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La scuola del futuro? Un progetto già vecchio. Alle origini del PNRR

 The School of the Future? An already old project. At the origins of the Nrp

di Giovanni Carosotti



Premessa

Uno dei tanti meriti dello studio di Gert Biesta1, recentemente tradotto in Italia, è stato quello di avere fatto chiarezza sull’uso strumentale e ideologico delle espressioni di «innovatore» e «conservatore», relativamente alle scelte metodologico-didattiche sostenute dalle politiche di riforma della scuola in Occidente negli ultimi due decenni. Il principale riferimento per legittimare la nuova politica scolastica, considerato in sé una garanzia di innovazione, è senz’altro la tecnologia digitale; l’inevitabilità di un suo utilizzo sempre più invasivo (con le implicite e indubbie comodità che esso arreca a diverse pratiche), nonché la dimestichezza (sia pure solo superficiale e in molti casi orientata comunque a una logica di consumo) delle giovani generazioni con tali tecnologie, fanno sì che la digitalizzazione integrale si presenti come un’evoluzione scontata del modo di realizzare il processo formativo. E portino a considerare come «conservatrice» qualsiasi posizione che esprima dubbi rispetto a questa onni-pervasività.

È interessante analizzare con una certa profondità l’argomentazione che fa da supporto a tale pretesa. Essa non vuole porre l’orizzonte digitale in relazione a un progresso di carattere tecnologico, per quanto incomparabilmente superiore dal punto di vista qualitativo a quelli precedenti. Sotto certi aspetti, gli strumenti informatici (ovviamente il software e non l’hardware) non vengono considerati neanche un prodotto dell’evoluzione tecnologica, proprio per evitare che li si possa relegare a una funzione puramente strumentale, sia pure estremamente raffinata; rispetto alla quale la soggettività mantiene un decisivo controllo sui processi decisionali, e quindi cognitivi. Risulta evidente che, se il digitale venisse concepito nell’orizzonte della strumentalità, esso si rivelerebbe un mezzo sicuramente efficiente, in coerenza con gli obiettivi di chi lo intende utilizzare; nel caso della pratica d’insegnamento, come facilitatore di alcuni processi quali la consultazione di dati e fonti, la comunicazione secondo modalità diversificate di alcune informazioni, con maggiore precisione e rapidità, e così via.

Da alcuni anni, invece, si afferma con sicurezza, e in modo particolarmente radicale nel recente Pnrr, che la digitalizzazione rappresenta un nuovo modello cognitivo, destinato a ripensare totalmente metodologie e finalità dell’azione docente. Conviene provare allora a seguire l’imporsi di questa convinzione intellettuale in parallelo con il processo storico riformatore, che ha portato a trasfigurare la scuola italiana; un processo storico di poco meno di trent’anni, che ha inizio con l’entrata in vigore della Legge sull’autonomia scolastica e con la pubblicazione dei principali documenti fondativi relativi all’istruzione dell’Unione europea2. Un periodo relativamente breve, ma di cui è già possibile proporre un bilancio storico; non tanto per seguire in modo nozionistico il succedersi dei singoli provvedimenti, ma per valutare come già più di due decenni fa ci si era prefissi quanto il Pnrr (che, da questo punto di vista rappresenta tutt’altro che una novità) intende realizzare in modo definitivo. La subordinazione della scuola a logiche economiche di valorizzazione del valore, sfruttando come fonte di ulteriore legittimazione il principio della digitalizzazione integrale.

1. Il passaggio di secolo: dai videogames alle prime classi virtuali

A dire il vero, l’idea che le nuove tecnologie potessero costituire una sorta di grimaldello per forzare la trasformazione della scuola secondo logiche estranee alla consapevolezza di buona parte degli insegnanti, era presente già nelle teorizzazioni degli anni Novanta. Per rendere convincente la nuova immagine della scuola, bisognava innanzitutto far credere a un’opinione pubblica non esperta che essa avrebbe prodotto un deciso progresso dei processi di apprendimento nei giovani, capace di meglio assicurare una loro affermazione in ambito lavorativo, una volta compiuto il percorso scolastico. Una motivazione che faceva indubbia presa, in particolare a causa della sempre più persistente crisi economica e alla crescente disoccupazione giovanile, stante la preoccupazione di molte famiglie sull’estensione di lavori precari, a basso salario, cui sembravano destinati i loro figli. È stata così avviata un’azione di condizionamento antropologico decisamente più stringente che, dopo più di due decenni, ha sicuramente iniziato a produrre i risultati sperati da chi quella strategia l’aveva concepita. Ovvero far sì che l’obiettivo primo della scuola sia proprio orientare la personalità discente verso un modello antropologico corrispondente all’homo oeconomicus, che individui i valori più desiderabili dell’esistenza nella massima produttività e che indentifichi la realizzazione di sé con la possibilità di consumo. Riferimento antropologico\valoriale per eccellenza diventa così la figura dell’imprenditore, colui cioè che è capace di mettere a valore le proprie doti; non a caso, l’educazione all’imprenditorialità3, così come il concetto di capitale umano4è uno dei pilastri della nuova teoria pedagogica. Come corollario, l’impresa diventa il modello ideale di comunità, che valorizza il lavoro associato ma nello stesso tempo eterodiretto e fortemente competitivo. Una visione del mondo (non solo della formazione) che restringe il campo di ciò che vale la pena apprendere a ciò che utile, immediatamente spendibile sul piano pratico, in grado di produrre vantaggi materiali, quasi sempre di tipo stipendiale; e che nulla ha a che spartire con le principali finalità dell’azione formativa, nonché estranea ai processi di carattere spirituale che la dimensione educativa inevitabilmente implica.

