visto il particolare contesto informativo di 
monopolio del punto di vista critico dei processi politici 
latinoamericani e di quello venezuelano in particolare, prego 
specialmente di far circolare e condividere questo articolo (gc).
L’immagine
 che non troverete commentare sui nostri media è quella di Hugo Chávez, 
del dittatore trinariciuto Hugo Chávez, accompagnato al seggio dal 
premio Nobel per la Pace guatemalteco Rigoberta Menchú e da Pilar 
Córdoba, che da noi è meno conosciuta ma che è un gigante della difesa 
dei diritti umani violati nella vicina Colombia. È una scelta simbolica e
 sono figure talmente cristalline e inattaccabili, quelle di Rigoberta e
 Pilar, che il fiele antichavista, che si sparge a piene mani in queste 
ore per sminuire l’importanza della vittoria del presidente venezuelano 
nelle presidenziali di ieri, semplicemente le ignora. Rigoberta Menchú e
 Pilar Córdoba che sostengono Chávez sono ingombranti per chi si dedica 
da anni a costruire l’immagine falsa di un violatore di diritti umani e 
quindi vanno cancellate. Sono donne latinoamericane, indigena una, nera 
l’altra. Sono
 state vittime e hanno combattuto il terrorismo di stato, sanno cosa sia
 il neoliberismo, sanno cosa sono le violazioni dei diritti umani e mai 
le avallerebbero, conoscono la storia del Continente e proprio per 
questo stanno con Hugo Chávez.
Mille
 commenti oggi si affannano a ragionare di percentuali e di erosione del
 consenso o mettono un cinico accento sulla salute del presidente che 
non avrebbe molto davanti. Eppure fino a ieri altrettanti commenti 
davano per sicura la sconfitta e sicuri i brogli (delle due l’una!), 
nonostante chiunque abbia toccato con mano, per esempio l’ex presidente 
statunitense Jimmy Carter, abbia definito esemplari le elezioni nel 
paese caraibico. Addirittura Mario Vargas Llosa dava così certa la 
vittoria di Capriles da prevedere l’assassinio di questo da parte del 
negraccio dell’Orinoco. Calunnie sfacciate. Ventiquattro ore dopo gli 
stessi editorialisti commentano il 55% di Chávez come una
 sconfitta del vincitore. Pace. Chi conosce la politica venezuelana sa 
come esistano geometrie variabili e storie di continue entrate e uscite 
sia da destra che da sinistra nell’appoggio al presidente che, fino a 
prova contraria -ne erano tutti sicurissimi- doveva essere bell’e morto 
di cancro per le elezioni di oggi. Invece non solo Chávez è vivo, e ne 
andrebbe elogiato il coraggio di fronte alla malattia ma si è confermato
 presidente del Venezuela.
Chávez ha vinto, che vi 
piaccia o no, sia per quello che ha fatto che per quello che 
rappresenta. Chávez ha vinto perché per la prima volta ha investito la 
ricchezza del petrolio in beneficio delle classi popolari che in questi 
anni hanno visto migliorato ogni aspetto della loro vita (salute, 
educazione, casa, trasporti). Non c’è nulla di rivoluzionario in questo,
 nonostante la retorica usata spesso a piene mani: “è il riformismo, 
stupido” direbbe Bill Clinton. È quanto rappresenta, invece, che fa 
essere Chávez rivoluzionario: conquistare pane e salute non è una 
conseguenza di un’economia affluente nella quale chi sta sopra può 
permettersi di essere così magnanimo da lasciare qualche avanzo. È un 
diritto fondamentale che va conquistato con la continuazione delle due 
battaglie storiche per la giustizia sociale e la dignità: la lotta di 
classe, nella quale il merito di Chávez è portare
 sulle spalle il peso del conflitto e quella anticoloniale, nella quale 
l’integrazione del Continente è un passaggio chiave.
