali esistenti nel dopoguerra, ovvero dell'Italia repubblicana. Non è una "riforma", ma una controrivoluzione. L'obiettivo non è infatti "correggere" alcune presunte distorisioni nella normativa giuslavoristica, ma mettere l'azienda al posto di comando sempre e comunque. Se dovessimo tradurla sul piano costituzionale, insomma, dovremmo scrivere "art. 1. l'Italia è una repubblica fondata sull'azienda, che non ha alcuna resposabilità sociale e non può incontrare limiti nella sua attività".
Andiamo con ordine.
L'art. 4 del ddl presentato dal ministro del lavoro-stile-Coop, Poletti, è stato riscritto con l'ambizione di "valutare l'effettiva coerenza con il tessuto occupazionale e con il contesto produttivo nazionale e internazionale", per disegnare "eventuali interventi di semplificazione delle tipologie contrattuali". Il governo si dà infatti sei mesi di tempo per elaborare un "testo organico semplificato delle discipline delle tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro", che farà da benchmark per "l'abrogazione di tutte le disposizioni che disciplinano le singole forme contrattuali, incompatibili con le disposizioni del testo organico semplificato". In pratica, una riscrittura completa, organica e univocamente determinata, di tutta la disciplina del lavoro.
Sappiamo che "grazie" al pacchetto Treu e alla legge 30 esistono - oltre all'ormai rarissimo contratto a tempo indeterminato, ben 46 tipologie contrattuali caratterizzate univocamente dalla precarietà assoluta. Può esser questo l'obiettivo della "semplificazione"? Certamente sì, perché anche le aziende hanno difficoltà nel gestire rapporti interni ricadenti sotto normative differenti, cosa che mette in difficoltà gli uffici amministrativi. Quindi "meno diversità" contrattuali è un obiettivo logico, di efficienza minima. Ma anche certamente no, perché - come vedremo - l'"equità" che il governo persegue è quella di rendere tutti egualmente precari, eliminando le residue tutele anche per quanti erano riusciti fin qui a difenderle.
Il dispositivo individuato è il vecchio schema elaborato da Pietro Ichino, pomposamente chiamato "contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all'anzianità di servizio". In realtà, come si è visto con i primi interventi legislativi in materia di apprendistato e contratti a termine, le "tutele" vengono eliminate del tutto; e solo ad una certa - lunghissima - anzianità di carriera cominceranno ad essere reintrodotte. Ma, sia chiaro, in misura assai più limitata di oggi. Al massimo, verranno "monetizzate" alcune eventuali "discriminazioni" da parte dell'azienda nei confronti del singolo lavoratore.
Il meccanismo delle "tutele crescenti" prevede dunque in partenza zero tutele per i neo assunti. E' l'abolizione nella pratica dell'art.18, tanto più che il primo contratto a tempo indeterminato può arrivare dopo alcuni anni di "apprendistato" e magari qualche altro di "contratto a termine", portando così intorno ai dieci anni il periodo di vita lavorativa assolutamente privo di tutele. Un esempio concreto può aiutare: una donna può esser licenziata per il semplice motivo di essere incinta (già oggi migliaia di imprese fanno firmare dimissioni in bianco per impedire tale eventualità), quindi per almeno dieci anni dovrà rinunciare a fare figli. Ci asteniamo dal fare esempi su dipendenti in grado di difendere i propri e altrui diritti come lavoratori, costruendo sindacato, che a questo punto diventeranno bersaglio immediato dellarevanche aziendale.
Nemmeno l'inquadramento professionale sarà più una tutela. Fino ad oggi, infatti, la maturazione di livelli di avanzamento è stata legata o all'anzianità o "al merito" (a seconda delle categorie e dei contratti nazionali relativi). In pratica, anche quando l'azienda ristruttura, ogni lavoratore deve essere impiegato per le mansioni previste dal suo livello professionale. Ora il governo prevede una "revisione della disciplina delle mansioni, contemperando l'interesse dell'impresa all'utile impiego del personale in caso di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale con l'interesse del lavoratore alla tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita". In pratica, l'azienda dispone che tu possa esercitare una mansione inferiore - per professionalità, autostima, salario, ecc - e tu "ti contemperi" pur di mantenere il posto di lavoro.
