Il documento. Il governo punta forte su un modello che ha già fatto disastri negli States. Adottando il «bring your own device», ovvero «portati il tuo pc da casa», e «social impact bonds» a beneficio dei privati. Così il preside-manager sarà costretto a cercarsi uno sponsor
Rem tene, verba sequentur (attieniti ai fatti, le
parole seguiranno) si diceva tanto tempo fa. E allora analizziamo le
parole e ricostruiamo induttivamente il paradigma culturale sotteso
alla recente proposta del Governo sulla scuola.
Il documento,
da sottoporre nei prossimi due mesi a consultazioneonline
e offline, è tutto un florilegio di anglismi: la
scuola deve uscire dalla comfort
zone e diventare
l’avamposto del rilancio del made
in Italy. Dotarsi di insegnanti mentor capaci di proporre formazione online ma anche blended. Produrre piattaforme
sperimentali con un design
challenge lanciato
prestodaun hackaton mirante alla creazione di una app. Attrezzarsi per sfide
di governance e policy a colpi di data school nazionali, design di servizi e opening
up education, ovviamente
riferita allebest
practices.
Ma non
basta: finalmente arriva la good
law e il nudging sbarca al Miur perché «assicurare
piena comprensione e chiarezza su quanto il Miur pubblica
è un’azione di apertura e trasparenza di pari dignità rispetto
all’apertura dei dati».
La buona
scuola promuove il CLIL,
cioè il Content and Language Integrated Learning,
e alle elementari insegna il coding attraverso la gamification. Valorizza
il problem solving, il decision making e, ove necessario, potenzia
l’agri-business.
Gli studenti diventeranno digital
makers, si supererà il digital
divide e riusciremo
a intrattenere gli early
leavers, ovvero quei «giovani disaffezionati» (sic)
che la scuola oggi non riesce a tenere con sé. Per fare questo adotta il BYOD, bring your own device, ovvero
«portati il tuo pc da casa». Ma, non paga, la buona scuola del governo proporrà school bonus, school guarantee, crowdfunding, emettendo
all’occorrenza social
impact bonds a beneficio
dei privati che vorranno approfittare del succulento banchetto
dell’istruzione imbandito da Renzi. Good
appetite.
Ma
l’anglofilia del documento non si esaurisce nella patina lessicale
e nel registro linguistico. La buona scuola di Renzi è quella americana,
autonoma nell’organizzazione, nella didattica e nei finanziamenti.
È la scuola intesa non come istituzione della Repubblica, costituzionalmente
garantita a tutti e che offre pari opportunità di accesso critico
alla conoscenza e al sapere, bensì come espressione differenziata,
culturalmente marcata e competitiva, delle realtà e delle comunità
locali: la scuola che si fa il suo progetto formativo e si cerca sul
mercato qualcuno che abbia interesse a pagarlo.
La scuola,
in America, è nata prima degli Stati Uniti, quando i coloni strappavano
le terre ai Nativi e costruivano prigioni e saloon. Comitati locali
le organizzavano, spesso in case private, si procuravano gli insegnanti,
mettevano a disposizione i libri e la Bibbia non mancava
mai. Oggi i comitati si chiamano Consigli Direttivi, sono composti
da cittadini eletti e mantengono gli stessi compiti: adottano programmi
didattici e gestiscono il bilancio. L’autonomia scolastica consente
alle famiglie americane il controllo sui contenuti dell’insegnamento — in
Lousiana e nel Tennessee, la lobby creazionista ostacola tenacemente
l’insegnamento dell’evoluzionismo — e permette ai funzionari eletti di
imporre contenuti e metodi di insegnamento nei loro distretti
scolastici.
La frammentazione
della scuola pubblica americana ha prodotto e produce risultati scolastici
così scadenti da indurre oggi il Congresso a forme di controllo centralizzato ex post. Standard
e obiettivi di apprendimento nazionali da misurare con batterie di
test dai cui risultati dipende la sopravvivenza o la chiusura delle
scuole. Un rimedio peggiore del male, perché trasforma l’insegnamento in
addestramento e, soprattutto, non solleva gli studenti americani dalle
ultime posizioni nelle classifiche internazionali. La buona scuola di
Renzi è quella di un paese, l’America, in cui le scuole migliori sono private
e costosissime; un paese in cui anche le scuole pubbliche, finanziate
con la fiscalità municipale, possono avere rette molto elevate e dove
le più accessibili si trovano nei quartieri deprivati e accolgono
i poveri, gli svantaggiati, i discriminati. Un paese in cui la
disparità economica è direttamente proporzionale alla disparità
educativa.
C’è un passaggio,
nel documento, in cui si dice che «ogni scuola dovrà avere la possibilità
di schierare la squadra con cui giocare la partita dell’istruzione», ossia
la libertà di scegliere i docenti che riterrà «più adatti» per realizzare
la propria offerta formativa. La metafora calcistica di berlusconiana
memoria, rivela esattamente qual è la direzione del governo: portare
a compimento il processo di privatizzazione della gestione della
scuola intrapreso da Berlinguer con la legge sull’autonomia e, contemporaneamente,
completare il percorso di arretramento dello stato inaugurato da Tremonti,
fino alla completa dismissione della scuola pubblica. Il preside-manager,
costantemente in cerca di sponsor per finanziare la sua scuola, sceglierà
e licenzierà discrezionalmente i suoi docenti, affiancato in questo
da un nucleo di valutazione in cui la presenza di esterni garantirà forme
di controllo politico-culturale ma soprattutto il ritorno economico degli
investimenti privati. L’esperienza di Channel One, che in America ha un
contratto con 12.000 scuole, imponendo a milioni di studenti in classe
dosi quotidiane della sua programmazione televisiva e pubblicitaria,
dovrebbe indurre i cittadini italiani a una riflessione seria.
Il resto
del documento è pura demagogia. La proposta del servizio civile
a scuola, la collaborazione con il terzo settore, l’ingresso del
volontariato: un omaggio dell’esecutivo a certa cultura scoutista
e democristiana; il riferimento alla sussidiarietà, una strizzata
d’occhio a Compagnia delle Opere e a Comunione e Liberazione.
E infine,
l’impegno di assunzione di 150.000 precari nel 2015, accompagnato
dall’ignobile ricatto a milioni di insegnanti di ruolo che impone di
rinunciare al loro attuale status giuridico e di restare inchiodati
fino alla pensione al loro miserevole stipendio iniziale. Un impegno
spacciato come scelta e come testimonianza della volontà del governo di
investire nella scuola, in realtà ineludibilmente imposto dalla procedura
d’infrazione avviata a Bruxelles contro l’Italia per la violazione
della normativa comunitaria sulla reiterazione dei contratti
a termine.
Una promessa
da far tremare i polsi in tempi di tagli draconiani e di riforme
feudali imposte dalla Troika: ma forse, l’ennesima velleità di chi, assai
pericolosamente, «vuo’
fa’ l’americano».
Anna Angelucci, Associazione
Nazionale Per la Scuola della Repubblica
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