In questo contesto la 
prima e più importante lezione del voto di ieri è che i venezuelani, e 
con loro buona parte del continente latinoamericano, non vogliono, 
ri-fiu-ta-no, la restaurazione liberale, la restaurazione dell’imperio 
del Fondo Monetario Internazionale, la restaurazione di un modello nel 
quale sono condannati a essere per l’eternità figli di un dio minore, 
mantenuti in una condizione di dipendenza semicoloniale dove le 
decisioni fondamentali sulla loro vita sono prese altrove. C’è un dato 
che a mio modo di vedere rappresenta ciò: in epoca chavista il Venezuela
 ha moltiplicato gli investimenti in ricerca scientifica di 23 volte 
(2.300%). Soldi buttati, si affrettano a dire i critici. Soldi investiti
 in un futuro nel quale i venezuelani non saranno inferiori a nessuno. I
 latinoamericani ragionano con la loro testa, hanno vissuto per decenni 
sulla loro pelle il modello economico che la
 Troika sta imponendo al sud dell’Europa e non vogliono che quell’incubo
 d’ingiustizia, fame, repressione e diritti negati ritorni. Il patto 
sociale in Venezuela non è stato rotto da Chávez ma fu rotto nell’89 
quando Carlos Andrés Pérez (vicepresidente in carica dell’Internazionale
 Socialista) con il caracazo fece massacrare migliaia di persone per 
imporre i voleri dell’FMI.
Ancora oggi alcuni 
commenti irriducibilmente antichavisti (la summa per disinformazione è 
quello di Gianni Riotta su La Stampa di Torino) rappresentano il 
candidato delle destre sconfitto come un seguace del presidente 
latinoamericano Lula. Divide et impera. Erano i velinari di George Bush 
ad aver deciso di rappresentare l’America latina spaccata in due tra 
governi di sinistra responsabili e governi di sinistra irresponsabili. È
 straordinario come i Minculpop continuino a far girare ancora le stesse
 veline: l’immagine di Capriles progressista e vicino a Lula è stata 
costruita a tavolino dai grandi gruppi mediatici, a partire da quello 
spagnolo Prisa. Il curioso è che Lula rispose immediatamente “a brutto 
muso” di non tirarlo in ballo, perché lui con Capriles non ha nulla a 
che vedere e appoggia con tutto se stesso l’amico e compagno Hugo 
Chávez. Non importa: loro, i Riotta, facendo finta di
 niente, continuano imperterriti a definire Capriles come il Lula 
venezuelano. Allo stesso modo continuano a ripetere la balla sulla 
mancanza di libertà d’espressione in un paese dove ancora l’80% dei 
giornali fa capo all’opposizione. È un’invenzione, ma la disparità 
mediatica è tale che è impossibile farsi ascoltare in un contesto 
mediatico monopolistico. Non siamo ingenui: nella demonizzazione di 
Chávez c’è ben altro che l’analisi degli eventi di un continente 
lontano. C’è lo schierare un cordone sanitario alla benché minima 
possibilità che anche in Europa si possa ragionare su alternative 
all’imperio della Troika. Lo abbiamo visto con il trattamento riservato 
ad Aleksis Tsipras in Grecia e a Jean-Luc Mélenchon in Francia: non è 
permesso sgarrare.
Soffermarci su tale 
dettaglio ci svela una realtà fondamentale difficilmente comprensibile 
dall’Europa: è talmente impresentabile il neoliberismo che in America 
latina è oggi necessario nasconderlo sotto il tappeto e spacciare anche i
 candidati di destra come progressisti. Aveva un che di paradossale 
ascoltare in campagna elettorale Capriles giurare amore eterno agli 
indispensabili medici cubani elogiandone il ruolo storico. Come già il 
suo predecessore Rosales, sapeva che senza medici non ci sarebbe pace in
 un Venezuela che oggi conosce i propri diritti e non è disposto a 
rinunciarvi, altro merito storico di Chávez. I Riotta di turno 
tergiversavano non solo sul riconoscimento dei meriti storici di Cuba 
nella solidarietà internazionale (o la riducono ad un mero scambio 
economico, salute per petrolio) ma negano anche l’informazione che era 
quello stesso Capriles, giovane dirigente politico
 dell’estrema destra venezuelana, che l’11 aprile 2002 diede l’assalto 
all’ambasciata cubana durante l’effimero golpe del quale fu complice. 