Salta completamente ogni limitazione alla possibilità dell'azienda di spiare ogni singolo dipendente, durante il suo orario di lavoro. Viene stabilita infatti una "revisione della disciplina dei controlli a distanza", che ammette tutti i dispositivi tecnologici esistenti o ancora da commercializzare. Anche in questo caso l'azienda dovrà "contemperare" la sua esigenza di controllo con "la tutela della dignità e della riservatezza del lavoratore". Desumiamo che ciò si risolverà nel divieto (o prassi "sconsigliata") di installare telecamere anche nei servizi igienici...
Al contrario, le aziende dovranno subire meno controlli ispettivi in materia di sicurezza del lavoro e inquinamento ambientale. Si prevede infatti di "semplificare l'attività ispettiva". Gli strumenti sono ancora incerti (maggiore coordinamento degli organismi esistenti oppure istituzione "di una Agenzia unica per le ispezioni del lavoro", raggruppando i servizi specifici del ministero del lavoro, dell'Inps e dell'Inail, fino alle Asl e all'Arpa).
Per svuotare completamente anche la contrattazione nazionale, si prevede di introdurre, "eventualmente anche in via sperimentale", il salario orario minimo. Inizialmente dovrebbe riguardare soprattutto il lavoro subordinato o i co.co.co. impiegati "nei settori non regolati da contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale". Ma non esiste alcun dubbio che, in assenza di risposte conflittuali all'altezza, la disciplina verrà poi estesa anche ai settori oggi "contrattualizzati". Ovviamente in nome dell'"equità" e della "lotta alle disparità". O ai "privilegi".
Altra innovazione, da delineare meglio nei dettagli, è la possibilità di introdurre i "mini job"; ovvero un istituto occupazionale creato 10 anni fa in Germania dal governo Spd di Gerhard Schroeder, conosciuto come Hartz IV, e che prevede di retribuire lavori part time (15 ore settimanali) con 450 euro, esentasse e senza contributi previdenziali (il che significa senza alcun effetto per le future pensioni). L'occupazione tedesca, beatificata come "modello per tutta l'Unione Europea", è arrivata già oggi a contare ben 7,5 milioni di persone ridotte a questo stadio.
Ma se le aziende hanno libertà di licenziare, cosa avverrà dei lavoratori messi fuori?
La risposta governativa è una presa per i fondelli di dimensioni planetarie. Si parla infatti di "modello danese" (la famosa "flexsecurity", apprezzata alcuni anni fa anche da certi teorici dell'"Autonomia" generalmente estranei alle dinamiche del lavoro dipendente). Quel sistema per cui alla massima "flessibilità in uscita" (l'azienda è libera di licenziare a piacere) corrisponde una temporanea erogazione di reddito da parte dello Stato, accompagnata da incentivi e sanzioni che spingono alla ricerca di una nuova occupazione.
Il problema - molto poco analizzato in concreto - è che questo sistema di ammortizzatori sociali ha costi molto elevati. La Danimarca vi impegna il 3.6% del suo prodotto interno lordo (Pil), mentre l'Italia fin qui ha speso allo stesso scopo, su strumenti diversi, soltanto l'1,9%. La differenze di spesa annuale - per un paese come l'Italia che produce circa 1.500 miliardi di ricchezza annua - è di 24 miliardi. Vi pare possibile che un governo impegnato a fare 20 miliardi di tagli nella spesa pubblica possa pensare di dedicarne 24 ai sussidi di disoccupazione?
No, evidentemente. Però, intanto, il ddl di Poletti si preoccupa di smantellare gli ammortizzatori sociali esistenti. Resterà soltanto la cassa integrazione ordinaria, quella che copre crisi aziendali temporanee per motivi imprevedibili (alluvioni, incendi, guerre nei mercati di sbocco, ecc). Sparisce la cig straordinaria per chiusura, fallimento e liquidazione coatta; scompare, dal 2017, anche la "mobilità". Resta solo l'Aspi, una forma di assegno di disoccupazione che copre periodi molto più brevi (da sei mesi ad un anno).
Quindi possiamo concludere senza timore di essere smentiti che i lavoratori licenziati verranno costretti a dormire sotto i ponti. Magari pagando un euro al giorno, come progettato dall'amministrazione comunale di Bologna per i clochard...
Benvenuti a Manchester, 1843.
18 settembre 2014