Questa azione di condizionamento, per essere condotta con successo, trovava un utile supporto in quelle possibilità già allora prospettate dalla tecnologia digitale. Non ancora la rete, ma quelle realtà tecnologiche (creazione di CD, videogiochi) le quali, viste con gli occhi di oggi, sembrano quasi risalire a un’epoca preistorica. Ricordare quel primo tentativo risulta interessante; venne allora inaugurata quella strategia retorica, di dubbia correttezza deontologica, che faceva surrettiziamente riferimento all’esperienza ludica; contraddicendo tutte le analisi preoccupate di chi valutava l’abuso del tempo di vita passato dagli adolescenti davanti ai videogiochi, responsabili anche di regressi sul piano cognitivo (in particolare la mancanza di concentrazione), si pontificava sui notevoli vantaggi per l’apprendimento, con affermazioni irresponsabili, che volevano però presentarsi come provocatorie e progressiste5. Si tratta anche in questo caso di una strategia comunicativa efficace, in grado di sedurre gli alunni perché istituisce un’identità tra attività di studio e attività ludica, promettendo di acquisire un sapere utile a conseguire soddisfazioni di carattere materiale senza sforzo. L’aspetto interessante è che tali capacità sarebbero poi assunte in modo indiretto; si conduce un’attività piacevole, si crede in qualche modo di giocare, ma in realtà si apprendono inconsapevolmente modalità di azione richieste per lo più in ambito lavorativo. La centralità delle competenze rispetto alle conoscenze sta proprio in questo; si deve conoscere, con il minor sforzo possibile e in uno stato di ipotetica piacevolezza, solo ciò che serve a porci, sul piano dell’azione, nella capacità di rispondere efficacemente a richieste che ci provengono dal mondo esterno, quasi tutte da ambiti economici. Il criterio dei contenuti da selezionare fa allora quasi esclusivo riferimento a future richieste di prestazione6. Si tratta di una volta storica: il possesso di contenuti di cultura, sia di area umanistica come scientifica, con tutto ciò che essi permettono di conseguire sul piano della formazione di un sapere critico, non sono più identificati con un reale processo di emancipazione, il quale ha senso solo se il soggetto che si emancipa è in grado, in virtù di quanto acquisito, di porre in essere progetti di trasformazione, sulla base di critiche razionali concepite nei confronti del proprio presente. L’emancipazione per i riformatori sta invece nel rispondere in modo efficiente alle richieste di un sistema che non può essere messo in discussione; che, riprodotto all’interno della scuola nella sua struttura organizzativa e nel suo universo valoriale-competitivo, viene esse stesso presentato come legittimo e intrasformabile. Di conseguenza, i contenuti di cultura possono essere conosciuti solo se inseriti in una struttura comunicativa (p.es. l’Unità didattica di apprendimento) che ne circoscriva i contenuti, o meglio li diriga verso obiettivi prefissati, che non rendono di fatto possibile un’interpretazione pluralistica (in quanto subordinati all’acquisizione di abilità pratiche), e quindi impedendo un uso critico della propria intelligenza.

2. Il salto di qualità con la “Buona scuola”: i Piani nazionali della Scuola digitale

Fino al 2015, anno in cui viene approvata la legge 107, più nota come Buona scuola, la pervasività del digitale nella vita quotidiana aveva subito un vistoso salto di qualità. In virtù di questa evoluzione, quella legge poteva finalmente imporre il principio per cui l’utilizzo di tali possibilità in ambito didattico non fosse sufficiente se, contemporaneamente, non si procedeva a un cambio del paradigma educativo. Per comprendere il valore strumentale di questo riferimento, sarà bene avere presente la funzione storica che la legge 107 si assumeva e che oggi, a più di sette anni di distanza, è possibile delineare con più precisione. La Buona scuola ha rappresentato un formidabile dispositivo che intendeva presentarsi come un piano di assoluta innovazione e rivoluzione della vita scolastica, attraverso l’uso populista di slogan di estrema semplificazione, ma capaci di imprimersi nell’immaginario dell’opinione pubblica; in realtà, essa non faceva altro – approfittando di una fase storica in cui l’esecutivo si è trovato a esercitare una capacità di azione priva di opposizioni con pochi precedenti nella storia della Repubblica – che imporre sul piano normativo in modo definitivo quella svolta regressiva inauguratasi con l’introduzione dell’autonomia scolastica e con le scelte politiche introdotte dal ministro Berlinguer. Sul piano dei contenuti non vi era alcuna novità, se non una sistematizzazione organica di varie esperienze di discutibili sperimentazioni, introdotte in modo più o meno saltuario nel corso dei ministeri precedenti, e che ora diventavano principio direttivo e coattivo, verso il quale piegare l’attività degli insegnanti.

Un proposito che non si è avverato, per un doppio ordine di motivi: l’opposizione ancora massiccia e consapevole degli insegnanti, che prima dell’approvazione della legge reagirono con una straordinaria mobilitazione che coinvolse l’80 per cento della categoria, e che ancora negli anni successivi fece resistenza all’introduzione coatta di novità metodologiche della cui inconsistenza formativa si aveva piena coscienza; dall’altra, per l’impraticabilità effettiva di certe idee di didattica concepite secondo una logica di totale astrazione, per lo più derivate da un’impostazione cognitivista, che non reggevano a una effettiva traduzione sul piano empirico.

