CHIAMATA DIRETTA
di Gianluca Gabrielli
Per uno storico della scuola i fascicoli personali dei docenti sono sempre una sfida. Solitamente all'Archivio si presentano polverosi e disposti in un asettico ordine alfabetico; se non li si affronta a partire da una lista di nomi significativi, il fondo che li conserva appare in superficie come un mare indistinto che cela informazioni burocratiche e storie personali giustapposte casualmente. All'interno di ogni cartella però, tra una gran parte di carte bollate e di certificati carichi dei segni dell'epoca, emergono ogni tanto i lampi dei contenziosi, delle sanzioni, dei carteggi che conservano tracce delle sfide con genitori o con i superiori, sedimenti delle problematiche personali, e allora l'analisi si fa interessante, l'azione interpretativa è richiesta. Così questa estate, tra un viaggio reale e l'altro, mi sono regalato una mattinata per tuffarmi in un faldone di fascicoli personali degli anni Venti-Cinquanta del secolo scorso, scelto a caso.
Cosa mi ha colpito – docente del XXI secolo - in questa immersione nelle carte dei nonni? Piccole cosette, poco più che semplici indicazioni di possibili ricerche, ma tuttavia stimolanti. Ad esempio la croce di guerra al valore guadagnata sul campo dal combattente nel 1935 in Etiopia e rivendicata come punteggio (un intero punto) nella domanda per le graduatorie del secondo dopoguerra (piccolo segnale di un orgoglio patriottico imperialista che non era per nulla scalfito dalla fine del fascismo e che continuava a fruttare i suoi vantaggi nell'assegnazione degli incarichi). Oppure le numerose (e per forza di cose ripetute) domande delle maestre per avere una deroga all'obbligo di residenza nel comune della scuola, adducendo lunghe liste di certificazioni di bambini piccoli, madri malate e quant'altro poteva far desistere ispettori e provveditori dal pretendere l'azione di presidio del territorio che veniva richiesta all'epoca al docente della scuola elementare.
Ma, visto che lo sguardo dello storico occasionale si nutre soprattutto degli stimoli del presente, ciò che mi ha colpito di più sono due letterine indirizzate al Provveditore di turno e finalizzate a caldeggiare favori e aiuti per due maestri. Per il primo scrive il presidente del Partito nazionale fascista del luogo, ricordando al Provveditore che il maestro è attivo nell'istruzione premilitare del paese e che quindi sarebbe utile la revoca del suo imminente trasferimento, in modo da permettere al docente di continuare la sua preziosa attività volontaria. Per il secondo prende la penna il direttore dell'Opera nazionale balilla di un altro paese, ricordando l'impegno del maestro come combattente in Etiopia e chiedendo, ora che è tornato e non ha incarico, una sua nomina, magari vicino a casa. Dalle carte contigue si intuisce che le richieste trovano accoglienza, così che non tardano ad arrivare le “deroghe” alle normali procedure. Due episodi di raccomandazioni su una quindicina di fascicoli personali non costituiscono certo un dato statistico solido, ma forniscono almeno una suggestione. Viene da leggere il dato in accordo con le ricerche di Paul Corner che in Italia fascista analizza il funzionamento del partito mussoliniano come una macchina sempre accompagnata da una corruzione strutturale, un male profondo che il fascismo sembra ereditare dal lungo periodo della storia nazionale e che le vicende degli anni recenti sembrano suggerirci ancora vitale.
Scrivevo dell'insopprimibile spinta a guardare al passato con gli occhi del presente. Questa estate ho avuto occasione di leggere anche qualche cronaca sulla prima applicazione della procedura per la chiamata diretta dei docenti affidata ai singoli dirigenti scolastici, prevista dalla L. 107. Viene messo in soffitta il vecchio meccanismo di assegnazione alle scuole basato sulle graduatorie a punteggio e sulle scelte degli insegnanti in ordine di posizione. Le nuove regole prevedono che il docente si presenti al cospetto dei dirigenti dell'ambito territoriale stilando un profilo personale, provando cioè ad inventarsi competenze particolari che lo rendano preferibile ai suoi colleghi abilitati per il medesimo insegnamento. I dirigenti dal canto loro dovrebbero arricchire i curricoli della loro scuola di una serie di variabili particolari per poi andare a cercare, nella platea dei docenti disponibili, quelli che meglio vi si sposano. Nella mente del legislatore c'è un'idea di scuola flessibile che muta continuamente la propria forma sulla base del mutare della società; ma se un'idea simile può rispondere alla continua esigenza di riscrivere i modelli in produzione di un'azienda di scarpe o di automobili, risulta alquanto ridicola se applicata alla maestra di italiano di una scuola elementare, oppure all'insegnamento dell'inglese nella scuola media o ancora della chimica all'istituto tecnico. Solo chi non conosce le dimensioni della macchina della scuola pubblica statale e le sue esigenze di base rispetto ai curricoli può pensare che si realizzi un incontro di affinità elettive tra i profili creativi e fantasmagorici degli insegnanti e le esigenze singolari delle scuole. Chi si presenta come particolarmente esperto in didattica cooperativa, dove ha maturato questa competenza: seguendo un master, leggendosi dei libri o realizzando un progettino nella sua scuola? E si può pensare ad un futuro in cui una scuola o una classe propone cooperative learning e l'altra no? Il vecchio concetto che si declinano le didattiche sulla base dei contesti e dei profili degli studenti deve essere messo in soffitta?
Temo che la realtà che si andrà affermando sarà ben più prosaica. Ad esempio nella scuola primaria se cinque dirigenti si dovranno suddividere 20 o 30 insegnanti, cercheranno di prendere chi conoscono, oppure chi è giovane, faranno in modo da evitare i sindacalizzati, vedranno di scegliere chi sia disponibile a fare supplenze, a stare su più plessi, a tappare i buchi in silenzio. Visto che nel giro di una decina di anni, tra le richieste di trasferimento e il turn over dei pensionamenti, confluirà in questi ambiti almeno il 40% degli insegnanti, quello che si prospetta nel corpo docente è una rapida crescita dell'opportunismo, dei comportamenti subalterni, dell'invenzione creativa di profili funzionali per sperare di finire in quella scuola elementare vicina a casa piuttosto che in quell'altra, in quell'istituto tecnico cittadino meglio che nell'altro di provincia. Non riemergerà certo la lettera al provveditore di settant'anni fa, ma molto più banalmente (e legittimamente) fioriranno tra luglio e agosto le chiamate e le mail di segnalazione e di presentazione ai dirigenti, abbellite di competenze creative e di vantate abilità tecnologico-organizzative.
Un'amica mi ascolta pazientemente, e quando finisco di sfogarmi sorride un po' beffarda: “Nelle aziende come credi che sia?” Già. Presentarsi o farsi presentare bene, non avere trascorsi conflittuali, sapersi vendere, agire in modo conforme alle aspettative: ecco le coordinate del profilo futuro degli insegnanti. Quando ogni tre anni finiremo tutte e tutti in questa specie di agenzia interinale, quando dovremo “venderci” al dirigente della scuola vicina a casa e cercare di evitare l'assegnazione d'ufficio nella scuola dall'altra parte della città, allora presumibilmente il conformismo sarà divenuto uno degli elementi fondanti la nostra forma mentis e quella della scuola pubblica; la mutazione sarà conclusa. Sembra inevitabile.
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