L’UFFICIO SCOLASTICO REGIONALE SCEGLIE LA SCUOLA-RIFORMATORIO: SOSPESO 12 GIORNI DALL’INSEGNAMENTO E DALLO STIPENDIO IL DOCENTE CHE HA SCELTO DI CONTINUARE AD INSEGNARE OPPONENDOSI AI CONTROLLI ANTIDROGA DURANTE L’ORARIO DI LEZIONE.


Sospendere un insegnante perché si rifiuta di interrompere la lezione sembra un paradosso degno di Lewis Carroll, l’autore di Alice nel paese delle meraviglie, ma a Terni succede proprio questo: il dirigente dell’Ufficio Scolastico Regionale, Domenico Petruzzo, irroga il provvedimento disciplinare della sospensione per 12 giorni dal servizio e dallo stipendio a un docente per essersi rifiutato di  interrompere la lezione per controlli con cani antidroga in classe. L’insegnante è Franco Coppoli, referente provinciale della Confederazione Cobas. L’esecutivo nazionale dei Cobas della scuola ha deciso di patrocinare il ricorso davanti al giudice che verrà presentato al Tribunale di Terni al termine del periodo di sospensione. A fine marzo 2014 il docente, all’irruzione dei poliziotti in classe, senza alcun mandato del magistrato, si era rifiutato di interrompere la lezione minacciando gli agenti di denuncia per interruzione di pubblico servizio. L’U.S.R. a luglio ha formalizzato il provvedimento che decorre dall’inizio dell’a.s.. dal 15 al 27 settembre.
Quello di interrompere la normale attività didattica da parte della polizia (senza alcun mandato di magistrati) per controlli con cani antidroga è un atto grave, indice del clima sociale e politico nel nostro paese. Vengono alla mente gli stati di polizia, le irruzioni nelle scuole dopo il colpo di stato in Cile o in Argentina o in quei luoghi dove le forze di polizia si arrogano prassi autoritarie che ledono profondamente i diritti civili, la libertà di insegnamento, le prerogative democratiche, nonché la persona degli studenti. Infatti interrompere le lezioni per imporre umilianti controlli  antidroga non porta risultati quantitativi tali che possano far pensare che l’operazione serva a debellare spaccio o consumi. In realtà queste sono operazioni repressive con connotazioni mediatico-intimidatorie: servono a “insegnare” agli studenti che sono tutti potenziali criminali, controllabili e perquisibili in ogni momento. Educare al controllo ed alla subalternità ecco l’intento, neppure troppo nascosto, di queste operazioni-spettacolo che attaccano profondamente l’essenza stessa del fare scuola: dell’educare in modo critico e non certamente reprimere, sorvegliare e punire. Se infatti ci fossero (e non c’erano in questo caso) comportamenti collegati all’uso di sostanze psicotrope, che fanno parte dei processi comportamentali dell’adolescenza, quale dovrebbe essere la risposta della scuola? Intervenire, anche tramite esperti, cercando di affrontare il problema in un’ottica educativa oppure riempire gli istituti di polizia e cani arrestando o prelevando adolescenti in possesso di qualche spinello? E’ quello che Susanna Ronconi di Forum Droghe chiama un suicidio educativo: la scuola ed i docenti così abdicano al proprio ruolo, alla propria professionalità per passare dall’educazione alla repressione. Che senso ha proporre la scuola-carcere, la scuola- riformatorio (come avviene già negli USA) in un momento in cui
alcuni stati liberalizzano o legalizzano l’uso terapeutico o ricreativo delle droghe leggere, in cui alcune sentenze della Corte costituzionale attaccano la ormai ventennale e fallimentare “lotta alla droga” e hanno smantellato la legge Fini-Giovanardi che ha solo riempito le carceri di tossicodipendenti garantendo ampi profitti alle mafie. I COBAS si mobilitano a fianco di Franco Coppoli, patrocinano il ricorso in tribunale, organizzeranno iniziative di formazione dei docenti, auspicano la solidarietà dei colleghi, operatori del settore e genitori e la mobilitazione degli studenti per il rispetto dei loro diritti.
La scuola è un contesto educativo, non è un riformatorio dove si possono interrompere le attività didattiche per il triste ed inutile spettacolo delle repressione.

