 Si
 comincia sempre volentieri dalle frasi celeberrime di Mao. Frasi  
famosissime ma dotate di una tale grazia che  non sembrano logorarsi  
nonostante l’uso e lo scorrere del tempo. Eppure la frase utile per  
spiegare quanto accaduto in Sicilia è di Deng Xiao Ping e compie giusto 
 mezzo secolo: “non importa di che colore sia il gatto purché mangi il  
topo”. La frase di Deng va collocata nel contesto della durissima lotta,
  apertasi nel partito comunista cinese, dopo la tremenda carestia a  
cavallo degli anni ’50 e ’60 causata dal disastroso processo di  
industrializzazione forzata promosso proprio da Mao. Deng, con quella  
frase, suggeriva un approccio prudente e maggiormente pragmatico ai  
problemi dell’economia cinese rispetto al modello maoista di  
mobilitazione totale. Si tratta in fondo dell’approccio che lo ha  
portato a governare la Cina dopo l’esaurirsi della rivoluzione  
culturale. La frase di Deng, come quelle di Mao, va però anche intesa  
come un’allegoria, un qualcosa che trascende potentemente il suo primo  
significato. Nel nostro caso quindi possiamo interpretare benissimo  
nell’allegoria del topo la persistenza italiana di un ceto politico  
istituzionale fatto prevalentemente di disperati, pronto a vendere il  
paese all’incanto secondo le regole della governance liberista  
continentale. Il gatto, quello che può mangiare il topo, sembra essere  
il movimento 5 stelle con dei risultati elettorali semplicemente  
impensabili, almeno per i non avvertiti, pochi mesi fa. La storia  
italiana sembra così prendere le sembianze della filosofia di Deng: ci  
suggerisce un corso degli eventi nel quale il gatto può davvero mangiare
  il topo. Oltretutto l’approccio maoista del “grande balzo in avanti”, 
 quello che criticava proprio Deng, negli anni, tralasciando la storia  
degli ultimi decenni, in Italia ha ripetutamente mancato la possibilità 
 di mangiarsi il topo. Ma perchè i risultati siciliani ci danno questa  
indicazione, sulla possibilità concreta di Grillo di paralizzare e  
sinistrare il ceto politico istituzionale?
Si
 comincia sempre volentieri dalle frasi celeberrime di Mao. Frasi  
famosissime ma dotate di una tale grazia che  non sembrano logorarsi  
nonostante l’uso e lo scorrere del tempo. Eppure la frase utile per  
spiegare quanto accaduto in Sicilia è di Deng Xiao Ping e compie giusto 
 mezzo secolo: “non importa di che colore sia il gatto purché mangi il  
topo”. La frase di Deng va collocata nel contesto della durissima lotta,
  apertasi nel partito comunista cinese, dopo la tremenda carestia a  
cavallo degli anni ’50 e ’60 causata dal disastroso processo di  
industrializzazione forzata promosso proprio da Mao. Deng, con quella  
frase, suggeriva un approccio prudente e maggiormente pragmatico ai  
problemi dell’economia cinese rispetto al modello maoista di  
mobilitazione totale. Si tratta in fondo dell’approccio che lo ha  
portato a governare la Cina dopo l’esaurirsi della rivoluzione  
culturale. La frase di Deng, come quelle di Mao, va però anche intesa  
come un’allegoria, un qualcosa che trascende potentemente il suo primo  
significato. Nel nostro caso quindi possiamo interpretare benissimo  
nell’allegoria del topo la persistenza italiana di un ceto politico  
istituzionale fatto prevalentemente di disperati, pronto a vendere il  
paese all’incanto secondo le regole della governance liberista  
continentale. Il gatto, quello che può mangiare il topo, sembra essere  
il movimento 5 stelle con dei risultati elettorali semplicemente  
impensabili, almeno per i non avvertiti, pochi mesi fa. La storia  
italiana sembra così prendere le sembianze della filosofia di Deng: ci  
suggerisce un corso degli eventi nel quale il gatto può davvero mangiare
  il topo. Oltretutto l’approccio maoista del “grande balzo in avanti”, 
 quello che criticava proprio Deng, negli anni, tralasciando la storia  
degli ultimi decenni, in Italia ha ripetutamente mancato la possibilità 
 di mangiarsi il topo. Ma perchè i risultati siciliani ci danno questa  
indicazione, sulla possibilità concreta di Grillo di paralizzare e  
sinistrare il ceto politico istituzionale? 
