Con il mercoledì delle ceneri, è finito il carnevale ed è iniziato il periodo di quaresima. Settimane di penitenza (per chi ci crede), ma anche un periodo in cui i sacerdoti tendono a sciamare nelle scuole per officiare riti, benedizioni, precetti pasquali e fare visite pastorali. L’Uaar da anni si batte per contrastare questa forma di invadenza clericale esercitata quasi sempre sugli scolari in tenera età, spesso non adeguatamente arginata dagli istituti (talvolta, anzi, sfacciatamente favorita).
Basterebbe il buonsenso per capire che la scuola è luogo di insegnamento e non di culto: chi vuole andare a messa può farlo liberamente nel proprio tempo libero. Ma rimane un fenomeno purtroppo ancora molto diffuso, tanto che anche i Cobas della Sicilia hanno ricordato ai dirigenti scolastici che nelle scuole non è consentita l’organizzazione o la partecipazione in orario scolastico ad atti di culto. Come prevedono la sentenza del Tar dell’Emilia Romagna 250/1993 e altre, sancendo l’illegittimità delle delibere dei consigli di circolo e di istituto che consentono tali riti. I Cobas avvertono inoltre che invieranno segnalazioni all’autorità giudiziaria nel caso vi fossero notizie di atti di culto nelle scuole, con l’ipotesi di interruzione di pubblico servizio a danno degli studenti.
Questa presa di posizione laica dei sindacati di base ha suscitato l’allerta dei cattolicisti, che paradossalmente lamentano la negazione della libertà religiosa. Avvenire dà spazio a Nicola Incampo, esperto della Cei per l’Irc, che per contestare la tesi dei Cobas fa riferimento alle ordinanze del Consiglio di Stato (391 e 392 del 1993) e alla sentenza 3635 del 2007 emessa dal Tar del Veneto. Queste sentenze arrivano tra l’altro dopo lunghe battaglie legali portate avanti dall’Uaar per arginare le visite pastorali dei vescovi. Incampo si spinge a sostenere che sia ancora in vigore la circolare 13377/544/MS del 1992, firmata dall’allora ministro democristiano Riccardo Misasi e che dava il via libera a riti, cerimonie religiose e visite pastorali tra le manifestazioni extrascolastiche previste.
Per Incampo la lettera dei Cobas è in malafede perché le ordinanze e le sentenze da lui citate consentono ai vescovi di effettuare visite pastorali nelle scuole. Peccato però che i Cobas non hanno scritto il contrario, hanno parlato di atti di culto e celebrazioni e quindi non si capisce la contestazione. Anzi, il Consiglio di Stato ammise inopinatamente nel 2010 le visite pastorali proprio con la motivazione che queste non sarebbero da ritenere atti di culto, ribadendo quindi implicitamente quello che già avevano detto il Tar emiliano prima e quello veneto poi, e cioè che gli atti di culto non costituiscono ‘cultura religiosa’ assimilabile all’insegnamento”. Gli atti di culto a scuola sono poi stati parzialmente riabilitati solo quando il Consiglio di Stato, con la già citata ordinanza 392/1993, ammise la loro programmazione come attività extrascolastica ma non con l’unico limite che la partecipazione ad essi sia facoltativa, come sostiene Incampo; occorre anche che la decisione venga presa nel rispetto delle minoranze, con il parere favorevole sia del Consiglio d’Istituto che del Collegio dei docenti e senza deleghe in bianco ai Dirigenti. Chi è quindi in malafede?
Il lavorio ostruzionistico di Incampo, volto a favorire i riti nelle scuole e a boicottare scelte diverse dall’Irc, non è nuovo. In qualità di esperto per la conferenza episcopale, per esempio, nel 2012 aveva attaccato l’Uaar per aver scritto alle scuole invitandole a fare chiarezza e a fornire ai genitori anche il modulo relativo alla scelta alternativa all’Irc.
Checché ne dicano i fautori dei riti religiosi a scuola, la situazione reale che ci viene riportata da numerose testimonianze è ben diversa. Genitori e studenti trovano ostacoli spesso insormontabili per fruire del loro diritto a un’alternativa all’Irc e, specie nelle realtà di provincia, i riti cattolici nelle scuole sono imposti di prassi. Nella scuola, istituzione dedicata all’educazione, all’inclusione e alla formazione dei nuovi cittadini, tentare di sottrarsi all’imposizione dei riti religiosi causa isolamento e ostracismo. Comprensibile che, soprattutto quando ci sono di mezzo i bambini più piccoli, i genitori laici o non credenti chinino spesso la testa per non creare loro ulteriori problemi. È davvero curioso che, pur di difendere giuridicamente le pratiche religiose nelle scuole, i religiosi accettino che esse vengano ridotte a una forma di folklore, analogamente a come il crocifisso viene fatto passare per un ininfluentesimbolo passivo pur di imporlo nelle aule. Ma Parigi val bene una messa (a scuola).
Per evitare di subire atti di culto nelle scuole ci si può comunque appellare al decreto legislativo 297/1994 (Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di istruzione), che nelle classi ove siano presenti alunni che abbiano dichiarato di non avvalersi dell’ora di religione cattolica, vieta espressamente le pratiche religiose mentre si fanno altre materie o in orari che abbiano effetti discriminanti. Una soluzione volta a tutelare le confessioni di minoranza che hanno sottoscritto l’intesa con lo stato. È evidente che legare visite pastorali, benedizioni, messe e atti di culto vari alla frequentazione o meno dell’ora di religione caratterizzi proprio in senso prettamente religioso (e non vagamente “culturale”) questi eventi. Una strada quindi c’è: visto che ad oggi l’Irc è blindata dal Concordato e che le visite pastorali sono state sdoganate, occorre insistere con le scuole affinché sia attivata l’alternativa all’ora di religione. Può essere utile anche inviare il modulo di diffida, che mettiamo a disposizione, direttamente alla scuola.
Quanto sia tutt’altro che pacifica la questione delle intrusioni a scuola da parte dei sacerdoti lo si vede anche dalle indicazioni che forniscono le diocesi, che sono molto più prudenti della sicumera di Avvenire.
La curia di Bologna, per esempio, nelle sue linee guida ricorda che “sono da evitare” sia atti di culto in orario di lezione “anche se fosse fatta salva la libertà di parteciparvi” sia quelli durante l’Irc (“per rispettare il carattere culturale” di quell’insegnamento), mentre li consiglia in orario extracurricolare, se opportunamente approvati tramite delibera del consiglio scolastico.
Il rincorrersi di circolari e sentenze contraddittorie e l’influenza della lobby clericale dà luogo a tutta una serie di episodi che sfociano nell’abuso, o sono francamente imbarazzanti: tra le tante segnalazioni che riceviamo, c’è persino quella relativa a un insegnante di religione che come “attività culturale” ha portato i bambini della scuola al funerale di un parroco locale. L’obbiettivo più importante rimane il solito: influenzare cattolicamente i bambini più piccoli e marcare in ogni modo il territorio. Se veramente dirigenti e insegnanti volessero stare tranquilli farebbero bene a chiedere al proprio avvocato, piuttosto che affidarsi a quanto frettolosamente affermato da Incampo. E se volessero una scuola inclusiva, moderna e laica, lascerebbero da parte i riti religiosi e volgerebbero lo sguardo verso una didattica che formi lo spirito critico e che non emargini nessuno.
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