di
Miguel Mellino
La disastrosa gestione dell’emergenza Coronavirus in Italia oramai
non è mistero quasi a nessuno. Il misero patriottismo neoliberale promosso
dalle istituzioni dello Stato e un’informazione di “guerra”, con i media
mainstream del tutto piegati alla mera trasmissione dal “fronte” di cifre,
statistiche, martirologi, cronache ospedaliere, e soprattutto disposizioni e
divieti, riescono sempre a meno coprire le enormi (ir)responsabilità, non solo
strutturali (dovute alle politiche di austerity degli ultimi 20 anni), ma anche
“personali” di buona parte di una classe dirigente (politici, giornalisti,
imprenditori, Confindustriali, amministratori regionali, manager e burocrati
della sanità, ecc.), che con le proprie azioni e decisioni sta contribuendo a
creare una situazione in cui, al momento, è possibile contare più morti e
contagiati, anche tra lo stesso personale sanitario, che in nessun altro paese
al mondo, Cina compresa. Dico “personali” perché è ovvio che non può essere
stata soltanto la mera contingenza, pur nei suoi aspetti inediti e più
drammatici, a far proliferare i contagi in un modo che non ha eguali nel mondo.
Sulla contingenza, appare chiaro, hanno anche pesato in buona misura decisioni
sbagliate, e anche non-decisioni, attuate o inattuate per mera incapacità (vedi
per esempio, https://www.tp24.it/2020/03/23/cronaca/coronavirus-febbraio-
allospedale-alzano-lombardo-bergamo-lazzaretto-ditalia/146958 ) o per semplice
sottomissione agli imperativi dei mercati, dei bilanci, e dei capitali. Poco
importa la motivazione. Sono loro stessi a dirci in continuazione, agitando
l’arma della logica securitaria, che chi sbaglia paga: ebbene dovrà arrivare il
momento in cui alla continua colpevolizzazione politico-mediatica dei
comportamenti della popolazione come se fossero l’unica concausa della
proliferazione del virus (e a volte è chiaro che non hanno certo aiutato),
dovremmo controbattere con la colpevolizzazione di una classe dirigente che
nella sua totalità, anche soltanto come fanatica promotrice dei criteri utilitaristici
e imprenditoriali dell’austerity neoliberale, è sicuramente parte in causa nel
disastro. Anche su quanto è successo nelle carceri, con 13 detenuti morti
durante le rivolte, non è stata data alcuna spiegazione minimamente credibile.
Oramai in rete, dato il disciplinamento e la militarizzazione di tutti i canali
egemonici, comincia a circolare tanto una rabbia diffusa, legata a un’esigenza
di capire come mai siamo arrivati a questo punto, o semplicemente che cosa sta
realmente accadendo dietro ciò che ci propina la solita coltre mediatica,
quanto la voglia di politicizzare appena possibile questa indignazione
generalizzata, questo senso paralizzante di “obbedienza dovuta”, all’interno di
una congiuntura che sarà comunque del tutto nuova. Il capitalismo globale del
dopo pandemia non sarà certamente lo stesso di quello precedente: molto
probabilmente renderà ancora più sfumate le opzioni neoliberali progressive
(tipo UE) e quelle regressive-sovraniste- neofasciste.
Classe e razza
L’infamia di questa gestione è però condensata anche nel decreto
“Io resto a casa”. Non tanto nelle misure che promuove, blocchi alla
circolazione e quarantene obbligatorie appaiono certo necessarie, ma per la
selettività, il classismo e il razzismo , che esso presuppone. Si tratta di un
decreto di tutela che non ha come referente la totalità della popolazione: non
è chiaramente destinato a tuttx. Non parla a tuttx allo stesso modo. Da una
parte, appare chiaramente classista nei confronti di tutti quei lavoratori che,
a rischio di contagio e di morte (vedi i postini di Bergamo), sono stati
costretti, fino a ieri, a continuare a svolgere le loro mansioni in filiere,
occupazioni e produzioni non certo essenziali alla sopravvivenza.
