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ROARS- Il recente decreto legge che prevede di inserire i risultati
dei test Invalsi nel curriculum degli studenti desta serie
preoccupazioni. I punteggi nei test, quanto quelli sul QI, sono
fortemente influenzati dalla condizione socioeconomica delle famiglie
e dalle caratteristiche del contesto sociale e territoriale da cui
provengono gli studenti. Chi proviene da famiglie o da contesti
svantaggiati ha, mediamente, punteggi inferiori di chi, invece, è
più avvantaggiato sotto il profilo socioeconomico. Uno dei
rischi da scongiurare è che i risultati ottenuti nei test –
risultati che, è bene ricordarlo, possono variare nel tempo –
possano essere usati per «incasellare» gli studenti, indirizzandone
irrimediabilmente il successivo percorso scolastico o professionale.
I test diventerebbero, così, un elemento che contribuisce a
perpetuare le disuguaglianze
A cosa servono i
test?
I livelli di apprendimento
conseguiti nelle prove Invalsi dovranno essere indicati, in forma
descrittiva, in una specifica sezione del curriculum dello studente
allegato al diploma di scuola superiore. È quanto prevede, tra
l’altro, il decreto legge n. 19 del 2 marzo 2024, riguardante
misure per l’attuazione del «Piano nazionale di ripresa e
resilienza», ricalcando una norma già contenuta in uno dei decreti
sulla «Buona scuola» (d. lgs. n. 62/2017) ma finora rinviata.
L’inserimento dei risultati delle prove Invalsi nel curriculum
dello studente è, a nostro avviso, una scelta discutibile per una
serie di ragioni.
Partiamo dalle finalità delle prove
Invalsi. Per come dichiarato nel suo statuto (art. 2), l’Istituto
nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e
formazione (Invalsi), ha la finalità di promuovere «il
miglioramento dei livelli di istruzione e della qualità del capitale
umano, contribuendo allo sviluppo e alla crescita del sistema
d’istruzione, motore di sviluppo dell’economia italiana e
promotore di equità sociale». Ai sensi della normativa sul segreto
statistico (D. lgs. n. 322/89) i dati raccolti dall’Invalsi «non
possono essere comunicati o diffusi se non in forma aggregata e
secondo modalità che rendano non identificabili gli interessati ad
alcun soggetto esterno, pubblico o privato, né ad alcun ufficio
della pubblica amministrazione». La ragione di ciò, come spiega lo
stesso Istituto, è che «le prove non valutano gli studenti come
fanno gli insegnanti, ma esaminano i loro esiti di apprendimento e lo
stato di salute del sistema scolastico».
In pratica, i risultati dei test
Invalsi dovrebbero servire a indirizzare la politica scolastica verso
interventi mirati, atti a colmare le lacune formative e correggere le
disparità tra scuole o tra aree geografiche. Non dovrebbero servire,
invece, per fornire informazioni a terzi sulle competenze degli
studenti. Al più, nel rispetto della privacy, i
risultati dei singoli studenti potrebbero aiutare i docenti a
individuare situazioni di disagio su cui intervenire con appropriati
strumenti didattici. Per tali ragioni, i risultati individuali dei
test dovrebbero rimanere riservati e il loro utilizzo limitato
all’interno del sistema scolastico.
Alla luce delle finalità sopra
richiamate, l’argomentazione secondo la quale i risultati dei test
Invalsi fornirebbero ai terzi interessati, come i futuri datori di
lavoro, utili informazioni sulle competenze acquisite dagli studenti,
appare quantomeno discutibile. Purtroppo, come accaduto in altri
casi, nel nostro paese strumenti di valutazione pensati per specifici
obiettivi, per una sorta di eterogenesi dei fini, vengono utilizzati
per scopi diversi da quelli originari.
Un problema di
disuguaglianze
Ci sono, poi, altri aspetti, ancora
più delicati, da considerare. Anzitutto, chiediamoci cosa misurino i
test Invalsi. I test scolastici in genere misurano alcune specifiche
competenze, ma non quelle attitudini, come la capacità di
comunicazione, e quei tratti della personalità di carattere
socio-emotivo e relazionale che hanno molta importanza nella vita
sociale e nel lavoro. Inoltre, i risultati nei test sulle competenze
non si sovrappongono ai voti attribuiti dagli insegnanti. Questi,
infatti, sono frutto della valutazione prolungata di una serie di
aspetti non racchiudibili in un questionario, per quanto articolato
esso possa essere.