Alla fine di quello stesso anno il MIUR pubblicò un documento intitolato “Piano nazionale Scuola digitale”7, che per la prima volta in modo sistematico intendeva sostenere come il digitale rappresentasse non solo un valido supporto per una variazione significativa della comunicazione didattica, bensì esso stesso un modello cognitivo e di apprendimento sul quale «sintonizzare» le menti sia degli allievi sia dei docenti. Conviene forse ricordare che la legge 107 si proponeva tre obiettivi principali (a nostro parere regressivi), tutti in qualche modo finalizzati a rendere prioritaria la dimensione digitale quale paradigma di conoscenza: bisognava potenziare, all’interno del processo formativo, tre particolari ambiti: quello linguistico, il pensiero computazionale e la dimensione della digitalità. Tali obiettivi formativi non dovevano essere declinati in riferimento alle diverse discipline, bensì porsi come una nuova tecnica di trasmissione del sapere, che diventava essa stessa il vero obiettivo della comunicazione didattica, a scapito dei contenuti studiati, ridotti a puro pretesto per l’acquisizione di tali competenze. Attraverso un procedere argomentativo tanto vago quanto superficiale, si pretendeva – senza corroborare in alcun modo tale affermazione – di introdurre una didattica finalmente «aperta» e «inclusiva», grazie proprio alla dimensione digitale, che avrebbe permesso, secondo questa concezione, di «sviluppare competenze attraverso la pratica e, contemporaneamente, produrre soluzioni di impatto», qualunque cosa questa terminologia volesse significare. Con espressioni sempre più criptiche ed autoreferenziali, il documento aveva l’ambizione di coinvolgere anche valutazioni di ordine etico, quando definiva un nuovo modello di conoscenza, con un linguaggio quasi da science fiction:

è «alfabeto» del nostro tempo una nuova sintassi, tra pensiero logico e creativo, che forma il linguaggio che parliamo con sempre più frequenza nel nostro tempo; è, infine, ad un livello più alto, agente attivo dei grandi cambiamenti sociali, economici e comportamentali, di economia, diritto e architettura dell’informazione, e che si traduce in competenze di cittadinanza digitale essenziali per affrontare il nostro tempo8.

Non è difficile capire, dietro tale esprimersi esoterico, che dalla pratica formativa venivano lasciate fuori procedure essenziali, irriducibili alla logica del puro calcolo. Paradossalmente, è proprio nell’ambito dell’istruzione tecnica che tale approccio dimostra non solo la propria insufficienza, ma anche la propria natura ideologica. Se infatti tale indirizzo di studi viene finalizzato esclusivamente alla soluzione di problemi operativi, magari legati alle attività produttiva più diffuse nel territorio in cui l’Istituto è collocato, si rischia di vincolare il sapere dell’alunno a pratiche che potrebbero diventare obsolete nel giro di qualche anno. Oltre al fatto – e qui sta l’aspetto ideologico – che non lo si rende cosciente dei criteri dell’organizzazione d’impresa, mantenendolo in una condizione sia pratica sia intellettuale subordinata, incapace di formarsi una coscienza civile e politica del senso del proprio lavoro e della possibilità di avanzare rivendicazioni per migliorarne le condizioni9. Ma la grande novità del documento, in realtà preceduta da altre affermazioni simili nel testo di legge, stava nel fatto che tale azione sulla soggettività dell’alunno veniva estesa anche alla classe docente, attraverso un’operazione retorica di dubbio effetto. Gli estensori del documento – molti dei quali dovrebbero a nostro parere dimostrare le ragioni per cui si arrogano del titolo di esperti di scuola e di didattica, nonché di processi cognitivi – spacciavano quella prosa evasiva e supponente di cui abbiamo offerto qualche esempio come prova del loro essere competenti, annunciatori di una nuova fase della scienza pedagogica in cui è stato validato scientificamente un procedere metodologico che, se attuato, è in grado di raggiungere i risultati attesi, ovviamente sempre formulati nei termini di «competenza». Gli insegnanti, allora, risultavano formati su criteri ormai obsoleti, liquidati proprio da questo progresso sul piano cognitivo, e avrebbero avuto l’obbligo deontologico di aggiornarsi, accettando di perdere la loro autonomia decisionale, e seguendo più o meno pedissequamente le procedure indicategli da chi era più esperto di loro.

3. Venti mesi dopo

Questo primo documento non deve avere avuto particolare successo, se venti mesi dopo ne è stato licenziato un altro, dal titolo Ecco la nuova vita del Piano Scuola digitale10. Dopo avere presentato un piano d’investimenti tanto ambizioso quanto destinato a non poter essere attuato, la seconda parte giungeva ad affermare come la condizione per rendere produttivo l’investimento era che i docenti utilizzassero questo patrimonio secondo ben precisi criteri metodologici fondati dall’assunto, sopra già ricordato, che la dimensione digitale rappresenta una forma d’apprendimento superiore, su cui modellare il percorso didattico, facendo aderire a essa sia la personalità intellettuale del discente come quella del docente. Si tratta di «invertire la narrativa» Detto più esplicitamente: la musica deve cambiare e l’innovazione deve entrare in ogni classe, deve essere il kernel della nuova scuola, attraverso una serie di azioni sistemiche («formazione di qualità», studio di metodologie «concretamente applicabili in ogni classe», «piattaforma degli innovatori») che permetterebbero addirittura di «dare struttura permanente, scientificamente validata alla frontiera dell’innovazione». Grida vendetta l’ingiustificato richiamo alla «validazione scientifica», strategia retorica per far credere che le intenzioni metodologico-didattiche siano in qualche modo confermate da verifiche empirico-sperimentali, in realtà mai attuate, ma dedotte dogmaticamente – e con inferenze spesso dubbie – da teorie psicologiche di origine cognitivista che non godono affatto del consenso dell’intera comunità degli studiosi. Risulta evidente come una simile retorica abbia l’obiettivo di rifiutare a priori qualsiasi confronto critico, delegittimato di per sé quale mera opinione rispetto a teorie scientifiche di ben diverso spessore epistemologico; una pretesa assolutamente ingiustificata, ma che può contare su un’accondiscendenza politica, in quanto trova spazio e legittimazione sugli organi più influenti della stampa generalista, e presso le associazioni che si occupano di scuola (Anp, Fa), e che non permettono a un serio confronto scientifico di avere luogo.

