Come ho ricordato nel frammento di memoria “Nel Consiglio di Fabbrica della Belleli (1976-1980)” (pubblicato su questo sito), quando fui eletto delegato del Consiglio di Fabbrica nell’autunno 1976 “facevo parte allora di una piccola organizzazione di base costituita da lavoratori e da delegati sindacali e ci proponevamo di portare avanti quelli che, secondo noi, erano gli interessi immediati dei lavoratori inserendoli nella prospettiva della emancipazione storica come classe (la “Commissione Comunista Operaia”, CCO per noi e i nostri simpatizzanti).”
Anzi, per essere preciso, fondammo la CCO proprio nell’autunno del 1976. Allora eravamo appena in quattro ma, con l’andar del tempo, aumentammo pian piano di numero (sempre, per la verità, con piccoli numeri) man mano che aumentava la nostra notorietà e crescevano i consensi nei confronti delle nostre posizioni politiche tra i lavoratori delle fabbriche della zona industriale di Mantova e dei comuni vicini (di Porto Mantovano, in particolare).
All’inizio eravamo in quattro … Fu Albino, un compagno fuoriuscito da Lotta Comunista che io e mia moglie ospitavamo a casa nostra per solidarietà proletaria e per simpatia umana, a spingerci ad uscire dalle nostre posizioni di critica radicale “astratta” di quel periodo (improntate al rifiuto del “cattivo esistente”, per dirla alla T. W. Adorno) e ad imboccare di nuovo la strada della “prassi” politica. Ma prima di arrivare a quel punto, su consiglio di Albino, avevo affrontato un percorso di progressivo avvicinamento alla teoria “leninista” partecipando a tutte le relazioni pubbliche di Lotta Comunista (cosa che mi spinse a leggere le “Opere scelte” per farmi un’idea personale della interpretazione leninista del marxismo).
Dopo mesi di discussioni e dibattiti tra noi quattro, che provenivamo da esperienze politiche ed esistenziali diverse ed avevamo sensibilità politiche (e, ovviamente, personali) molto diverse, decidemmo ch’era giunto finalmente il momento di passare alla pratica. Si approssimava l’autunno del 1976 e pensavamo che fosse doveroso “scendere in campo” per contribuire all’avanzata del movimento dei lavoratori e del proletariato che, nonostante le stragi di Stato (Piazza della Fontana, Piazza della Loggia, l’Italicus, e quelle minori) e nonostante la repressione continua delle avanguardie di lotta, sembrava deciso ad affermare i propri diritti e, con ciò, a radicalizzare la crisi del sistema borghese.
Io ero propenso a continuare al “vecchio” modo della controcultura: darsi un nome diverso a seconda delle specifiche caratteristiche della fase. Questo significava, implicitamente, che, secondo me, la nostra avrebbe dovuto proporsi a livello progettuale come una “organizzazione per obiettivi”, che poteva cambiare nome e composizione – quanto agli appartenenti – a seconda delle esigenze di crescita della lotta fase per fase (allora non si contemplava l’ipotesi di dover arretrare pesantemente, com’è accaduto invece successivamente a partire dalla sconfitta dell’ottobre 1980 alla FIAT). D’altra parte, questa era la mia esperienza personale: da “Un occhio in due” fino alle “Streghe”, continuando a cambiare compagni di lotta e di strada, e nome del collettivo di riferimento.
Albino, che invece aveva frequentato le scuole di formazione politica prima nella FGCI e poi in Lotta Comunista, mise noi tre “spontaneisti” davanti al fatto che il “San Paolo del movimento comunista internazionale”, il compagno Lenin, aveva detto che la questione del nome dell’organizzazione era fondamentale per la implicita dichiarazione del suo programma e per la sua riconoscibilità e identificazione da parte degli strati proletari di riferimento (come si diceva allora: gli strati proletari di avanguardia).