COBAS, COMITATI DI BASE DELLA SCUOLA UMBRIA 

Il 10 ottobre sciopero generale dei lavoratori/trici della scuola insieme agli studenti

lunedì 8 settembre 2014

Il furbone Renzi promette on-line la sacrosanta assunzione di 150 mila precari. Ma essa non sarà fumo solo se le risorse verranno inserite nella Finanziaria
 
E il piano-Renzi di precari ne espellerebbe altrettanti, mentre rilancia la scuola dei presidi-padroni, la concorrenza tra docenti ed Ata per qualche spicciolo, la subordinazione alle aziende, la scuola-miseria e la scuola-quiz
 
Che furboni Renzi e i suoi consiglieri: in 136 pagine hanno riassunto quanto di peggio i governi degli ultimi 20 anni hanno cercato di imporre alla scuola pubblica - incontrando una forte resistenza  - nascondendolo dietro la proposta dell’assunzione di 150 mila precari delle GAE (graduatorie ad esaurimento) entro il 1 settembre 2015. Essa, se realizzata davvero, sarebbe la compensazione doverosa per tanti anni di discriminazioni e aleatorietà di vita di docenti ed Ata e una risposta positiva alle tante lotte dei precari e dei Cobas. Ma perché Renzi non ha fatto approvare dal CdM, annullato all’ultimo momento, l’immissione dei 3-4 miliardi annui necessari nella Finanziaria? Perché non avrebbe avuto via libera da Padoan o da Draghi? Dunque, va imposto il mantenimento della promessa con l’approvazione del CdM e l’introduzione dello stanziamento in Finanziaria.
Ma guai a sottovalutare che sotto il manto della promessa “epocale” le 136 pagine prevedono l’espulsione di molte decine di migliaia di precari che spesso hanno altrettanti anni di lavoro malgrado non siano inseriti nelle GAE e che meritano anche essi l’assunzione e non la beffa di un ulteriore concorso per 40 mila lavoratori/trici e la perdita persino delle supplenze. E poi il piano-Renzi è la “summa” di tante distruttive proposte per scuole-aziende dominate da presidi-padroni, da lotte concorrenziali tra docenti ed Ata per qualche spicciolo in più, da valutazioni-quiz del lavoro docente e delle scuole, da apprendistato nelle imprese invece che istruzione
I presidi assumerebbero direttamente loro (e licenzierebbero) docenti ed Ata dopo una fantomatica “consultazione collegiale”, ed interverrebbero anche sulla carriera e sugli stipendi dei dipendenti. 
Sotto la logora coperta del presunto “merito”, che nessun governo ha mai spiegato cosa sia, si intende avviare il Sistema di valutazione nazionale che imporrebbe i criteri Invalsiani della scuola-quiz, con l’introduzione del Registro nazionale del personale per conteggiare le sedicenti “abilità” di ognuno/a, fissandole in un Portfolio con i presunti "crediti" sulla cui base i presidi premierebbero i più fedeli. 