4. Dalla «società della conoscenza» al Pnrr

Nell’attuale fase della politica scolastica, rappresentata al meglio dal Pnrr, la spinta verso l’integrale digitalizzazione del processo formativo trova base teorica in quell’espressione nota come società della conoscenza, società dove la stessa strumentazione (che non sarebbe più opportuno denominare in questo modo) tecnologica produce sapere, indipendentemente dalla stessa intelligenza umana, secondo modalità, se non superiori, quanto meno con maggiore rapidità. La società della conoscenza si fonda sulla «diffusione gigantesca delle macchine informatiche» e sulla loro «capacità enorme di processare», resa ormai esterna e indipendente dalla mente umana. Processo che «concluderebbe […] una dimensione antropologica del conoscere, fondata sulla centralità della mente umana, per inaugurare un tipo di sapere che dipenderà sempre più da dispositivi automatici»11. Risulta chiaro come una simile convinzione vada a rafforzare quell’obiettivo politico formulato ormai quasi trent’anni fa, ovvero ridurre i processi di apprendimento al rispetto di una procedura che rende superflua la libera decisione del soggetto che insegna. E, come ogni profezia destinata ad autoavverarsi, intende in fondo ribadire e rendere inevitabile quella direzione politica regressiva, che fa riferimento alla didattica per competenze, teorizzata molti anni prima che la rete dominasse in modo così capillare la vita quotidiana di ogni individuo.

A noi sembra evidente di trovarci di fronte a una colossale costruzione ideologica. Ma, se così è, qual è l’obiettivo che essa si pone? Va da sé, da una parte, che da essa non scaturire se non un sapere uniforme, inevitabilmente anti pluralistico (a meno che non si intenda con pluralistico, furbamente, il moltiplicarsi dei problemi settoriali specifici, di una didattica che li affronta singolarmente eludendo il momento della sintesi e dell’universalità); in questo modo essa realizza un potente processo di soggettivazione, che ha come fine impedire l’emancipazione, sul terreno socio-politico, degli intelletti degli alunni. Questo perché tale impostazione non sviluppa quelle capacità in grado di formulare una critica sistemica, per esempio delle regole che presiedono al mercato del lavoro, e che destina buona parte degli attuali alunni a un futuro di precarietà permanente. Sulla base di questi significativi riferimenti, è facile comprendere come non assistiamo affatto a una nuova rivoluzione scientifica e tecnologica, ma a un’azione politica quanto mai cinica, che utilizza imposture intellettuali per far passare una linea coerente con ben determinate intenzioni politiche; le quali si ripromettono un controllo della didattica e un disciplinamento dei docenti, rispetto ai quali il digitale e niente più che una strategia.

Sulla base di tali valutazioni risulta più agevole comprendere l’intentio del Pnrr, per quanto riguarda i provvedimenti relativi alla scuola. Di per sé nulla di nuovo rispetto al precedente della legge 107: anche in questo caso, infatti, l’obiettivo è di approfittare di una condizione di emergenza per condurre a definitivo compimento quell’idea di scuola ormai datata, e i cui esiti fallimentari sono ormai evidenti, nonostante il silenzio della stampa più compiacente. Peraltro, nei diversi documenti che illustrano tali interventi, è utilizzata la stessa strategia retorica, che spaccia come un processo d’innovazione e di modernizzazione, ormai irrinunciabile proprio per la sua evidenza scientifica, la riproposizione di quanto teorizzato negli ultimi venticinque anni. Il Pnrr si propone12, attraverso un flusso di finanziamenti eccezionali giunti a ogni singolo istituto, di rinnovare radicalmente gli spazi di apprendimento, rendendoli, secondo un lessico che abbiamo imparato a conoscere, più «innovativi». Ma, al di là di un rinnovamento del materiale informatico certo auspicabile – ma che, viste le dimensionalità della scuola, non potrà più di tanto essere decisivo; e comunque anch’esso destinato a una veloce obsolescenza nel giro di pochi anni – le scuole sono costrette a fare proprie una serie di condizionalità che vanno a pregiudicare anche le metodologie didattiche con cui s’intendono impiegare le nuove risorse informatiche. Al di là del fatto che alcune di queste metodologie è dubbio che possano dare il meglio di sé attraverso la comunicazione digitale13, risulta problematico tale consenso preventivo con la sostanza dell’articolo 33 della Costituzione. Tant’è che in molti Collegi dei Docenti il progetto è stato approvato, facendo aggiungere al verbale precisazioni sul fatto che la decisione in merito alle metodologie didattiche spetta in modo sovrano ai docenti. Sicuramente una contrapposizione che, se portata all’estremo, dovrà dare luogo a contenziosi anche sul piano giuridico.

Poiché nel dettaglio non c’è nulla di diverso rispetto alle «buone» pratiche già suggerite decenni fa, il Pnrr sembra voler portare a più efficiente compimento quel progetto di soggettivazione cui abbiamo fatto riferimento. Esso dovrebbe attuarsi in due fasi: da una parte, attraverso la riduzione del sapere a pratica, misconoscendone l’impostazione teorica, e impedendo l’accesso dello studente a un reale sapere interpretativo, in grado di porlo in condizioni di effettuare un’eventuale critica di carattere universalistico, cioè sistemico; dall’altra facendo proprio l’universo edonistico-consumistico del mercato, il cui bagaglio simbolico è particolarmente diffuso tra le giovani generazioni, per convincere che lo stesso rappresenta la migliore qualità dell’esistenza, e per confortare un atteggiamento di rifiuto pregiudiziale verso forme di studio e di accostamento alla cultura ritenute ormai da archiviare.

