Stati uniti. Secondo una società
collegata alla Cia, gli islamisti punterebbero al sud est asiatico
Musulmani indonesiani
a Jakarta
Mentre l’Isis diffonde attraverso le compiacenti
reti mediatiche mondiali le immagini della terza decapitazione di un cittadino
occidentale, suona un altro campanello di allarme: dopo essersi diffuso in
Siria e Iraq, l’Isis sta penetrando nel Sud-Est asiatico. Lo comunica
la Muir Analytics, società che fornisce alle multinazionali «intelligence
contro terrorismo, violenza politica e insurrezione», facente
parte dell’«indotto» della Cia in Virginia, usata spesso dalla casa madre per
diffondere «informazioni» utili alle sue operazioni.
Campo in cui la Cia ha una consolidata esperienza.
Durante le amministrazioni Carter e Reagan essa finanziò e addestrò,
tramite il servizio segreto pachistano, circa 100mila mujaheddin per combattere
le forze sovietiche in Afghanistan. Operazione a cui partecipò un
ricco saudita, Osama bin Laden, arrivato in Afghanistan nel 1980 con
migliaia di combattenti reclutati nel suo paese e grossi finanziamenti.
Finita la guerra nel 1989 con il ritiro delle truppe sovietiche
e l’occupazione di Kabul nel 1992 da parte dei mujaheddin, le cui
fazioni erano già in lotta l’una con l’altra, nacque nel 1994 l’organizzazione
dei taleban indottrinati, addestrati e armati in Pakistan per conquistare
il potere in Afghanistan, con una operazione tacitamente approvata da
Washington.
Nel 1998, in una intervista a Le Nouvel
Observateur, Brzezinski, già consigliere per la sicurezza nazionale
Usa, spiegò che il presidente Carter aveva firmato la direttiva per la formazione
dei mujaheddin non dopo ma prima dell’invasione sovietica dell’Afghanistan
per «attirare i russi nella trappola afghana». Quando nell’intervista
gli fu chiesto se non si fosse pentito di ciò, rispose: «Che cosa era più
importante per la storia del mondo? I taleban o il collasso
dell’impero sovietico?».
Non ci sarebbe quindi da stupirsi se in futuro qualche
ex consigliere di Obama ammettesse, a cose fatte, ciò di cui già oggi
si hanno le prove, ossia che sono stati gli Usa a favorire la nascita
dell’Isis, su un terreno sociale reso «fertile» dalle loro guerre, per lanciare
la strategia il cui primo obiettivo è la completa demolizione della
Siria, finora impedita dalla mediazione russa in cambio del disarmo chimico
di Damasco, e la rioccupazione dell’Iraq che stava distaccandosi da
Washington e avvicinandosi a Pechino e Mosca.
Il patto di non-aggressione in Siria tra Isis e
«ribelli moderati» è funzionale a tale strategia (v. sul manifesto del
10 settembre la foto dell’incontro, nel maggio 2013, tra il senatore Usa
McCain e il capo dell’Isis facente parte dell’«Esercito siriano libero»).
In tale quadro, l’allarme sulla penetrazione dell’Isis nelle Filippine, in
Indonesia, Malaysia e altri paesi a ridosso della Cina – lanciato
dalla Cia attraverso una sua società di comodo – serve a giustificare
la strategia già in atto, che vede gli Usa e i loro principali alleati
concentrare forze militari nella regione Asia/Pacifico.
Là dove, avvertiva il Pentagono nel 2001, «esiste
la possibilità che emerga un rivale militare con una formidabile base di
risorse, con capacità sufficienti a minacciare la stabilità di una
regione cruciale per gli interessi statunitensi». La «profezia» si è avverata,
ma con una variante. La Cina viene temuta oggi a Washington non tanto
come potenza militare (anche se non trascurabile), ma soprattutto come
potenza economica (al cui rafforzamento contribuiscono le stesse multinazionali
Usa fabbricando molti loro prodotti in Cina). Ancora più temibile diventa
la Cina per gli Usa in seguito a una serie di accordi economici con la
Russia, che vanificano di fatto le sanzioni occidentali contro Mosca,
e con l’Iran (sempre nel mirino di Washington), importante fornitore
petrolifero della Cina.
Vi sono inoltre segnali che la Cina e l’Iran
siano disponibili al progetto russo di de-dollarizzazione degli scambi commerciali,
che sferrerebbe un colpo mortale alla supremazia statunitense. Da qui
la strategia annunciata dal presidente Obama, basata sul principio (spiegato
dal New York Times) che, in Asia, «la potenza americana deve
seguire i suoi interessi economici». Gli interessi Usa che seguirà
l’Italia partecipando alla coalizione internazionale a guida Usa
«contro l’Isis».
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