Che vittoria per i cubani se quello stesso Capriles fosse davvero stato 
sincero nel riconoscerne i meriti!
Questo è il segno del 
trionfo di Chávez: nelle classi medie e popolari venezuelane vige oggi 
un discorso contro-egemonico a quello liberale dell’imperio 
dell’economia sulla politica, della falsa retorica liberale per la quale
 tutti i diritti vanno garantiti a tutti ma a patto che siano messi su 
di uno scaffale ben in alto perché solo chi ci arriva con le proprie 
forze possa goderne. In Venezuela, in America latina, stanno spazzando 
via tutte le balle che racconta da decenni il Giavazzi di turno sul 
liberismo che sarebbe di sinistra. Chi lo ha provato, e nessuno come i 
latinoamericani lo ha provato davvero, sa bene di cosa si parla e non ci
 casca più. È un discorso quindi, quello chavista, che riporta in auge 
l’incancellabile ruolo della lotta di classe nella storia, la chiarezza 
della necessità della lotta anticoloniale, perché i “dannati della 
terra” continuano ad esistere e a risiedere
 nel Sud del mondo e non bastano 10 o 15 anni di governo popolare per 
sanare i guasti di 500 anni.
Eppure il Riotta di 
turno liquida ancora oggi come “inutili” i programmi sociali chavisti. 
Che ignoranza, malafede e disprezzo per il male di vivere di chi non ha 
avuto la sua fortuna. Milioni di venezuelani, che avevano come 
principale preoccupazione della vita l’alimentazione del giorno per 
giorno, la salute spiccia (banali cure per un mal di pancia, operazioni 
alla cateratta del nonno) che la privatizzazione della stessa nega a chi
 non può permettersela, l’educazione dei figli, la casa, passando da 
baracche a dignitose case popolari, oggi godono di un sistema sanitario 
pubblico che ha visto decuplicare i medici in servizio, di un sistema 
educativo pubblico che ha visto quintuplicare i maestri, di un sistema 
alimentare pubblico che permette a molti di mettere insieme il pranzo 
con la cena. “Inutili”, dice Riotta, con una volgarità razzista degna 
delle brioche di Maria Antonietta. Oggi queste
 persone, escluse fino a ieri, possono spingere il loro tetto di 
cristallo più in alto, respirare di più, desiderare di più, magari 
perfino leggere inefficienze e difetti del processo e avere 
preoccupazioni, quali la sicurezza, più simili alle classi medie che a 
quelle del sottoproletariato nel quale erano stati sommersi durante la 
IV Repubblica. Questo i Riotta non possono spiegarlo: è così 
inefficiente il chavismo che ha dimezzato i poveri che nella IV 
Repubblica erano arrivati al 70%.
Rispetto al nostro 
cammino già segnato, il fiscal compact, l’agenda Monti, il patto di 
stabilità, dogmi di fede che umiliano le democrazie europee, Chávez in 
questi anni ha cento volte errato perché cento volte ha fatto, provato, 
modificato ricette, ben riposto e mal riposto fiducia nelle persone e 
nei dirigenti in un paese terribilmente difficile come il Venezuela. È 
il caos creativo di un mondo, quello venezuelano e latinoamericano, che 
si è messo in moto in cerca della sua strada. Hanno chiamato questa 
strada socialismo, proprio per sfidare il pensiero unico che quel 
termine demonizzava. Anche se il cammino è tortuoso e ripido, è la più 
nobile delle vette.
Gennaro Carotenuto su http://www.gennarocarotenuto.it
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