Una scuola democratica, pluralista, aderente ai valori autentici di una cultura progressista non può che rifiutare una tale impostazione e combattere tale processo.


Note

1 Gert J.J. Biesta, Riscoprire l’insegnamento, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2022.

2 Cfr. legge n. 59/97 e D.P.R. n. 275/99. Per quanto riguarda i documenti europei, cfr. il rapporto pubblicato nel 1996 dalla commissione dell’UNESCO coordinata da Jacques Delors, di cui il rapporto porta il nome; nonché il Processo di Bologna, documento approvato da 29 ministri dell’istruzione europei a Bologna nel giugno 1999 e il documento (Strategia di Lisbona) approvato a Lisbona nel marzo 2000.

3 Cfr. Il Sillabo per l’Educazione all’Imprenditorialità nella Scuola superiore, sul portale del MIUR, https://www.miur.gov.it/-/pubblicato-il-sillabo-per-l-educazione-all-imprenditorialita-nella-scuola-secondaria- , ultima consultazione: 28 dicembre 2022.

4 Cfr. Roberto Ciccarelli, Capitale disumano. La vita in alternanza scuola-lavoro, Roma, ed. Il Manifesto, 2018.

5 Cfr. Roberto Maragliano, «Lei preferisce che un pilota d’aereo abbia fatto videogiochi o che abbia letto la Divina Commedia?», in “l’Unità”, 5 febbraio 1997.

6 A sottolineare il primo aspetto, nei documenti di presentazione del progetto “Futura Scuola 4.0” previsto dal Pnrr, si legge: «I docenti come professionisti creativi del processo di apprendimento possono favorire la motivazione e l’impegno attivo delle studentesse e degli studenti, utilizzando modelli educativi progettati a misura della loro inclinazione naturale verso il gioco, la creatività, la collaborazione e la ricerca». Poco più avanti, per quanto riguarda l’aspetto economico: «I Next Generation Labs possono rappresentare una grande opportunità per ampliare l’offerta formativa della scuola, adeguando e innovando i profili di uscita alle nuove professioni ad alto uso di tecnologia digitale».

7 Cfr. portale del MIUR: https://www.miur.gov.it/scuola-digitale, ultima consultazione: 28 dicembre 2022.

8 Ivi, p. 73.

9 Cfr. Giovanni Carosotti, Rossella Latempa, Riforma PNRR Tecnici e Professionali: Impresa, INVALSI, Competenze, in ROARS, https://www.roars.it/riforma-pnrr-tecnici-e-professionali-impresa-invalsi-competenze/, ultima consultazione: 28 dicembre 2022.

10 Cfr. MIUR: https://www.agendadigitale.eu/scuola-digitale/miur-rilancio-e-prossimi-passi-del-piano-scuola-digitale-insieme-al-paese/, ultima consultazione: 28 dicembre 2022.

11 Roberto Finelli, Filosofia e Tecnologia. Una via d’uscita dalla mente digitale, Torino, Rosemberg&Sellier, 2022. p. 15.

12 Facciamo riferimento in particolare al progetto Futura. Scuola 4.0. Cfr. https://pnrr.istruzione.it/wp-content/uploads/2021/12/PNRR.pdf, ultima consultazione: 28 dicembre 2022.

13 Mi permetto di rimandare a un mio intervento: Didattica digitale integrata: quale metodo?, in https://www.casadellacultura.it/1151/didattica-digitale-integrata-quale-metodo-, ultima consultazione: 28 dicembre 2022.





Confini Guido Viale

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Confini

Guido Viale

12 Novembre 2023

Alla radice dei conflitti, in Palestina come in Ucraina, c’è la sacralizzazione dei confini. Anche nella questione climatica e ovviamente nei processi migratori, i confini sono un ostacolo. Il globalismo sembrava averli aboliti, ma solo per far circolare liberamente merci e capitali. Una conseguenza dell’ossessione dei confini, ricorda Guido Viale, è inventare identità che impediscono di interrogarci sul mondo, confrontarci in profondità, agire insieme per riprendere in mano la nostra vita

Secondo un affidabile sondaggio dell’Arab Barometer for Foregn Affairs realizzato il giorno prima dell’atroce e oscena strage perpetrata da Hamas il 7 ottobre, quasi tre quarti dei palestinesi erano favorevoli a un accordo con Israele – dunque, in qualche modo, a riconoscerne in qualche forma l’esistenza – e, se fossero stati chiamati al voto, circa un terzo avrebbe votato forze che si riconoscono nella figura di Marwan Barghouthi, cioè nella volontà di cercare una soluzione comune tra Palestina e Israele; poco più di un quarto avrebbero votato Hamas (ma dopo il 7 ottobre e la strage di Israele a Gaza questa percentuale potrebbe essere esplosa) e meno di un sesto per Al Fatah. Se questi risultati fossero presi anche solo come indizio se ne dovrebbe dedurre che i confini in cui sono stati rinchiusi negli ultimi anni gli abitanti di Gaza e delle residue porzioni del West Bank non ancora occupate dai coloni sono stati per i palestinesi una prigione: definita non solo dai muri e dalla onnipresenza delle forze armate israeliane, ma anche e soprattutto da una gestione “interna al carcere” affidata a una forza minoritaria come Hamas, direttamente e indirettamente favorita e foraggiata dai governi israeliani per vanificare – con pieno successo – la prospettiva dei due Stati; e per “legittimare”, come risposta ai molti attentati, spesso suicidi, e a dei razzi, per molto tempo poco più che “di cartone”, sia i periodici bombardamenti aerei a cui è stata sottoposta la popolazione della Striscia, sia le spedizioni punitive e la frantumazione del loro territorio che hanno devastato la vita quotidiana degli abitanti del West Bank; fino a lasciar prospettare, dopo il 7 ottobre, a di diversi esponenti del governo israeliano, una “soluzione finale” della questione con una nuova Nabka o, addirittura, con una bomba atomica (averla vuole sempre dire poterla usare). D’altronde, è possibile che in quella convivenza forzata con i propri carcerieri “interni” si sia sviluppata in una parte della popolazione palestinese una sorta di “sindrome di Stoccolma” nei confronti di Hamas che l’ha indotta ad appoggiarne di fatto l’operato. Ma che alternative avevano?

