Il Primo Maggio non sarà la giornata di inaugurazione di un Grande Evento.
Attraverso la mistificazione delle idee di ecologia e di sostenibilità e dell’importanza di un’alimentazione sana, Expo si tinge di verde, con la green economy e il greenwashing, per mascherare l’ipocrisia di un approccio al tema tutto interno al modello economico neoliberista, in continuità con esso nel promuovere le politiche legate agli investimenti di multinazionali dell’alimentazione, del biologico a spot e dell’agricoltura intensiva ed industriale. Un evento, a sentire la propaganda, così dedito alla natura e all’ecologia che dovrebbe favorire i piccoli contadini ed un rapporto diretto con la terra, che si basi sull’acquisto solidale, la vendita diretta, il chilometro zero, la diffusione del biologico all’intera popolazione, in definitiva l’accesso per tutti al cibo.
Tuttavia, basta un’occhiata a sponsor e aziende partner di Expo per comprendere l’ipocrisia dei discorsi ufficiali. La partecipazione delle principali multinazionali dell’industria alimentare (basti pensare a McDonald’s) e della grande distribuzione; l’investimento sull’evento da parte di colossi dell’agroindustria che detengono il monopolio sulla mercificazione delle sementi e la gestione di quelle geneticamente modificate (e che moltiplicano in questo modo rapporti di dipendenza dei paesi economicamente più indigenti verso quelli più ricchi); il supporto alle politiche di sfruttamento intensivo dei terreni e il sostegno ad un’agricoltura di tipo industriale, che segue le regole del mercato schiacciando l’attività agricola rurale, sono tutti elementi che raccontano un modello che nulla ha a che fare con il “ritorno alla terra”. Un concetto, sia chiaro, emerso in funzione della cattura, all’interno della ragnatela di Expo, dei soggetti socialmente attivi sul tema, attirati da un immaginario, frutto di una banalizzazione e d’un appiattimento, utile più a vendere un prodotto che a risolvere problemi o presentare alternative.
Coca-Cola, McDonald’s, Nestlé, Eni, Enel, Pioneer-Dupont, Selex-Es, e altre aziende sponsor dei padiglioni nazionali, rappresentano alcune delle aziende responsabili dell’inquinamento di terre e mari, di deforestazioni, di nocività e morti sul lavoro, di allevamenti come campi di concentramento, di armi da guerra e di nuove tecnologie di controllo utilizzate sia in ambito militare che civile, non certo modelli da imitare. Allo stesso modo la presenza di stati come Israele o di altri regimi dittatoriali, per quanto occultata dietro la retorica del cibo strappato al deserto o altre amenità, non può far scordare le politiche genocide o autoritarie di certi Paesi. Ricordiamo che Israele coltiva sì nel deserto, ma grazie all’acqua rubata al popolo palestinese.
E la propaganda di Expo non può nascondere le reali conseguenze di questo grande evento: enormi colate cemento sui campi agricoli inglobati dalle aree espositive col contentino di seminare qualche mq in città, decine di chilometri di nuovi percorsi autostradali su aree agricole o parchi, con il taglio di migliaia di piante e la distruzione di habitat, opere tanto edonistiche quanto nocive per l’ambiente e inutili per la società.
È evidente quanto il modello Expo sia lontano dal concetto di sovranità alimentare, visto il supermarket del futuro proposto da Coop e M.I.T. e basato sul “consumatore integrato”, cioè un individuo con un conto corrente e la disponibilità di tecnologia di ultima generazione per poter scegliere il cibo, informarsi sull’intera filiera produttiva e riceverlo a casa con i droni. Da buon magnate democratico Expo ha pensato anche a chi non potrà permettersi questo prospero futuro e ha aperto i suoi spazi a McDonald’s, probabilmente il colosso alimentare più cancerogeno e schiavista al mondo.
La formula “benessere animale”, recuperata della propaganda Expo e ripetuta come un mantra dai suoi partners alimentari, è un mal celato tentativo linguistico di edulcorare i drammatici processi dell’allevamento. Sappiamo bene che è un concetto inventato per rendere più accettabile la catena di smontaggio da individui a cibo, in modo da confortare i consumatori, oggi apparentemente consapevoli e attenti all’intero processo dell’alimentazione. Riteniamo che non è importante quanto gli animali da reddito vivano bene, come crede di insegnare Slow Food, ma è importante che ognuno di loro possa autodeterminare la propria esistenza e il proprio habitat e lo si sganci dal considerarlo come merce produttiva all’interno di un modello alimentare antropocentrico.
Expo si fa quindi laboratorio di sperimentazione di nuove politiche sul lavoro che hanno, da una parte lo scopo di anticipare le legislazioni che riguarderanno tutto il paese, e che in gran parte il Jobs Act ha già realizzato, dall’altra quello di garantire un evento in cui la redistribuzione della ricchezza è assente o riservata solo a chi sta in cima alla piramide. Attraverso deroghe al patto di stabilità e accordi con i sindacati confederali, viene sancito, con Expo, lo stravolgimento del lavoro a tempo determinato. Permettendone la somministrazione incontrollata e il rinnovo del 100% del personale utilizzabile tra un contratto e l’altro, si abbassa la percentuale di assunzione dopo il periodo di apprendistato, si determinano condizioni di stage che poco hanno a che fare con l’ambito formativo e che invece riguardano direttamente lo sfruttamento lavorativo.
