ORDINE DI SERVIZIO DEL DIRIGENTE,
QUANDO POSSO IGNORARLO?
di Avv. Marco Barone
Un dipendente ATA subiva
la sanzione disciplinare della censura per non aver ottemperato un ordine di
servizio. Interviene, sul punto, la Cassazione, che con Sent., (ud. 25-09-2018)
30-11-2018, n. 31086, afferma dei principi di diritto importanti.
La normativa
a) in base a costanti
indirizzi della giurisprudenza, la facoltà del dipendente di non eseguire un
ordine, previa rimostranza a chi lo ha impartito – secondo la suddetta norma,
il cui testo è replicato nell’art. 89 del CCNL del Comparto Scuola per il
quadriennio normativo 2002/2005( norma recepita nel successivo contratto
all’articolo 92 per gli ATA) – è così disciplinato: “se ritiene che l’ordine
sia palesemente illegittimo, il dipendente deve farne rimostranza a chi l’ha
impartito dichiarandone le ragioni; se l’ordine è rinnovato per iscritto ha il
dovere di darvi esecuzione. Il dipendente, non deve, comunque, eseguire l’ordine
quando l’atto sia vietato dalla legge penale o costituisca illecito
amministrativo” (Cons. Stato, Sez. 5, sentenza 15 dicembre 2008, n. 6208);
b) la “palese”
illegittimità dell’ordine corrisponde ad una vera e propria (oggettiva)
illegittimità dell’ordine stesso che – anche se non riguardi il compimento di
un atto vietato dalla legge penale o costituente illecito amministrativo (come
tale da non eseguire) – comunque deve essere affetto da un vizio di
legittimità, cioè da uno dei vizi tipici degli atti amministrativi o da altri
vizi, che nella specie rilevano come violazioni dei generali principi di buona
fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., i quali, alla stregua
dei principi di imparzialità e di buon andamento di cui all’art. 97 Cost., devono
essere rispettati dalla PA nell’emanazione degli atti che rivestono la natura
di determinazioni negoziali assunte con la capacità e i poteri del privato
datore di lavoro (quali sono quelli di cui si discute nel presente giudizio).
L’articolo 17 del DPR del 1957:
L’impiegato, al quale, dal
proprio superiore, venga impartito un ordine che egli ritenga palesemente
illegittimo, deve farne rimostranza allo stesso superiore, dichiarandone le
ragioni. Se l’ordine e’ rinnovato per iscritto, l’impiegato ha il dovere di
darvi esecuzione. L’impiegato non deve comunque eseguire l’ordine del superiore
quando l’atto sia vietato dalla legge penale.
L’articolo 17 è quello che
trova direttamente applicazione per il personale docente e non prevede la
possibilità in caso di reiterazione dell’ordine, della mancata esecuzione in
caso di illecito amministrativo. Cosa che invece è contemplata per il personale
ATA.
Il Codice di Comportamento dei dipendenti
Pubblici
In questa cornice il
riferimento alla soggettiva percezione da parte del destinatario dell’ordine
non elide la necessità di una illegittimità “palese”, ma è finalizzata a fare
sì che tutti i dipendenti pubblici, di ogni ordine e grado, collaborino alla
legalità dell’agire della PA in cui prestano servizio, in attuazione di quanto
previsto dall’art. 54 Cost., comma 2, in base al quale: “i cittadini cui sono
affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed
onore”.
Non a caso anche il Codice
di comportamento dei dipendenti pubblici (di cui al D.P.R. 16 aprile 2013, n.
62) all’art. 9, comma 2, stabilisce che “la tracciabilità dei processi
decisionali adottati dai dipendenti deve essere, in tutti i casi, garantita
attraverso un adeguato supporto documentale, che consenta in ogni momento la
replicabilità” e all’art. 12, comma 1, prevede che: “nelle operazioni da
svolgersi e nella trattazione delle pratiche il dipendente rispetta, salvo
diverse esigenze di servizio o diverso ordine di priorità stabilito
dall’amministrazione, l’ordine cronologico e non rifiuta prestazioni a cui sia
tenuto con motivazioni generiche”.
Certamente tale Codice
(….) è espressione dei profondi mutamenti normativi che si sono registrati nel
tempo in materia di rapporti di lavoro pubblico contrattualizzato, con la
principale finalità di aumentare l’efficienza e la correttezza dell’azione
della PA (in materia di interpretazione evolutiva: Cass. 13 aprile 2016, n.
7313; Cass. 30 dicembre 2011, n 30722; sul codice di comportamento citato, tra
le tante: Cass. 14 febbraio 2018, n. 3622).
Ne risulta confermato che
non sussiste un obbligo incondizionato del pubblico dipendente di eseguire le
disposizioni, ivi incluse quelle derivanti da atti di organizzazione, impartite
dai superiori o dagli organi sovraordinati, visto che il dovere di obbedienza
incontra un limite nell’obiezione circa l’illegittimità dell’ordine ricevuto
(Corte dei Conti Sicilia, sentenza 27 marzo 2014, n. 117).
Ma è evidente che si deve
trattare di un’obiezione ragionevole che si basi su una reale illegittimità
dell’ordine e che può essere esternata e percepita anche soltanto dal
destinatario dell’ordine medesimo, ma nel suo ruolo di “sentinella” e di
collaboratore ad assicurare la legalità dell’Amministrazione, che gli deriva
dall’art. 54 Cost., comma 2 e non per finalità, ragioni e percezioni meramente
personali e soggettive.