In entrambi i casi – Striscia e West Bank – alla radice del conflitto c’è una questione di confini: le guerre ne sono una conseguenza e non la matrice. All’origine di quelle, come di molte altre vicende atroci belliche e non, passate, presenti e purtroppo future, ci sono la sacralizzazione, il culto e l’ossessione dei confini. L’irredentismo islamista di Hamas li vorrebbe estendere “dal fiume al mare”, liquidando la presenza di Israele e forse anche quella di tutti gli ebrei; e lo proclama pubblicamente. Ma la premessa della fondazione di Israele come Stato etnico e non solo come presenza di una comunità di esuli profughi e autoctoni in cerca di sicurezza e di riscatto – “una terra senza popolo per un popolo senza terra” – allude allo stesso obiettivo: senza dichiararlo, ma praticandolo dilazionato nel tempo e nello spazio e, proprio per questo, con molta più efficacia. Israele non ha costituzione né confini definiti: li considera entrambi provvisori, in attesa di un loro compimento… Ma questo è un problema che ritroviamo sempre più spesso anche altrove.

CARTA DOCENTI (PRECARI) – Corte di Cassazione

 

CARTA DOCENTI (PRECARI) – Corte di Cassazione


di sentenza n° 29961 del 27/10/2023

CARTA DOCENTI (PRECARI) – Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, dopo il rinvio pregiudiziale disposto dal Tribunale di Taranto del 24.04.2023 (che ricordiamo ha posto diversi quesiti alla Suprema) si è pronunciata con la sentenza n. 29961 del 27.10.2023. Ricordiamo inoltre che, sulla materia è recentemente intervenuto il legislatore che, con la  Legge 103 del 10 agosto 2023 il cosiddetto Decreto salva infrazioni ha esteso, a partire dal 1° settembre, il bonus di 500 euro per la formazione ai soli supplenti annuali (31 agosto), lasciando esclusi i docenti con contratto al 30 giugno.

La sentenza emessa dalla Corte di Cassazione ha statuito i seguenti principi di diritto:

  1.  La Carta del Docente spetta anche ai titolari di un contratto fino al 30.06.2023; la Corte addirittura specifica come il diritto sussista indipendentemente dalla richiesta che possa aver fatto il lavoratore.
  2. Il diritto alla Carta sussisterebbe a prescindere dall’avere in essere un rapporto di lavoro. Infatti, alcuni tribunali avevano negato il riconoscimento in questione in quanto il docente, al momento della pronuncia della sentenza, non era titolare di un rapporto di lavoro presso la scuola statale. Per la Suprema Corte sarà sufficiente che il docente sia inserito nelle graduatorie al fine di poter ottenere il riconoscimento del diritto al suddetto beneficio.
  3. Il diritto sussiste addirittura per tutto il personale che ha fatto il docente, anche se adesso svolge altra attività. Quindi, per coloro a cui sarebbe spettata l’erogazione della Carta docente, ma che attualmente sia fuori dal sistema scolastico per qualunque ragione, spetta un risarcimento pari al quantum di cui avrebbe avuto diritto se fosse ancora dipendente e dovrà essere ovviamente, accreditata dall’Amministrazione scolastica.
  4. La prescrizione è quinquennale e decorre dalla data del conferimento della nomina; mentre diventa decennale per coloro che non rientrano più nel sistema scolastico (quindi per chi non è più docente o inserito in graduatoria).

Su alcuni aspetti, che alcuni giudici hanno eccepito nel corso delle cause ordinarie, la Corte non si è pronunciata, come ad esempio, se ai docenti che hanno prestato servizio in forza delle cd. “supplenze brevi” spetti o meno il beneficio di cui si discute e ciò in quanto la Corte medesima ha ritenuto non rilevante ai fini della decisione del giudizio rispetto a quanto sollevato dall’ordinanza del Tribunale di Taranto. 

Né la Corte si è espressa sui contratti aventi durata fino al termine delle lezioni, come anche ed infine sui contratti part time. Si deve ritenere, però, che proprio perché la Cassazione non si è pronunciatanon si debba escluderne a priori l’applicazione, tenendo sempre presente le finalità della Carta docente. Pertanto, si deve ritenere che le supplenze brevi possano essere ricomprese nel novero delle casistiche di applicazione del beneficio di cui sopra, in quanto costituiscono, anche se frammentate, un rapporto di lavoro fino al 30 giugno o fino al 31 agosto e siano provate le circostanze in cui la prestazione lavorativa giustifichi per la continuità della stessa, il beneficio introdotto dal legislatore per migliorare l’offerta formativa. Spetterà al legale del ricorrente di provare detta continuità depositando contratto e prove dell’avvenuto servizio senza interruzione.