Particolarmente umiliante su questo punto è stata la genuflessione del governo
verso i Confindustriali, ancora oggi reticenti a chiudere una parte delle loro
fabbriche. Altrettanto insultante risultava la stigmatizzazione e
colpevolizzazione di media e istituzioni di quei metrò “ancora affollati” a Milano,
quando si trattava in buona parte di gente costretta ad andare a lavorare, e di
un affollamento causato soprattutto da una folle e irrazionale riduzione delle
corse!! Come a dire, per questa parte della cittadinanza, non solo non valgono
le stesse regole che per gli altri, ma devono anche viaggiare sui mezzi
pubblici col fiato degli altri passeggeri sul collo. Un’altra variazione sul
tema è l’orrenda naturalizzazione politico-statistico-mediatica dei morti
anziani o con “patologie pregresse”: in uno sfoggio di inconsapevole?
darwinismo sociale e di malthussianesimo economico ci vengono presentati come
morti quasi date per scontate, inevitabili. C’è il sospetto che il tanto
decantato sistema sanitario nazionale in molti casi non abbia proprio i mezzi per
non lasciarli morire, non riesca nemmeno ad arrivarci. Atroce anche la
giustificazione di questa carenza strutturale: tra vite giovani e sane e vite
anziane e compromesse dobbiamo scegliere! La verità è che un sistema sanitario
ridotto alle ossa da 20 anni e più di tagli e di loschi affari miliardari
speculativi (della vicenda Formigoni nessuna si ricorda più?) ha già deciso per
loro. E poi, anche se nessuno ha il coraggio di dirlo, sono un ceto chiaramente
non produttivo, un peso per le finanze dello stato.
Su tutto questo molto è stato scritto. Mi preme ora sottolineare
un altro aspetto del decreto meno presente nei dibattiti. In effetti, quel “Io
resto a casa” suona ancora più sinistro per un’altra parte della popolazione
rimasta del tutto estranea a qualunque forma di tutela e di discorso
istituzionale. Stiamo parlando di quelle migliaia di migranti e richiedenti
asilo che vivono in slum e ghetti rurali, tendopoli, centri di accoglienza
vari, ma anche in abitazioni urbane sovraffollate e campi Rom, per non parlare
dei senza fissa dimora. Si tratta di una parte della popolazione che in alcuni
dei suoi segmenti lavora – in condizioni di totale precarietà e vulnerabilità –
in filiere “essenziali” (come quella agricola) per la sopravvivenza di tuttx,
ma per le quali “restare a casa”, nelle condizioni strutturali di assembramento
in cui vivono, significa restare esposti a un alto rischio. Come denuncia, tra
altri, l’AGCI nel suo sito, nulla è stato fatto né tentato per sopperire alla
mancanza degli strumenti minimi di prevenzione in questi luoghi, non solo di
mascherine e guanti, ma anche di acqua e di altri servizi igienici, e in molti
casi cominciano a mancare anche i rifornimenti alimentari. La sopravvivenza
quotidiana all’ interno di queste strutture dipende soltanto dall’
autorganizzazione e dall’ aiuto e la solidarietà offerte dalle reti comunitarie
di associazioni e movimenti. Il discorso e le politiche pubbliche continuano a
non prendere in considerazione le condizioni di vita di queste persone. Non è difficile
interpretare questo silenzio, questa (voluta) mancanza di iniziativa verso
questa parte della popolazione, come un altro sintomo della crescente
razzializzazione dello spazio sociale, culturale ed economico della
cittadinanza. Detto in altre parole, questo silenzio è l’effetto di un chiaro
patto di cittadinanza “razziale” tra governo e governati.
