In questa prima parte dedicata all’analisi del recente Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) – Missione istruzione e ricerca – e alle Linee programmatiche emanate dal Ministro Bianchi – ci dedichiamo a quella che potrebbe essere intesa come un’invasione di campo. Ovvero la pretesa di un documento concepito per indirizzare in modo razionale straordinari capitoli di spesa, di dover dettare la linea rispetto alla riforma della didattica e della metodologia d’insegnamento. Ovviamente, nella logica degli estensori del PNRR, tali tematiche avrebbero un immediato effetto sui destini dell’economia, e quindi non potrebbero essere ignorate da un piano d’azione politica che intende rilanciarla. È proprio la fondatezza di questo nesso che andiamo a discutere in questo primo contributo. Nonostante nel PNRR si ammetta l’eccellenza raggiunta in molti casi dal sistema scolastico italiano, esso prevede una radicale semplificazione dei percorsi d’istruzione, e un forte ridimensionamento di una preparazione teorica di spessore, premessa indispensabile per raggiungere risultati soddisfacenti in quell’attivismo pratico-laboratoriale orientato alle soft skills, che sembrerebbe essere destino esclusivo della nuova scuola. L’intento è un altro: produrre soggettività flessibili, in linea con le richieste interessate degli stakeholders, che dovrebbero piegare la scuola alle loro esigenze, presentate però come se coincidessero con l’interesse generale del paese e degli studenti.
Il progetto di rinnovamento radicale della didattica previsto nei due documenti che stiamo esaminando, il PNRR e le Linee programmatiche del Ministero dell’Istruzione che dal primo traggono ispirazione, non presenta particolare originalità rispetto ai documenti istituzionali precedenti, da noi già più volte commentati. Continua tuttavia a suscitare stupore il fatto che un documento finalizzato a illustrare impegni di spesa pubblica straordinaria si soffermi su aspetti tecnici che coinvolgono la professionalità docente, i quali dovrebbero essere oggetto di discussione in altre sedi. Ma siamo consapevoli che questa presunzione viene giustificata dall’assunto indimostrato in base al quale esisterebbe un diretto legame tra il metodo d’insegnamento adottato dai docenti e gli effetti da questo esercitato sull’economia nel suo insieme, per cui è gioco forza ritenere che l’azione educativa debba modellarsi sulle esigenze avanzate dal mondo economico.
Non è inutile però, nonostante riprendano contenuti già commentati, dedicare un minimo di analisi a tali aspetti dei due documenti, sia perché contengono indicazioni operative immediate con le quali intendono affrontare le resistenze di ordine culturale avanzate verso trasformazioni così poco condivise, sia perché, nell’ansia di ripetere gli stessi concetti con formulazioni nuove, tali testi, forse spinti dall’ossessione di apparire originali, cadono in contraddizioni particolarmente significative, che è bene mettere in evidenza.
1. I divari territoriali come mezzo per piegare l’istruzione alle richieste del mondo produttivo
Come ormai risaputo, l’azione riformatrice troverebbe legittimità dalla consueta sfilza di dati (decontestualizzati a proprio comodo) che confermerebbe una drammatica situazione dell’istruzione in Italia, l’interpretazione dei quali appare tutt’altro che irreprensibile. Vi si trova però anche un passaggio nuovo, particolarmente significativo, che in qualche modo va a smentire quelle conseguenze:
«Indipendentemente dai divari tra nord e sud, la nostra scuola primeggia a livello internazionale per la forte base culturale e teorica. Senza perdere questa eredità, occorre investire in (a) abilità digitali, (b) abilità comportamentali e (c) conoscenze applicative»[1]
È la prima volta, probabilmente, che in un contesto riconducibile al MIUR si ammette come l’organizzazione didattica italiana e la sua tradizione pedagogica siano in grado di offrire una preparazione competitiva nel contesto globale[2]. In effetti, una simile affermazione, forse sfuggita involontariamente, dovrebbe far crollare l’intero castello di carta costruito per trasformare la scuola in senso de-emancipativo; l’azione ministeriale dovrebbe eventualmente essere finalizzata non a demolire quel modello educativo persino dove è efficace, ma a introdurlo laddove, per motivi di maggiori problematicità legate al territorio, fa fatica ad affermarsi.