CHE FARE IN CHIUSURA DELLA SCUOLA O SOSPENSIONE DELLE LEZIONI

 

CHE FARE IN CHIUSURA DELLA SCUOLA O SOSPENSIONE DELLE LEZIONI


di AA.VV.

CHIUSURA DELLA SCUOLA O SOSPENSIONE DELLE LEZIONI
PER MALTEMPO O PER ALTRI EVENTI IMPREVEDIBILI

COSA FANNO STUDENTI E PERSONALE

In occasione di eccezionali eventi atmosferici o per calamità naturali o per altre
ragioni comunque imprevedibili (es. manutenzione straordinaria), prefetti e sindaci possono emettere provvedimenti di chiusura delle scuole o di sola sospensione delle lezioni per garantire la sicurezza o l’incolumità pubblica.
Analizziamo i casi di “chiusura” e di “sospensione delle lezioni” indicando come
devono comportarsi gli studenti e il personale.

CHIUSURA TOTALE DELLA SCUOLA
➢ Gli studenti
In caso di chiusura totale della scuola tutti gli studenti restano a casa. Il Ministero, con circolare del 22 febbraio 2012, ha specificato che
“al verificarsi di eventi imprevedibili e straordinari come un’allerta meteo che inducano i Sindaci ad adottare ordinanze di chiusura delle sedi scolastiche, si deve ritenere che è fatta comunque salva la validità dell’anno scolastico, anche se le cause di forza maggiore, consistenti in eventi non prevedibili e non programmabili, abbiano comportato, in concreto, la discesa dei giorni di lezione al di sotto del limite dei 200, per effetto delle ordinanze sindacali di chiusura delle scuole”.

➢ Personale docente e ATA
• Cosa fa il personale: in caso di chiusura totale della scuola tutto il personale
scolastico non deve recarsi a scuola.
• Come è considerata l’assenza dal servizio: tali assenze sono assimilate al servizio effettivamente e regolarmente prestato in quanto il dipendente non può eseguire la propria attività per cause esterne e non direttamente a lui imputabili.
• Qual è il principio giuridico: il principio giuridico di riferimento è statuito dall’art.
1256 del Codice civile, che recita: “
L’obbligazione si estingue quando, per una causa non imputabile al debitore [nel nostro caso dipendente della scuola], la prestazione diventa impossibile. Se l’impossibilità è solo temporanea, il debitore, finché essa perdura, non è responsabile del ritardo dell’adempimento”.
Nota bene:
• Il dirigente scolastico, in nessun caso, può imputare tali assenze a ferie, permesso personale, ore a recupero o ad altri istituti giuridici.
• Eventuali richieste di ferie, permessi o altri istituti giuridici eventualmente richiesti dal personale e coincidenti con i giorni di chiusura della scuola dovranno essere sospesi e quindi non imputabili al personale.
• Eventuali riunioni programmate coincidenti con i giorni di chiusura della scuola (es. collegio dei docenti, consigli di classe ecc.) dovranno essere sospese e quindi rinviate.

SOSPENSIONE DELLE LEZIONI PER STUDENTI E PERSONALE
Può accadere che l’ordinanza del Prefetto o sindacale preveda solo la sospensione delle lezioni e non la chiusura della scuola. Oppure, nei casi di un istituto situato su più plessi in comuni diversi, la chiusura o la sospensione delle lezioni è solo parziale interessando uno o più plessi ma non l’intera autonomia scolastica.
➢ Sospensione delle lezioni per ordinanza prefettizia o sindacale (per tutta la scuola o solo in alcuni plessi):
In questo caso la scuola o il plesso rimangono aperti ma non si svolgono le lezioni:
• Gli studenti: restano a casa.
• Personale docente: vale quanto detto per i casi di chiusura della scuola. Per tale personale, infatti, sia con la chiusura della scuola che con la sola sospensione delle lezioni, non c’è alcun obbligo di servizio.
Per le riunioni collegiali (es. consigli di classe, collegio dei docenti ecc.) coincidenti con i giorni di sospensione delle lezioni, invece, non c’è l’obbligo di rinviarle in quanto la scuola è agibile e funzionante. Ciò non toglie che si possa valutare di sospenderle (scelta auspicabile).
• Personale ATA: presta servizio nel plesso assegnato ad inizio anno in cui le lezioni sono state solo sospese secondo il proprio orario di servizio.

➢ Plessi dei comuni non compresi nell’ordinanza prefettizia o sindacale di chiusura o di sospensione delle lezioni:
In tali plessi si dovrà svolgere normale attività didattica e dunque questi edifici dovranno necessariamente rimanere aperti. Pertanto, docenti e personale ATA assegnati a tali plessi dovranno recarsi a scuola regolarmente e secondo il proprio orario di servizio. Studenti, personale docente e ATA dei plessi dei comuni eventualmente interessati dalla ordinanza di chiusura, restano, come detto, a casa, senza alcun obbligo di recupero dell’attività non svolta.

Didattica a distanza
In nessun caso è possibile attivare forme di didattica a distanza le quali hanno trovato spazio solo durante l’emergenza sanitaria in relazione a casi di contagio COVID-19.

Per il governo Meloni Guantanamo è in Albania.