Così, si avviò il dibattito tra noi sul nome da assumere come organizzazione, il nostro piccolo strumento di lotta. Condividevamo tutti l’idea che ci dovesse essere un chiaro richiamo alla classe operaia, perché era il nostro comune riferimento (“La classe operaia deve dirigere tutto” all’epoca era uno degli slogan non solo dei maoisti, ma anche dei comunisti consiliaristi, degli operaisti, ecc.). Albino sosteneva che nel nome ci doveva essere un riferimento anche al comunismo, perché gli operai senza la guida del Partito non si elevano alla coscienza di classe ma, al più, maturano una coscienza sindacale. Nel bel mezzo della discussione, mi venne un’idea: “Frazione Comunista Operaia”. << Perché Frazione?>> mi chiese Albino, con il tono tra il mellifluo e il perentorio che assumeva quando si investiva del ruolo di commissario politico nei confronti della nostra “armata Brancaleone”. “Perché non siamo un partito e neppure una vera e propria organizzazione, ma una particella, una frazione del movimento comunista.” risposi pronto, ma lui aveva capito qual’era il “conio” da cui proveniva il termine “frazione” e mi obiettò: <> E, dopo un attimo di esitazione, aggiunse: << Se proprio, come mi pare di capire, vogliamo comunque far sentire anche nel nome il nostro comune sentimento internazionalista, allora propongo che il nome sia Commissione Comunista Operaia, in onore delle Comisiones Obreras organizzate dal PCE negli anni ‘60 in Spagna per condurre la lotta di resistenza sindacale e politica clandestina contro il regime fascista di Franco.>>
Inutile dirlo che fummo tutti d’accordo e che il nome che adottammo per la nostra piccola organizzazione “dal basso” fu proprio “Commissione Comunista Operaia”.
Esordimmo con una campagna massiccia di affissioni: nel giro di 2-3 notti attacchinammo in giro per Mantova e nella zona industriale 300 manifesti dal contenuto inequivocabile: “Nessun sacrificio, non collaborare!”. 300 manifesti in una cittadina di neppure sessantamila abitanti erano tanti (rispetto ai livelli globali della comunicazione all’epoca): ce n’erano davanti alle fabbriche della zona industriale, sulla stazione delle corriere, davanti all’INAM, davanti all’INPS, davanti all’ospedale, davanti all’ENEL, davanti alla SIP, sulle cabine telefoniche in città, ecc. Non si poteva non notarli. Fu un esordio con il “botto”.
Purtroppo, la campagna ebbe come conseguenza inattesa l’abbandono di M. che ci disse che si era reso conto di non essere portato per il tipo di iniziative che noi volevamo attuare e tornò alla sua attività di artista d’avanguardia. Ma fu presto rimpiazzato da Bruno, un giovane operaio delegato di una fabbrica importante di Porto Mantovano, la TecnoSalotto. L’ingresso di Bruno fu determinante per lo sviluppo della CCO sotto vari aspetti: la sua grande esperienza di lotte di fabbrica, il prestigio di cui godeva come delegato combattivo presso gli operai della zona industriale di Porto Mantovano, la sua capacità di elaborazione autonoma della linea politica e sindacale, non da ultimo, la sua concretezza operaia che fungeva da antidoto rispetto alla tendenza ad ideologizzare mia e di Albino.
Pian piano aumentammo di numero e godevamo di consensi e appoggi operai (soprattutto alla Belleli, alla TecnoSalotto e in altre fabbriche minori). Quando ci sentimmo sufficientemente radicati nelle fabbriche, decidemmo di aprire il “fronte giovani”, contando sulla esperienza che alcuni di noi avevano avuto nel movimento studentesco degli anni precedenti. Così, nel marzo 1978, aprimmo un centro di documentazione militante davanti alla stazione di Mantova, il Filo Rosso. A quel punto la nostra piccola organizzazione aveva due livelli: la CCO che era l’organismo “operaio” dirigente e il Filo Rosso che era il nostro organismo giovanile “di massa” con una trentina di iscritti/partecipanti alle varie iniziative.
La CCO si sciolse nel 1982 a seguito dell’ondata repressiva che si abbatté sulle avanguardie di lotta nella stagione degli arresti di massa (circa 7000 persone imputate in processi per ‘associazione sovversiva’, ‘banda armata’ e ‘insurrezione armata contro i poteri dello Stato’, tra la fine degli anni ’70 e la fine degli anni ’80. Fonte: “La mappa perduta”, Edizioni Sensibili alle foglie, 2006).
Dante Goffetti
Bergamo, 1° novembre 2012