Invece questa considerazione viene inserita tra altre due affermazioni che hanno il compito di depotenziarla. Affermazioni che, se debitamente analizzate, si rivelano essere totalmente fuori contesto.
Da una parte il merito del nostro sistema d’istruzione farebbe riferimento a una preparazione esclusivamente teorica, presentata come insufficiente, non in linea con le sfide del mondo attuale. Con una ingenua radicalizzazione della contrapposizione tra teoria e pratica che non ha ragione di esistere, e che intende negare la priorità che spetta al pensiero teorico (dal quale si produce un autentico atteggiamento critico), rispetto al procedimento applicativo[3]. É sicuramente legittimo argomentare, infatti, che proprio questa migliore preparazione teorica permetta, ad esempio, quell’eccellenza riconosciuta nello stesso PNRR.
Ma facciamo attenzione alla premessa: quell’«indipendentemente dai divari tra nord e sud», che suona assolutamente contraddittoria.
Nell’intero testo ritorna costantemente l’espressione «divari territoriali» (21 volte), non necessariamente da leggersi come esclusivo divario tra il Mezzogiorno e il resto del Paese. Ma poi le risorse destinate alle aree critiche sono assolutamente modeste; perché l’obiettivo è un altro, ovvero non quello di intervenire sulle criticità per cercare, nei limiti del possibile, di portare la scuola italiana ai livelli di efficienza che è in grado di raggiungere in molti altri casi, garantendo agli studenti una preziosa competitività ( riconosciuta nello stesso documento) nel contesto internazionale; l’intento invece è quello di cambiare radicalmente il sistema, semplificando di molto quanto appreso negli anni scolastici, per adattarlo ad esigenze esterne che non coincidono affatto con quelle che sarebbe nell’interesse degli studenti; a meno che quest’interesse non venga fatto tutto coincidere in un loro inserimento in un mercato del lavoro fortemente competitivo, caratterizzato da scarse garanzie e dalla precarietà permanente.
Per chi considerasse faziose queste nostre affermazioni, proponiamo qualche riferimento alle Linee programmatiche, che al PNRR fanno costante riferimento e che anzi esprimono meglio l’azione attuativa che il MIUR intende mettere in campo.
Singolare già la definizione di scuola data in apertura, a nostro parere totalmente divergente da come la stessa è pensata nella nostra Carta costituzionale:
«La scuola è il luogo dove si costruiscono le competenze e si acquisiscono le abilità; sono questi i presupposti per diventare cittadini preparati, critici e partecipi».[4]
Appare evidente come il tutto sia concepito per formare soggetti esclusivamente operativi, e che le competenze e le abilità siano pensate in funzione di un obiettivo in linea con richieste che provengono dall’esterno. Che tutto ciò poi possa rendere «preparati, critici e partecipi» è una boutade, una foglia di fico che richiami la coerenza con lo spirito del testo costituzionale.
Per chi poi volesse negare che tali obiettivi siano individuati secondo una logica economicistica, basta leggere poco più avanti, nella stessa pagina:
«La Scuola è soggetto deputato a guidare la transizione verso l’innovazione tecnologica e la sostenibilità ambientale, come leva fondamentale per l’educazione allo sviluppo sostenibile (AGENDA 2030 e SDGs)»
Per quanto tale svolta sia probabilmente una necessità per lo sviluppo del Paese, attribuire alla scuola questa enorme responsabilità e questo unico obiettivo risulta strumentale; sia perché la scuola in sé può offrire una preparazione culturale generale, che favorisca poi la formazione di figure capaci di agire nel senso sopra indicato[5].
Ma la logica che ispira i riformatori è un’altra; si indica tale transizione perché essa dovrà caratterizzare la riconversione produttiva, e la scuola dovrà fornire mano d’opera adatta alle richieste che provengono dal tessuto economico. In questa direzione sono da leggersi le proposte di riforma del sistema di orientamento e di ampliamento della sperimentazione dei percorsi di istruzione superiore di II grado quadriennali, da 100 a 1000.