Per il governo Meloni Guantanamo è in Albania.
di Beppi Zambon


La politica è spettacolo, non da oggi. Se ce lo eravamo dimenticato la Meloni, che già opera da premier anche senza premierato, lo ha evidenziato col botto, annunciando la prossima apertura di 2 Centri di prima Accoglienza per migranti in Albania. Un accordo maturato quest’estate durante la sua gita a Tirana, ospite di Edi Rama, socialista, ex cestista, a capo del governo albanese. Qui tra una spigola e una rakia si sono poste le premesse per quel accordo di cui si è annunciato ieri il compimento. Un vero “coup de theatre” tenuto dietro le quinte per i momenti di necessità della stessa Meloni, appannata e in qualche affanno, tra telefono rosso e ‘novella 2000’.
Di questo accordo con l’Albania non si conosce nulla, in dettaglio. Solo quanto annunciato ai 4 venti, tanto che un po’ tutti hanno a che dire sulla oscurità della trattativa, dell’accordo.
Anche tra la compagine governativa. Giochi tra le parti. Non è da crederci per nulla.
Quando mai uno staff di sottosegretari, esperti di diritto internazionali, funzionari può lavorare ad un inedito concordato tra Stati, al di fuori dell’UE, senza che Ministro degli Esteri, dell’Interno e Infrastrutture non né abbiano contezza?!!
Piuttosto, quello che ci viene da dire è: ma dove stavano le ‘opposizioni’ che ora si indignano per tale ‘porcheria’!!! Sono, pure loro dentro la torta? Forse sperano in un passo falso governativo che provochi un qualche inciampo?
Sono solo passaggi funzionali e utili ad una informazione urlata, per salire di 1 punto per un mese nei nei sondaggi, per qualche copia venduta o like in più.
Certo è che la questione migranti, con il notevole incremento degli arrivi e sbarchi determinatosi quest’anno, ha creato affanno al Governo che su questo tema, il contenimento e il respingimento dei migranti, aveva improntato buona parte della sua propaganda elettorale e del suo favorevole riscontro d’immagine. Nonostante i viaggi a Bruxelles, le stoccate con Macron, i brindisi con il cancelliere Scholz il fenomeno è stato scaricato sul Governo italiano, che sconta, oltre che la posizione geografica, una politica assai improvvida e altalenante sul fenomeno epocale delle migrazioni, tanto più a fronte dell’incancrenirsi delle guerre in corso, dell’impoverimento esponenziale, delle crisi climatiche in Africa e nel vicino Oriente.
Certo non è solo colpa del governo Meloni: ha ereditato scelte politiche sbagliate – anche dal punto di vista capitalistico – almeno trentennali; politiche migratorie che sono state improntate solo da un criterio emergenziale e di contenimento, senza una prospettiva inclusiva e accogliente di lungo periodo. Questo aspetto politico ci viene rinfacciato dall’UE: proprio per questo tutti Paesi, che siano del gruppo di Visegrad o meno, lesinano risorse economiche e/o corridoi di accoglienza per ‘alleggerire’ l’onda migratoria che si infrange sull’Italia.
Qui, dalla legge Martelli (1990) in poi, la problematica immigrazione è stata affrontata con misure e una legislazione tampone volte a ‘registrare’ quanto era ed è già intervenuto nella materialità del fenomeno migratorio del nostro paese. Tutt’altra cosa rispetto a quanto era intervenuto nelle esperienze di politiche migratorie in Stati (Francia, UK) di vecchia immigrazione coloniale o di recente immigrazione industriale quali la Svizzera, la Germania, la Svezia. In tutti questi paesi si sono fatti notevoli investimenti infrastrutturali e sociali mentre da noi si sono stanziati miseri pacchetti di intervento finalizzati a stoppare questa o quella emergenza, affidando il resto al ‘buon cuore’ degli italiani che si manifesta attraverso le mille attività affidate e gestite dal volontariato. Una visione miope, misera e micragnosa che si è scontrata anche con una potente reazione sociale e solidale che si è opposta alla gestione securitaria e razzista che i vari governi hanno impostato, avendo scelto di affrontare il fluire dei migranti con strumenti di ordine pubblico (CPA, Centri di Detenzione vari) anzichè con le necessarie risorse indispensabili per una valorizzazione della moltitudine migrante.
Ora il Governo Meloni si trova chiuso in una morsa sul che fare con l’afflusso di migranti: eredita un deficit di sufficienti strutture interne di accoglienza, gestione e internamento/respingimento; è in ostilità con tutto il volontariato assistenziale e mutualistico (laico e cristiano) basti pensare ai benefit valdesi e papali alle varie ONG; è in difficoltà di fronte all’elettorato; è richiamato dalla Confindustria per favorire un’accoglienza mirata e dall’INPS per le risorse apportate dal lavoro migrante; si trova a fare i conti con tutto il fronte sud del Mediterraneo in guerra o in miseria, con la UE che si prende i tempi lunghi di Bruxelles mentre i Paesi populisti (amici sulla carta) si girano a controllare le frontiere verso Est.
Ecco che, con il suggerimento occulto di quanto hanno già sperimentato Polonia e Ungheria coi campi profughi fuori dai loro confini, il Sol Leone produce il suo effetto: esportiamo questa ‘carne umana’ in sovrabbondanza nella vicina Albania, paese amico che molto ci deve e a cui molto siamo legati economicamente e storicamente.
Una Albania in predicato da quasi 20 anni per entrare in EU, per la cui benevolenza è disposta a più di un sacrificio etico, tanto più che è – come sembra – del tutto spesata, anzi ben remunerata per il servigio reso. Un tornaconto economico e un ottimo viatico europeo per l’Albania.
Si prospetta, dunque, una Guantanamo per migranti al di fuori della Fortezza Europa, dove gli occhi non vedono l’applicazione concreta dei dispositivi di controllo, di sicurezza, di smistamento, di rimpatrio. Non diversamente da quanto già si fa, con la complicità italiana e europea, in Libia, in Turchia, in Giordania, in Marocco.
Un inutile tentativo demandare, posporre e occultare un fenomeno epocale e quotidiano: molto meglio i divertenti giochi di prestigio del mago Forest.

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