Perché gli scatti di anzianità verrebbero sostituiti da scatti per “merito” che riceverebbe solo il 66% dei “migliori” di ogni scuola (perché il 66%? e se fossero tutti “bravi” o tutti “non-bravi”?) sui quali la parola decisiva l’avrebbe il preside, come un Amministratore delegato alla Marchionne. E a proposito di fabbriche, colpisce gravemente l’obbligo di 200 ore di apprendistato gratuito in azienda per gli studenti delle scuole tecniche e professionali, con perdita di istruzione e riproposizione della divisione classista con i licei; nonché l’accorato appello agli investimenti privati, “potenziando i rapporti con le imprese" ma anche chiedendo il “microcredito” dei cittadini, cioè un ulteriore aumento dei contributi imposti ai genitori per le spese essenziali delle scuola, visto che lo Stato, come fa scrivere Renzi, “non ce la fa” da solo. 
Infine, per incentivare al massimo la concorrenza tra docenti, si introducono i sedicenti "innovatori naturali", che invece di insegnare si occuperanno dell'aggiornamento obbligatorio altrui; nonché il "docente mentor", supervisore della valutazione della scuola e del singolo. 
E il tutto senza che ci sia un euro in più di finanziamento della scuola, dopo venti anni di tagli indiscriminati, e reiterando il blocco dei contratti a lavoratori/trici che in questi due decenni hanno perso almeno il 30% dello stipendio.
Ce ne è abbastanza per raccogliere la proposta degli studenti che hanno già convocato il loro sciopero nazionale, indicendo come COBAS per il 10 ottobre anche lo sciopero generale di tutti i lavoratori/trici della scuola e facendo appello a docenti ed Ata, genitori, associazioni e  sindacati per confluire unitariamente nello sciopero e nelle manifestazioni provinciali o regionali che si svolgeranno in difesa della scuola pubblica e dei suoi protagonisti.
Vogliamo l’immediata convocazione di un CdM che si impegni, con risorse da stanziare in Finanziaria, a garantire l’assunzione dei 150 mila precari GAE; e nello stesso tempo richiediamo l’assunzione anche di tutti i precari che, pur non essendo nelle GAE, lavorano da anni ed hanno acquisito analoghi diritti al lavoro stabile.
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Manifesteremo contro il blocco dei contratti e la cancellazione degli scatti di anzianità; contro le assunzioni dirette da parte dei presidi-manager e il potere assoluto che si vuole loro attribuire; contro i quiz Invalsi su cui valutare il presunto “merito”, il Registro personale, gli scatti solo al 66% del personale, gli “innovatori naturali” e il docente “mentor”; contro l’obbligo dell’apprendistato in azienda; e per massicci investimenti nella scuola pubblica, un aumento immediato di 300 euro netti mensili per docenti ed Ata, come parziale recupero per quanto perso in questi anni,l’immediato pensionamento dei Quota 96.

Il furbone Renzi promette assunzioni di massa on-line ma non in Consiglio di Ministri. Altro che consultazione democratica! Non sa dove trovare i soldi e non osava dirlo a Padoan