L’introduzione di:
«moduli di orientamento formativo – da ricomprendersi all’interno del curriculum complessivo annuale – rivolti alle classi quarte e quinte della scuola secondaria di II grado, al fine di accompagnare gli studenti nella scelta consapevole di prosecuzione del percorso di studi o di ulteriore formazione professionalizzante (ITS), propedeutica all’inserimento nel mondo del lavoro»
nel numero previsto «circa 30 ore annue nella scuola secondaria di primo e secondo grado» riporta di fatto indietro i numeri all’epoca della Buona Scuola, che introduceva l’allora Alternanza Scuola Lavoro, oggi Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento, con un monte ore obbligatorio pari a 200 ore nei trienni dei licei e a 400 in quelli degli istituti tecnici e professionali.
Osserviamo inoltre che, sebbene potrebbe sembrare ragionevole l’enfasi sull’inserimento nelle realtà produttive per i percorsi tecnici e professionali, è anche vero che in questi contesti, puntare solo all’«istruzione terziaria professionalizzante» e sulla «presenza attiva nel tessuto imprenditoriale», sacrificando i contenuti di più ampio contenuto culturale, sostituite dalle ormai famigerate UDA (Unità didattiche di apprendimento trasversali) e valutate esclusivamente per competenze, significa impedire agli stessi di poter sperare, proprio attraverso la scuola, di accedere a un futuro professionale e intellettuale diverso e più gratificante rispetto a quello a cui sembrano destinarlo le condizioni di partenza.
3. Una falsa inclusività
Questo disegno spiega bene l’ambiguo concetto, presente in entrambi i documenti, di inclusività; in sé positivo, ma che nella nuova scuola assume proprio la funzione di “gabbia” all’interno della quale la soggettività dell’alunno viene definitiva e dalla quale non le è consentito uscire. In qualche modo impedendole di sollevare la propria personalità intellettuale dal proprio contesto familiare e sociale:
«La scuola inclusiva è quella che consente a ciascuno di seguire il proprio percorso e sviluppare pienamente le proprie potenzialità. E’ una scuola che valorizza l’individualità di ognuno, sia come singolo sia come parte integrante e insostituibile di una comunità».
Non si tratta in realtà di inclusione ma di cooptazione per motivi di interesse di una manodopera utile ad attori che necessitano di particolari capacità. E’ questo il senso dell’introduzione del cosiddetto “sistema duale”, di carattere regionale.
Non a caso, per decidere come «introdurre elementi di personalizzazione nei percorsi di studio […] si renderà necessario il coinvolgimento dell’intera comunità professionale e degli stakeholders»; ovvero, non saranno più i docenti a decidere il percorso formativo del gruppo classe che, proprio in nome dell’uguaglianza, garantisce a tutti gli stessi contenuti culturali e, soprattutto, non esclusivamente competenze tecniche, ma anche strumenti intellettuali per saper interpretare ed eventualmente sottoporre a critica il tessuto sociale che quelle competenze richiede.
Gli stakeholders in buona parte coincidono con soggetti economici privati. Certo, nei testi che andiamo esaminando si parla di «patti educativi di comunità» che comprenderebbero, oltre alle «organizzazioni produttive», sempre in prima fila, anche «l’associazionismo, il volontariato e il terzo settore», il che sembra conferire al tutto un alone progressista. Ma, tra gli stakeholders, in particolare quando è necessario prendere le decisioni più vincolanti sul piano educativo, sono i soggetti imprenditoriali quelli considerati aventi responsabilità prioritarie. Si legga, a mo’ di esempio, l’elenco dei 200 stakeholders coinvolti nell’elaborazione del documento OCSE dedicato alle competenze educative essenziali.
4. Il gruppo classe come “gabbia del Novecento”
La “comunità” di cui tanto si parla nei documenti ministeriali, per formare la quale si intende disintegrare l’unica forma di comunità vera in cui le personalità degli alunni vengono valorizzate, ovvero il gruppo classe, irresponsabilmente e insensatamente definita da Bianchi una «gabbia del Novecento», riproduce in realtà la stessa falsa dimensione comunitaria dei social, che lascia solo l’alunno di fronte a un processo educativo che lo seduce con l’idea di acquisizione del sapere utile, pratico e operativo:
«la riduzione del numero degli alunni per classe e il dimensionamento della rete scolastica. In tale ottica si pone il superamento dell’identità tra classe demografica e aula, anche al fine di rivedere il modello scuola»
Sia chiaro, il gruppo classe può anche essere vittima di atteggiamenti irresponsabilmente e anacronisticamente autoritari; ma questi almeno, in un’esperienza negativa vissuta in comune, possono creare solidarietà e strategie di resistenza, educare ed esercitare la rappresentanza, dando origine a una forma di esperienza dei propri diritti negati, che la dispersione voluta da questa didattica falsamente individualista si propone invece di impedire.
