L’analisi di Fontana è insidiosa perché fa finta di schierarsi con la “verità” e quindi dalla parte delle ragioni dei palestinesi per poi mettere nero su bianco una serie di affermazioni prese pari pari dall’ideologia sionista e contribuire così alla disinformazione e alla confusione riguardo il “conflitto israelo-palestinese”.
Un conflitto politico allo stesso tempo semplice da capire (si tratta della resistenza di un popolo alla sua progressiva esclusione dalla terra dove ha sempre vissuto e all’impossibilità di autodeterminazione e indipendenza) e che racchiude definizioni complesse e coppie concetti di non immediata comprensione e con significati ambigui: nazione/popolo, ebrei/israeliani, arabi/palestinesi, arabi/musulmani ecc.
Ma in fondo spiegare questo conflitto “è la semplicità, che è difficile a farsi”.
Dice Fontana che “…in queste quattro cartine si usano criterî completamente incoerenti per colorare di verde o di bianco le terre palestinesi e israeliane. In particolare, è ciò che viene definito “terra palestinese” a variare ogni volta al fine di suggerire l’idea di questo scenario fittizio: nella prima mappa è “terra palestinese” qualunque posto dove non ci siano ebrei (ma magari neanche palestinesi); nella seconda si considera “terra palestinese” quello che l’ONU aveva proposto alle due parti; nella terza si considera “terra palestinese” quella che era occupata dalla Giordania; nella quarta si considera “terra palestinese” quella che Israele riconosce come tale”.
Qualsiasi persona in buona fede capisce il senso di questa mappa – e contestarla su un piano formalmente “scientifico” o geografico è una bugia truffaldina.
La realtà è un po’ diversa. In primo luogo il Negev non era e non è disabitato, ma territorio di famiglie beduine che sono poi state sfollate in altre zone dallo stato di Israele (del quale sarebbero formalmente cittadine) per le esigenze di colonizzazione sionista (vedi Be’er Shiva, Dimona ecc). Pratica che continua ancora ora - come mostra la vicenda dei villaggi non riconosciuti e della battaglia che queste famiglie beduine continuano a portare avanti per difendere la loro presenza sulla “terra palestinese”.
In secondo luogo si definisce “terra ebraica” quella degli insediamenti dove vivevano le comunità sioniste e gli storici abitanti ebrei in Palestina. I dati del periodo sono molto chiari: nel 1946 vivevano nel territorio della Palestina storica 1.270.000 arabi e 610.000 ebrei; nel 1947 gli ebrei possedevano circa il 6-8 % del territorio, che rappresentava il 24% della terra coltivabile (anche se il movimento sionista ne aveva già occupati circa il doppio).
In questo senso l’immagine spiega questo fatto: un movimento politico (il sionismo) rivendicava il diritto nazionale di occupare terra in Palestina per costruirvi un proprio stato – e lo faceva con una presenza minoritaria in quel territorio, sia sul piano della popolazione che delle “terra”.
Ora, sappiamo bene che gli stati arabi non accettarono quella risoluzione per motivi che nulla hanno a che fare con diritti e benessere della popolazione palestinese. Ma sappiamo anche bene che quel piano era inapplicabile proprio perché si riferiva a “territori” senza prendere in esame la realtà delle popolazioni che li abitavano.
Quel piano prevedeva la creazione di uno stato ebraico sul 56% del territorio (per una popolazione di circa il 35%) di fonte al 44% per uno stato arabo (il 65% della popolazione complessiva. Ma che fine avrebbe fatto la popolazione araba che abitava il territorio assegnato al nascente stato ebraico? Il piano dell’Onu non era chiaro su questo, e lì sta il dramma futuro della nascita dello Stato di Israele e della cancellazione di qualsiasi stato palestinese indipendente e autonomo.
Movimenti sia arabi che ebraici non-sionisti proponevano altre soluzioni – uno stato democratico bi-nazionale, per esempio – ma il sionismo si affermò sul piano politico all’interno e su quello militare all’esterno.
Com’è ancora storicamente possibile parlare di guerra dichiarata dai paesi arabi, dopo i libri scritti dagli stessi storici israeliani?
Quella guerra – chiamata “di indipendenza” dagli israeliani, la Nakba (catastrofe) per i palestinesi – fu una scelta del movimento sionista e delle sue formazioni armate (comprese quelle terroristiche che operavano da diversi anni, contro la popolazione palestinese e la presenza britannica) per “ripulire” il territorio del futuro stato ebraico del maggio numero possibile di palestinesi, attraverso operazioni militari, vere e proprie stragi (es. Deir Yessin), connivenze internazionali (lasciamo stare sciocchezze tipo “creazione dell’imperialismo”, ma è evidente che le potenze occidentali, e l’Urss stessa, avevano interesse alla nascita di uno stato ebraico, quindi più “simile” a loro, in quella regione – per evitare qualsiasi autonomia e indipendenza araba).
L’immagine fotografa quella realtà: alla fine di quella guerra, Israele occupava il 78% del territorio della Palestina storica, cacciando da quello stesso territorio circa 700.000 palestinesi – l’origine di quei profughi a cui ancora oggi viene negato il diritto al ritorno sancito dall’assemblea dell’Onu e dal diritto internazionale).
Nessuno di coloro che utilizza quell’immagine ne vuole fare la “speranza” dei palestinesi, quanto una descrizione politica della realtà odierna – frutto anche degli errori e dei crimini del dopo-Oslo (e di quello stesso accordo).
Ma di quale “concessione” stiamo parlando? Ma di quale “autogoverno”?
Israele non deve “concedere” proprio nulla: sulla base delle risoluzioni dell’Onu e del diritto internazionale deve immediatamente ritirarsi dai territori occupati nel 1967 e riconoscere il diritto al ritorno e l’indennizzo ai profughi palestinesi. Su quella base si potrà poi discutere di una soluzione politica.
La data del 2000 non confonde proprio nulla: è la data della realtà di una progressiva sottrazione di terra ai palestinesi da parte di tutti i governi israeliani, attraverso il Muro dell’Apartheid, gli insediamenti illegali, le strade by-pass, le infrastrutture di collegamento ad uso dei coloni e così via. Un progetto prima politico che militare.
Un cartina davvero efficace, se c’è qualcuno che si prende la briga di cercare di distruggerne l’utilità.