mercoledì 3 settembre 2014 · Posted in ,

E intanto rilancia la scuola dei presidi-padroni, liberi di assumere e di licenziare, e la concorrenza tra docenti ed Ata per qualche spicciolo, con i contratti bloccati per l’eternità
  Ma che gran furbone il Renzi, che colossale venditore di fumo, altro che il Berlusca! Cancella il CdM strombazzato da settimane che doveva decidere provvedimenti “epocali” per la scuola e mischia, on-line tanto non costa niente, promesse mirabolanti a ignobili proposte per scuole dominate da presidi-padroni liberi di assumere e licenziare e per scatenare lotte concorrenziali tra docenti ed Ata per qualche spicciolo in più, mentre i contratti restano bloccati a vita. Il furbone pensa che, grazie alla promessa di assunzioni di massa di precari, tutto il resto passerà in cavalleria. Le assunzioni di tutti i precari (che non sono solo i 150 mila delle GAE, ma molti di più) sarebbero la compensazione doverosa per tanti anni di discriminazioni e aleatorietà di vita, tanto più che nel prossimo triennio circa centomila docenti ed Ata andranno in pensione. Perché, invece di nascondersi dietro una fantomatica  discussione per due mesi, Renzi non è andato in CdM, rendendo realtà la promessa e richiedendo i circa 4 miliardi annui necessari per attuarla (un precario costa in media un 30% in meno di uno “stabile”) nella Finanziaria di novembre? Perché avrebbe dovuto avere il via libera di Padoan e di Draghi, nonché subire l’assalto degli altri ministri che avrebbero richiesto somme analoghe. Così, invece, potrà a gennaio fare marcia indietro, dando la colpa alle ristrettezze finanziarie. Ma, coperte da questo fumo, le 130 pagine nascondono le seguenti “chicche”, citando solo quelle che risaltano di più ad una prima rapida lettura:
1) In futuro le assunzioni avverranno solo per concorso, quel meccanismo corrompente che nessuna garanzia dà veramente sulle competenze; e solo per gli abilitati mediante una sorta di laurea abilitante che andrebbe anche bene (almeno sulla carta) se non fosse a numero chiuso e se non servisse anche ad accorpare enormemente cattedre e competenze, mischiando materie “affini”.
2) Finalmente i presidi otterrebbero il potere assoluto mediante l’assunzione diretta (e conseguenti licenziamenti) di docenti ed Ata). E’ scritto che, per realizzare, la “piena autonomia” scolastica, serve "schierare la squadra con cui giocare la partita dell'istruzione", cioè chiamare a scuola i docenti e gli Ata che il preside-padrone, dopo “consultazione collegiale”, riterrà più adatti.
3) Riparte la geremiade sul presunto “merito”, quel quid che nessun ministro o governo è mai riuscito a spiegare cosa sia esattamente per i docenti e gli Ata. Avvio dal prossimo anno del Sistema di valutazione nazionale, con la sedicente autovalutazione delle scuole che in realtà significherà l’imposizione dei criteri degli Invalsiani, quelli della scuola-quiz, nonché l’intervento assillante degli ispettori ministeriali. E in aggiunta, verrà imposto dal 2015-6 il Registro nazionale del personale, che farà lo screening delle sedicenti “abilità” di ognuno/a, fissandole in un Portfolio individuale su cui verranno conteggiati i presunti "crediti" professionali dei singoli. E sulla base del Portfolio e dei crediti i presidi assumeranno ma anche premieranno, perché per gli scatti stipendiali si procederebbe in parte per anzianità ed in parte per presunto merito con graduatorie di istituto, in base alle quali il 66% dei “migliori” (data l’aleatorietà dei criteri, sarà il preside ad avere la parola decisiva) avrà uno scatto ogni 3 anni (sempre con il permesso di Padoan e di Draghi).
4) In questo quadro finisce per preoccupare persino l’annunciata “eliminazione della burocrazia scolastica” (un’altra “rottamazione”?) se significherà, come scritto, lasciare carta bianca alla decisionalità dei "presidi in rete", trasformati in Amministratori delegati alla Marchionne, possessori delle scuole e del personale.
5) C’è poi un’accorata sollecitazione agli investimenti privati, in un quadro di potenziamento "dei rapporti con le imprese", non solo alle aziende vere e proprie, a cui si promettono forti sconti fiscali, ma anche al “microcredito” dei cittadini, con raccolte "popolari" di soldi, visto che il finanziamento pubblico da solo "non ce la fa". E toccherebbe ai genitori farsi avanti con altri quattrini. E la fuoriuscita per stages lavorativi (gratuiti) in azienda dovrà divenire la regola alle superiori. La “didattica lavorativa” sarà resa “sistemica”, verso una scuola-fabbrica.
5) Per incentivare al massimo la concorrenza tra docenti, si torna ai "formatori" contro cui nacquero i Cobas. Si chiameranno "innovatori naturali" coloro che invece di insegnare si occuperanno della formazione e dell'aggiornamento, che diverrà obbligatorio e conterà molto per i “crediti”. Ovviamente i tizi otterranno meriti e soldi in più. Cosa che accadrà anche per il "docente mentor" un supervisore della valutazione della scuola e del singolo, nonché per le attività di “formazione”.