E’ in quest’ottica che la normativa di legge e contrattuale
stabilisce che l’esercizio della facoltà del dipendente di non eseguire un ordine, previa rimostranza a chi
lo ha impartito, richiede, oltre alla palese illegittimità dell’ordine, anche
che il dipendente non si limiti ad un mero rifiuto, ma concreti le sue motivate
obiezioni, indicando le ragioni con dichiarazioni indirizzate a colui dal quale
proviene l’ordine (Cass. 15 febbraio 2008, n. 3802).
Peraltro, la sussistenza
in concreto dei suddetti elementi deve essere accertata dal giudice del merito
e, nella specie, la Corte d’appello ha escluso motivatamente la sussistenza
della “palese” illegittimità dell’ordine, ritenendo che il Dirigente scolastico
non abbia violato le prerogative degli organi collegiali in materia di
determinazione del calendario di ricevimento settimanale dei genitori, visto
che non era stata emanata alcuna delibera collegiale sul punto, donde la non
configurabilità del dedotto vizio di “incompetenza”.
Il dovere di obbedienza incontra un limite
nell’obiezione circa l’illegittimità dell’ordine ricevuto.
Ai sensi dell’art. 384
c.p.c., comma 1, si ritiene opportuno enunciare i seguenti principi di diritto:
1) “la norma – prevista dal D.P.R. n. 3 del 1957, art. 17 e
dalla contrattazione collettiva di vari Comparti – che attribuisce al dipendente
pubblico la facoltà di non eseguire un ordine, previa rimostranza a chi lo ha
impartito, “se ritiene che l’ordine sia palesemente illegittimo” deve essere
interpretata nel senso che la “palese” illegittimità dell’ordine corrisponde ad
una vera e propria (oggettiva) illegittimità dello stesso che – anche se non
riguardi il compimento di un atto vietato dalla legge penale o costituente illecito
amministrativo (come tale da non eseguire) – comunque deve derivare da un vizio
di legittimità, cioè da uno dei vizi tipici degli atti amministrativi o da
altri vizi, che nella specie rilevano come violazioni dei generali principi di
buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., i quali, alla
stregua dei principi di imparzialità e di buon andamento di cui all’art. 97
Cost., devono essere rispettati dalla PA nell’emanazione degli atti che
rivestono la natura di determinazioni negoziali assunte con la capacità e i
poteri del privato datore di lavoro (quali sono quelli di cui si discute). In
questa cornice il riferimento alla soggettiva percezione da parte del
destinatario dell’ordine non elide la necessità di una illegittimità “palese”,
ma è finalizzato a fare sì che tutti i dipendenti pubblici, di ogni ordine e grado,
collaborino alla legalità dell’agire della PA in cui prestano servizio, in
attuazione di quanto previsto dall’art. 54 Cost., comma 2, in base al quale: “i
cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle
con disciplina ed onore”. Nello stessa ottica va inteso il Codice di comportamento
dei dipendenti pubblici (di cui al D.P.R. 16 aprile 2013, n. 62) – utilizzabile
in chiave di interpretazione evolutiva – secondo cui: “la tracciabilità dei
processi decisionali adottati dai dipendenti deve essere, in tutti i casi,
garantita attraverso un adeguato supporto documentale, che consenta in ogni
momento la replicabilità” (art. 9, comma 2), ma “nelle operazioni da svolgersi
e nella trattazione delle pratiche il dipendente rispetta, salvo diverse
esigenze di servizio o diverso ordine di priorità stabilito
dall’amministrazione, l’ordine cronologico e non rifiuta prestazioni a cui sia
tenuto con motivazioni generiche” (art. 12, comma 1);
2) come si desume dalla norma – prevista dal D.P.R. n. 3 del
1957, art. 17 e dalla contrattazione collettiva di vari Comparti – che
attribuisce al dipendente pubblico la facoltà di non eseguire un ordine, previa
rimostranza a chi lo ha impartito, non sussiste un obbligo incondizionato del
pubblico dipendente di eseguire le disposizioni, ivi incluse quelle derivanti
da atti di organizzazione, impartite dai superiori o dagli organi
sovraordinati, visto che il dovere di obbedienza incontra un limite nell’obiezione circa
l’illegittimità dell’ordine ricevuto. Peraltro, deve trattarsi
di un’obiezione ragionevole che si basi su una reale e oggettiva illegittimità
dell’ordine e che può essere esternata e percepita anche soltanto dal
destinatario dell’ordine medesimo, ma nel suo ruolo di “sentinella” e di collaboratore ad assicurare
la legalità dell’Amministrazione, che gli deriva dall’art. 54 Cost., art. 17 e
non per finalità, ragioni e percezioni meramente personali”.
Da ricordare che la Cassazione che sentenza n. 9736 del
19/4/2018 ha affermato che il lavoratore non può rifiutarsi di eseguire
ordine di servizio se reiterato:
“Più in generale il
lavoratore può chiedere giudizialmente l’accertamento della legittimità di un
provvedimento datoriale che ritenga illegittimo, ma non lo autorizza a
rifiutarsi aprioristicamente, e senza un eventuale avallo giudiziario
(conseguibile anche in via d’urgenza), di eseguire la prestazione lavorativa
richiesta, in quanto egli è tenuto ad osservare le disposizioni impartite
dall’imprenditore, ex artt. 2086 e 2104 c.c., e può legittimamente invocare
l’eccezione di inadempimento, ex art. 1460 c.c., solo nel caso in cui
l’inadempimento del datore di lavoro sia totale (cfr., tra le più recenti,
Cass. n. 831 del 2016 e n. 18866 del 2016). Tali principi trovano applicazione
nel rapporto di pubblico impiego privatizzato, anche in ragione del rinvio
operato dall’art. 2, co. 2, d.lgs. n. 165/01.”
Powered by Blogger.