Fonte: fuoriluogo.it, di Susanna Ronconi
24/04/2014
Il professor Franco Coppoli si è rifiutato di far entrare i cani antidroga
nella sua classe mentre faceva lezione. Si ritrova oggi con un provvedimento
disciplinare incombente sulla sua testa. Susanna Ronconi prova a spiegare
perchè con i giovani l'approccio deterrente non funziona e che bisogna
ritornare ad educare.
Tags: cani antidroga; scuola
26 marzo, Istituto per
geometri Sangallo di Terni. Il cane Pando fa il suo ingresso in classe, è un
cane antidroga, lavora per la Questura, e fa i suo mestiere. Ma anche il
professor Franco Coppoli sta facendo il suo, di mestiere, insegna, dichiara
agli agenti di non voler interrompere il suo “pubblico servizio” e li invita a
uscire. Un gesto, quello del professore, che non finisce lì, e che il 29
aprile, all’Ufficio Scolastico regionale dell’Umbria, sarà giudicato e
sanzionato con un provvedimento disciplinare per non aver interrotto le lezioni
(sic!) e aver impedito il controllo in aula della polizia. La contestazione è
per un atto “ non conforme alle responsabilità, ai doveri, e alla correttezza
inerenti alla funzione o per gravi negligenze in servizio”, il che significa
fino a sei mesi di sospensione da insegnamento e stipendio.
Quello di Terni non è un episodio nuovo e tantomeno isolato, si è ripetuto
spesso anche in questi mesi di post Fini Giovanardi (una inerzia?) l’assunto
che la repressione, meglio se esibita e con forte impatto, come i supplizi del
medioevo, serva alla dissuasione fa parte del senso comune, di quello della
politica e anche di quello di certi “scienziati” embedded. Ma vale la pena
riparlarne per almeno tre motivi.
Primo: Pando oggi non sta più fuori dai cancelli ad annusare, entra nelle
aule, l’impatto è forte, il linguaggio non è quello del mero controllo ma
quello della deterrenza, e il rapporto che si cerca così con li mondo degli
educatori non è una alleanza, è una sudditanza ancillare e muta. Un approccio
che rende pedagogicamente ridicola la tesi di un discorso che presume di essere
efficace alternando parole educative a parole repressive: Pando non apre uno
spazio educativo, Pando lo chiude (del resto sa solo abbaiare). Che il
professor Coppoli si sia sentito espropriare di parola e ruolo è il minimo.
Secondo: la sconcertante impermeabilità nel tempo di queste prassi alla
“evidenza” della loro inefficacia: la santa alleanza tra “educare e punire” -
manifesto della nostra legislazione nazionale - ha dimostrato nei decenni
la sua pochezza (vedere gli andamenti dei consumi per credere). Lo “scared
approach”, approccio deterrente, di reganiana memoria (do you remember “Just
say no!” e la Zero tollerance?) ha avuto proprio negli States, dove ha drenato
milioni di dollari per un semplice bluff, la sua più radicale critica. Da un
lungo elenco: gli studi di Rodney Skager, California, sul fatto che,
repressione o no, i ragazzi consumano comunque, quello della Università del
Michigan, che ha indagato sulla inutilità dei test sui ragazzi, fino al modello
educativo “La sicurezza al primo posto: un approccio basato sulla realtà” della
pedagogista Marsha Rosenbaum, San Francisco, che così sintetizza il suo
pensiero: «La realtà, secondo le ricerche promosse dallo stesso governo degli
Stati uniti, è che oltre la metà dei giovani adolescenti americani sperimenta
l’uso di droghe illegali nel periodo in cui frequenta le scuole medie
superiori. Tuttavia, l’obiettivo principale della gran parte dei programmi è
quello di prevenire il consumo. Al contrario, un approccio realistico dovrebbe
concentrare le nostre energie sulla prevenzione dei comportamenti d’abuso.
Continuiamo a enfatizzare il valore dell’astinenza, a supportare quegli
studenti che dicono “no alle droghe”, mentre dovremmo offrire un’informazione
onesta e scientificamente corretta a tutti coloro che dicono “forse”, o
“qualche volta” o “sì”».
E qui sta il terzo punto: è ora che gli educatori (tutti, dai genitori agli
insegnanti al mondo adulto) si riprendano parola e responsabilità. Il gesto di
Franco, dei colleghi e dei genitori che hanno solidarizzato con lui, ha senso
se si restituisce alla “normalità” delle relazioni quotidiane il discorso
sull’uso di sostanze da parte dei ragazzi. Si chiama “drug education”,
significa consapevolezza, ascolto, informazione corretta. Significa, con Marsha
Rosembaum, prevenire l’abuso e contenere i rischi. Ma “drug ediation” non ha
una traduzione in italiano, noi abbiamo preferito, grazie al Dipartimento
antidroga, puntare su “early detection” (questa sì, tradotta) che significa
individuare – magari invitando i genitori ad effettuare i test sui figli o
mandando i cani - i consumi per avviare i ragazzi/e alla patologizzazione e
alla repressione. Un suicidio educativo.
Pubblicato da LF il 24/04/2014
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