Ciliegina sulla torta di Expo è l’esercito di volontari ottenuto grazie ai suddetti accordi che permettono ad aziende e datori di lavoro di servirsi del lavoro gratuito. All’inizio 18500 persone solo sul sito, poi fermi a 7000 per carenza di candidature, poi cifre di cui diventa difficile comprendere il fondamento. Quel che è certo è che i volontari saranno la tipologia prevalente di manodopera per Expo. È la ramificazione nella ramificazione: per Expo si cercano lavoratori disoccupati da inserire nei processi di perenne occupabilità, per Expo lavoreranno gratuitamente i Neet e gli studenti medi e universitari, cui vengono imposti progetti e lavori con il ricatto del voto finale, della maturità, della promozione o del “fare curriculum”.
Con Expo viene quindi esplicitato l’obiettivo delle politiche lavorative delle ultime due decadi: da lavoratori a tempo indeterminato si è costretti ad accettare qualsiasi forma di tempo determinato; politiche che hanno portato a una crescente precarietà culminante, ora, nello sfruttamento tout court. Con Expo continua l’economia della speranza rivolta al lavoro, per cui la condizione di sognare un futuro prima o poi stabile parte già dal mondo della formazione e si materializza nel tempo sempre più come un miraggio irraggiungibile, mentre si alimenta il sistema di liberalizzazione del mercato del lavoro attraverso l’impiego di agenzie interinali come Manpower, macchine di precarizzazione che agiscono sui territori da tempo. Una speranza che, in fondo al percorso, diviene ricatto e minaccia d’esclusione sociale, agito per rimpolpare un esercito di riserva mai così numeroso.
Non contento di aver fagocitato senza particolari resistenze questa fetta di mondo associativo e di società civile, che si dice attenta alle “compatibilità”, Expo rilancia con il tentativo di creare una piattaforma sensibile alle questioni di genere. In un primo momento il carattere “gay friendly” di Expo, con la volontà di creare una gay street in via Sammartini e di presentare uno scenario attento al mondo della diversità di genere, ha fatto ben sperare tutto quel giro di locali e affini che speculano sulle identità, e tutti i sinceri democratici che han creduto in un’apertura sociale del grande evento. Ma le carte in tavola si sono scoperte velocemente: la denuncia del processo di ghettizzazione alla base della creazione di luoghi “per gay” e il patrocinio di Expo ad un evento omofobo nel gennaio 2015, hanno svelato la vera natura di Expo rispetto alle questioni di genere e l’uso strumentale delle stesse. Tale natura viene confermata anche dalla creazione di un portale “Women for Expo” che diffonde una rappresentazione della donna come nutrice, cuoca e madre, parametri funzionali alla conferma di immaginari che vedono la donna relegata ad un unico ruolo e subalterna ai meccanismi di governo della società e dei territori.
Il rifiuto di questo modello e il suo superamento nella propulsione di altre logiche sta alla base dei nostri ragionamenti e porta la rete dell’Attitudine NoExpo a individuare le seguenti priorità:
• Fermare l’estrazione di risorse e lo smantellamento dei servizi e dello stato sociale per promuovere la tutela del bene comune e del bene pubblico.
• Riaffermare la sostenibilità della vita attraverso l’abbattimento della precarietà, l’attenzione all’utilità del lavoro e alla sua retribuzione. Combattere la precarietà come dato acquisito e destinare, ad esempio, le risorse finanziarie dedicate a questi eventi ai settori lavorativi messi in ginocchio dalle nuove legislazioni.
• Trovare nella lotta ad Expo la possibilità di un fronte sociale comune, bloccando immediatamente la logica del lavoro gratuito in favore di quella del reddito garantito.
• Promuovere la cura dell’educazione e della formazione che devono tornare a focalizzarsi sullo scambio di saperi e non sulla compravendita di energie da impiegare nel mercato seguendo bisogni determinati unicamente da logiche di consumo. Ripartire dalla scuola, contestando con forza tutte le forme di aziendalizzazione della formazione pubblica e i meccanismi di falsa meritocrazia che sviliscono la qualità dell’insegnamento trasformato in una competizione senza fine.
• Ripartire dal sostegno ai piccoli agricoltori e al biologico per tutti e non solo per la ricca élite che si può permettere Eataly.
• Ripensare ad un rapporto equiparato tra le specie che popolano terre, acque, cielo, in prospettiva del superamento della prevaricazione di una popolazione sull’altra e della specie umana su tutte le altre.
• Affermare immaginari che ribaltino quelli di una società machista, maschilista e patriarcale, che svelino la ricchezza e la pluralità dei generi oltre il binarismo della categorizzazione imposta.
• Tutelare il diritto alla città, salvaguardando in primo luogo i parchi di Trenno e delle Cave che potrebbero subire, a causa di Expo, trasformazioni strutturali che porterebbero alla parziale distruzione di uno dei polmoni più importanti di Milano e metterebbero a repentaglio la vivibilità della zona.
• Riappropriarsi della città, della memoria dei sui luoghi, della ricchezza dei suoi parchi, della possibilità di vivere liberamente il territorio urbano.
• Il carattere estemporaneo di Expo rivela la necessità di una battaglia che non si esaurisce né inizia con il primo maggio, il primo maggio viene assunto come momento centrale di un percorso che si è articolato prima e si articolerà dopo la chiusura del megaevento.
Il superamento di Expo è una scommessa, e in questi sei mesi vogliamo creare un’agenda politica che ci permetta di intrecciare le lotte territoriali, nazionali e internazionali e sviluppare quelle connessioni tangibili, che non si esauriranno in una manciata d’ore nei giorni della “grande” inaugurazione, e che sono condizione necessaria per dare gambe e respiro a una lunga stagione di lotta
La sfida lanciata da Renzi, quella di non rovinare la festa alla vetrina di Expo, è una scommessa che raccogliamo e rilanciamo, e che ci chiama all’azione il Primo Maggio. Ci andremo, ma con lo sguardo volto oltre la data.
Expo fa male, facciamo male a Expo. Il Primo Maggio comincia la nostra festa.
See you at the party!