E tuttavia a essere assente dal discorso pubblico non è soltanto
questa parte “emergenziale”, per così dire, della popolazione straniera: nelle
immagini che ci arrivano ogni giorno dagli ospedali non abbiamo mai visto un
paziente migrante o non-bianco. Nemmeno nei ripetitivi report sulle città e i
suoi abitanti, sulla vita ai tempi della quarantena, abbiamo mai visto un volto
che non segua una certa linea del colore, al massimo qualche rider nero che
passa in lontananza dalle telecamere, ma che certo attira poco l’attenzione dei
cronisti. Stato e media poi non hanno fornito alcun dato, e non hanno mostrato
alcun interesse, su ciò che sta accadendo all’ interno della cittadinanza
straniera residente nel paese, la quale, in buona parte, e proprio a causa
delle sue condizioni di vita “normali” (segregazione lavorativa e abitativa,
povertà, disoccupazione, precarietà, lavori a rischio, ecc.) rappresenta alcuni
dei suoi segmenti più fragili, vulnerabili ed esposti e quindi meritevoli di
tutela. Scoppia l’emergenza e questa parte della popolazione sprofondo nel
buio. I liberal-progressisti promotori sul mercato politico della cittadinanza
alle seconde generazioni sono scomparsi insieme a loro. Forse non c’è alcun
profitto, né simbolico né politico, da trarre in questo momento. È cosi che
porsi qualche domanda ci appare un obbligo: non vi sono contagiati tra i
migranti? Non vi sono ricoverati? O forse non vengono assistiti e nemmeno
contati? Oppure non vengono proprio considerati o meritevoli di
rappresentazione, discorso e tanto meno di tamponi? Sappiamo che i migranti si
rivolgono alle istituzioni solo in ultima istanza, dato che sanno benissimo che
spesso sono contro di loro. Ma la perplessità resta. Degli unici migranti di
cui si è parlato in questi giorni sono i 12 detenuti morti nelle carceri e di
un cittadino pakistano arrestato a Fondi per aver ucciso una persona che
cercava di fermarlo. Nulla di più. Eppure si tratta di persone che in buona
parte lavorano nelle filiere “ritenute” essenziali dall’ ultimo decreto del
governo Conte: distribuzione, agricoltura, logistica, food-delivery (riders), e
anche lavoro domestico, ecc. In riferimento a quest’ultimo punto, cosa succede
con le badanti, un lavoro fornito da donne migranti che per lo più abitano
nelle case in cui lavorano e spesso con anziani e bambini? Possono restare a
casa? Riguardo tutto questo non abbiamo semplicemente un silenzio inquietante,
ma forse altri e nuovi esempi di “razzismo istituzionale”. Per rendere visibili
i fenomeni occorre nominarli.
White Middle (Italian) Class
D’ altronde il limite, classista e razzista, della gestione
dell’emergenza sta proprio in quello slogan che dà il nome al decreto: “Io
resto a casa”. È chiaro che esso si rivolge a un soggetto sociale specifico,
tanto reale quanto immaginario: quello che possiamo chiamare una White Middle
Class in versione locale, e cioè quel gruppo sociale maggiormente parlato da
media e istituzioni, il loro referente pubblico e politico essenziale, ma anche
quello a cui vengono maggiormente destinati gli aiuti e le risorse da decreti
come il recente Cura Italia . Quell’ io resto a casa appare socialmente
circoscritto entro limiti ben definiti di classe e di razza : nei fatti, nelle
politiche esplicite, esclude quindi buona parte della popolazione a cui si
rivolge. L’assenza di qualsiasi riferimento alla popolazione straniera-migrante
all’ interno del discorso pubblico, l’abbandono a se stessa nelle attuali
condizioni di pandemia, non fa che mostrarci non solo “un’eccezione nell’
eccezione”, ma l’ennesimo esempio del “razzismo di Stato”. Si tratta di
qualcosa di cui ogni teorico dello “stato d’eccezione”, e in questi giorni ce
ne sono stati per tutti i gusti, dovrebbe oggi rendere conto. Non vedere
“l’eccezione nell’ eccezione”, la frattura razzista di cui è il prodotto,
significa operare entro i confini teorico-politici di ciò che la storia delle
lotte dell’antirazzismo nero ha chiamato “whiteness”. Curare l’Italia, dunque,
trascurare i migranti, “vite da tutelare” e “vite a perdere”. Prima gli
italiani. Non c’è nemmeno bisogno che Salvini e Meloni lo chiedano. È iscritto
nelle gerarchie materiali e simboliche dei nostri territori e popolazioni:
nell’ oramai tradizionale (e trasversale) governo razzista delle migrazioni.
Powered by Blogger.