Insomma, in attesa che, sull’unico punto potenzialmente positivo del programma -, e cioè l’assunzione al 1 settembre 2015 di 150 mila precari - un CdM prenda un preciso impegno legislativo a investire nella imminente Finanziaria i 4 miliardi annui necessari, ci apprestiamo a respingere al mittente il resto, con l’aiuto dei tanti docenti, Ata, studenti e cittadini che non si lasceranno ingannare dal novello Berlusconi. 
Quindi, sabato 6 settembre riuniremo il nostro Esecutivo nazionale per decidere le iniziative di protesta e di lotta in difesa della scuola pubblica e dei suoi lavoratori/trici, anche tenendo conto della decisione già presa da molte organizzazioni studentesche che hanno convocato per il 10 ottobre uno sciopero nazionale degli studenti.

Piero Bernocchi  portavoce nazionale COBAS

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Il giorno libero non si tocca

La prassi sanzionata dai magistrati
L'aumento delle difficoltà organizzative connesso al riempimento delle cattedra a 18 ore a causa della cancellazione delle ore a disposizione, talvolta ha indotto i dirigenti scolastici a privare alcuni docenti del cosiddetto giorno libero. E cioè della distribuzione della prestazione di insegnamento in 5 giorni la settimana.
Tale soluzione, se adottata di comune accordo con il docente interessato, può considerarsi legittima altrimenti no. Il giorno libero, infatti, costituisce un vero e proprio diritto.
La fonte di tale diritto va rinvenuta in primo luogo nella consuetudine, della cui esistenza la stessa amministrazione fornisce prova tramite ben due citazioni in provvedimenti da essa stessa emanati: la nota prot.12360 del 25 agosto 2009 e l'art.7, comma 4 del decreto ministeriale 131/2007. L'esistenza del diritto si evince anche dalla lettura dell'articolo 2078 del codice civile che così dispone: «In mancanza di disposizioni di legge e di contratto collettivo si applicano gli usi.
Tuttavia gli usi più favorevoli ai prestatori di lavoro prevalgono sulle norme dispositive di legge». La Corte cassazione fin dal 1983 (sentenza n. 1279) ha interpretato questa disposizione stabilendo che l'uso aziendale consiste in una prassi seguita all'interno di un'impresa, riconducibile alla categoria degli usi negoziali. La prassi, sempre secondo l'avviso della Suprema corte, si inserisce nel contratto di lavoro individuale e ne integra il contenuto. E quindi ha forza vincolante per le parti, anche se deroga il contratto collettivo in senso più favorevole al lavoratore. Ciò vale per tutte le tipologie di personale docente, ivi compresa quella dei docenti di sostegno. Fin qui la legge e l'interpretazione del giudice di legittimità.
Quanto alle fonti negoziali, nella scuola il riferimento normativo è l'articolo 28 del vigente contratto di lavoro, che prevede, appunto, la possibilità di suddividere la prestazione in 5 giorni la settimana anziché 6.

Il testo negoziale, infatti, al comma 5 stabilisce che «nell'ambito del calendario scolastico delle lezioni definito a livello regionale, l'attività di insegnamento si svolge in 25 ore settimanali nella scuola dell'infanzia, in 22 ore settimanali nella scuola elementare e in 18 ore settimanali nelle scuole e istituti d'istruzione secondaria ed artistica, distribuite in non meno di cinque giornate settimanali».

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