Invece, come appurato da solide
ricerche [1], i punteggi ottenuti nei test sulle competenze, come
quelli condotti negli Stati Uniti e nel Regno Unito, hanno un’elevata
correlazione con i punteggi dei test sul quoziente d’intelligenza
(QI). La correlazione tra i risultati dei test sulle competenze e
quelli sul QI risulta, inoltre, molto alta quando si considerano i
punteggi medi nazionali o regionali [2].
Non siamo a conoscenza di studi che
riguardino specificamente le prove Invalsi, ma a livello regionale i
risultati ottenuti dagli studenti negli Invalsi sono correlati a
quelli dei test Ocse-Pisa. Queste evidenze costituiscono ulteriori
motivi a sostegno di un atteggiamento prudente nell’interpretazione
e nell’uso dei risultati individuali dei test scolastici.
È importante sottolineare che tanto
i punteggi nei test sulle competenze, quanto quelli sul QI, sono
fortemente influenzati dalla condizione socioeconomica delle famiglie
e dalle caratteristiche del contesto sociale e territoriale da cui
provengono gli studenti [3-5]. Gli studenti provenienti da famiglie o
da contesti svantaggiati hanno, mediamente, punteggi inferiori a
quelli che, invece, sono più avvantaggiati sotto il profilo
socioeconomico. Fattori sociali ed economici spiegano, poi, le
differenze medie nei risultati nei test che si osservano tra
quartieri ricchi e poveri delle stesse città o tra territori.
In Italia, nelle regioni
meridionali, in cui i redditi sono più bassi e l’incidenza della
povertà è maggiore, i punteggi medi degli studenti sono
significativamente inferiori a quelli delle regioni economicamente
più sviluppate [6]. In breve, i risultati nei test sulle competenze,
come quelli Invalsi, riflettono il grado di disuguaglianza
socioeconomica tra individui, gruppi e territori. Perché, dunque,
riportarli nel curriculum dello studente?
Usi e abusi dei
test
In conclusione, riteniamo utile
interrogarsi sull’utilità dei test scolastici che in Italia, come
in altri paesi, si sono affermati sulla base di motivazioni
improntate a principi economici e competitivi, la cui validità è
messa in discussione da diversi studiosi [7]. L’uso eccessivo o
improprio di questi strumenti di misura non è esente da rischi.
Uno dei rischi da scongiurare è che
i risultati ottenuti nei test – risultati che, è bene ricordarlo,
possono variare nel tempo – possano essere usati per «incasellare»
gli studenti, indirizzandone irrimediabilmente il successivo percorso
scolastico o professionale. Da strumento per misurare e contrastare
le disuguaglianze, i test sulle competenze diventerebbero, così, un
elemento che contribuisce a perpetuare le disuguaglianze stesse. Non
è un caso che il paese in cui tradizionalmente si fa più largo uso
(e abuso) dei test, gli Stati Uniti, sia anche tra quelli con
disuguaglianze socioeconomiche particolarmente elevate. La tendenza
ad applicare acriticamente modelli e approcci che in altri paesi
hanno già dimostrato rilevanti limiti, e il cui utilizzo può
produrre guasti sociali, andrebbe evitata.
Riferimenti
[1] Borghans L., Golsteyn B.H.,
Heckman J.J., Humphries J.E. (2016), What grades and achievement
tests measure. Proceedings of the National Academy of Sciences of the
United States of America, 113(47), 13354-13359.
[2] Rindermann H. (2007), The
g-factor of international cognitive ability comparisons: the
homogeneity of results in PISA, TIMSS, PIRLS and IQ-tests across
nations, European Journal of Personality, 21(5),
667–706.
[3]von Stumm S., Plomin R. (2015),
Socioeconomic status and the growth of intelligence from infancy
through adolescence, Intelligence, 48, 30-36.
[4] Thomson, S. Achievement at
school and socioeconomic background—an educational perspective
(2018), Npj Science of Learning, 3:5.
[5] Nieuwenhuis J., Hooimeijer P.
(2016), The association between neighbourhoods and educational
achievement, a systematic review and meta-analysis, Journal
of Housing and the Built Environment 31, 321–347.
[6] Daniele V. (2021), Socioeconomic
inequality and regional disparities in educational achievement: The
role of relative poverty, Intelligence, 84, 101515,
[7] Berliner D.C. (2020), The
implications of understanding that PISA is simply another
standardized achievement test, in: G. Fan, T. S. Popkewitz
(eds), Handbook of Education Policy Studies, Springer,
Singapore.