Introdurre invece percorsi individualizzati con scelte opzionali, come nel modello di scuola anglosassone comporterebbe invece un radicale rivoluzionamento dell’impianto del nostro sistema di istruzione: lezioni differenziate per abilità e non per età, finalizzate al raggiungimento di traguardi certificati da esami standardizzati esterni, con esiti pubblici. Una trasformazione drastica, quindi, che si lascia intravedere in un documento governativo di carattere economico, e che necessiterebbe invece di tutt’altro dibattito e consenso.
5. Il mito delle STEM
IL PNRR, come del resto i precedenti documenti riferibili al ministro Patrizio Bianchi torna ossessivamente sul protagonismo delle discipline STEM[6](Scienze, Tecnologia, Ingegneria, Matematica), e la definizione che ne propone è particolarmente interessante. Si potrebbe infatti pensare che le STEM obbediscano al proposito di accrescere la conoscenza scientifica delle giovani generazioni, favorendo un incremento delle iscrizioni alle facoltà scientifiche, ad esempio aumentando di conseguenza – decisione questa sicuramente discutibile ma non irrazionale – il quadro orario di alcune di quelle discipline, ridotto dalla riforma Gelmini.
Ma in realtà, come il significato dell’acronimo stesso suggerisce, non si tratta di questo, quanto di un autentico cambio del paradigma metodologico dell’insegnamento delle scienze, considerate come un unicum, da attuarsi in senso tecnico – laboratoriale, presumibilmente subordinato al dominio del digitale e fondato sulla logica del problem solving. Tale modifica produrrà magari un miglioramento dei risultati nei test internazionali, ma rimane un’involuzione, come più volte sostenuto a suo tempo ad esempio da Giorgio Israel. La laboratorialità o i metodi deduttivi e basati sull’investigazione, se supportati da una contemporanea riflessione teorica, restano approcci metodologici fondamentali per l’insegnamento delle discipline scientifiche, che tuttavia necessitano di tempi distesi, spazi adeguati, oltre che di autentiche occasioni di compresenza, laddove si intenda esaltare la trasversalità e la complementarità dei saperi.
Invece, nel rapporto governativo è scritto:
«L’intervento sulle discipline STEM […] agisce su un nuovo paradigma educativo trasversale di carattere metodologico. Lo scopo è quello di creare nella scuola la “cultura” scientifica e la forma mentis necessaria a un diverso approccio al pensiero scientifico, appositamente incentrata sull’insegnamento STEM […], con ricorso ad azioni didattiche non basate solo sulla lezione frontale»
Per quale motivo poi un documento di carattere economico-finanziario debba occuparsi di metodologie didattiche opportune, rubando il mestiere ai docenti, rimane inspiegabile, se non alla luce delle finalità politiche che al documento pertengono. Ben chiare poco dopo:
«con questo progetto si mira ad attuare programmi di potenziamento di competenze, coerentemente con le trasformazioni socioeconomiche».
[1] Vedi PNRR, p.188.
[2] Non è certo una constatazione che sorprende, ma sempre intenzionalmente occultata nei documenti ministeriali, anche se più volte rimarcata da personalità intellettuali che della scuola hanno certamente maggiore conoscenza di molti tecnici presenti al MIUR, come per esempio Salvatore Settis, qui e qui.
[3] Su quest’aspetto si sono espressi, con argomentazioni totalmente condivisibili, già P.Di Remigio e F.Di Biase.
[4] Linee programmatiche, pag. 2 https://www.miur.gov.it/documents/20182/0/Linee+programmatiche+del+Ministero+dell%27Istruzione+-+4maggio+2021.pdf/b3cbd3ee-722c-457d-a2c4-a4df30dd03d8?t=1620143366992
[5] E, come già ricordato, la svalutazione del sapere teorico rispetto alle attività tecnico-laboratoriali non favorirà certo la formazione di soggetti in grado di soddisfare tali esigenze.
[6] In questi due documenti quanto meno è assente quel risibile acronimo STEAM che invece compariva nel Rapporto finale e nel libro dello stesso Bianchi.