Cominciamo
 da una realtà che, come d’abitudine, si trova esattamente al  contrario
 delle frasi di Pierluigi Bersani. Il segretario del Pd ha  parlato di 
voto siciliano come qualcosa di anomalo, difficilmente  ripetibile. E’ 
evidente il tentativo di esorcizzare la presenza di  Grillo, ormai 
materializzatasi in voti.  Ma i riti sciamanici possono  poco contro 
l’accumularsi dei fatti: per il Movimento 5 stelle la prova  siciliana 
era quella più difficile. Non solo perché un flop, o persino  un mezzo 
successo, del Movimento 5 Stelle in Sicilia avrebbe  depotenziato in 
qualche modo la campagna per le politiche. Ma proprio  perché le 
condizioni di riproduzione di quel movimento sono tipiche di  un genere 
di società che è meno radicata al sud: alta ed efficiente  penetrazione 
tecnologica, uso della rete su temi di opinione pubblica,  presenza di 
un ceto, anche precario, di tecnici di ogni tipo che si  politicizzano 
con temi da società civile del nord. A questa evidente  mancanza, che 
aveva portato a maggio l’M5S a un 5% a Palermo ben diverso  dal successo
 di Parma, ha sopperito lo stesso Grillo. Che ha colmato  questo gap con
 un tour siciliano impressionante per numero di date,  capacità 
performativa sul terreno e partecipazione di massa. La vittoria  
siciliana di Grillo è quindi frutto di una doppia capacità  
performativa: sul terreno e in rete. Dove la prima compensa i difetti  
strutturali locali della seconda. E nonostante che i media nazionali  
abbiamo ridotto ai minimi termini, salvo la traversata dello stretto, la
  campagna di Grillo.
E così è 
arrivato il risultato dell’M5S primo partito della Sicilia con  un forte
 peso simbolico e politico a livello locale e nazionale.  
L’astensionismo, come si è visto in Sicilia, non frena poi il grillismo.
  Al contrario, come a Parma, oggi ne rappresenta una delle condizioni  
per la vittoria. Sta infatti accadendo questo: una parte consistente  
della società esce dalla politica istituzionale, dai suoi nessi  
clientelari ormai impoveriti o dalle sue subculture di riferimento,  e  
si rifugia nel sonno nell’astensione. Mentre una parte significativa  
dell’elettorato, ormai trasformato in informed citizenry dalle  
rivoluzioni tecnologiche e dalle mutazioni delle culture politiche,  
erode spazio alla propaganda tradizionale dei partiti. Finendo così per 
 pesare in un doppio modo: perchè fa convergere i voti verso le liste  
“contro la casta” e  perchè questo spostamento viene amplificato, in  
termini di percentuali di voto,  dall’assenza di voti ai partiti  
tradizionali causa astensione. Insomma l’attuale informed citizenry  
italiana non solo soprattutto vota Grillo ma, per come si sta spostando 
 l’elettorato italiano, è come se ogni suo voto valesse due. 
Naturalmente  Pdl e Pd sono liberissimi di pensare che l’astensione 
rappresenti una  sorta di parcheggio di voti che poi possono tornare. Ma
 per adesso è  lecito presupporre il contrario: l’astenuto rappresenta 
un’identità  politico elettorale in mutazione che, una volta assimilata 
la nuova  tendenza generale del voto, può tornare ad essere elettore 
persino  contro l’ex partito di riferimento. E oggi la tendenza generale
 parla  con un nome solo: Grillo.
 Si è aperto così un scenario greco
 per la Sicilia: entro una crisi  sociale ed economica fortissima i 
partiti istituzionali del passato  hanno visto, in percentuali diverse, 
perdere il proprio potere  tradizionale di attrazione. E’ emersa così 
una forza elettorale  dirompente, come Syriza in Grecia, capace di 
mettersi in primo piano ma  non ancora di vincere del tutto. Vista la 
situazione siciliana, per  Grillo, meglio così: può fare propaganda 
quanto vuole sulle prossime  convulsioni di centrodestra e 
centrosinistra in Sicilia e usare i  risultati di queste campagne sia a 
livello locale che nazionale.
Bersani
 ha parlato di “risultato storico in Sicilia”: intendeva la  vittoria 
elettorale di Crocetta. Per quanto possa essere considerato un  
risultato storico, vincere avendo agganciato l’Udc siciliana, già  
incubatrice dei Cuffaro e dei Saverio Romano, ed ancora oggi espressione
  del peggiore, inquinato e più retrivo potere clientelare dell’isola. 
Ma  c’è anche un’altra dimensione storica che Bersani deve considerare: 
la  possibilità di un risultato siciliano che serva da detonatore per  
evidenziare, al grosso dell’elettorato italiano, le continuità tra il Pd
  e il peggio della vecchia politica. Già oggi Pd e M5S sono separati, a
  livello nazionale, da soli 3 punti secondo sondaggi della stessa Swg 
di  centrosinistra. E oggi i  sondaggi tendono a prenderci oppure ad  
orientare il voto: non a caso ne circolava uno, nei giorni scorsi, con  
Grillo primo partito della Sicilia. Visto quanto è cresciuto l’M5S nei  
sondaggi a livello nazionale con l’effetto Parma, dal 5% dell’aprile al 
 venti delle settimane scorse, il fenomeno è di quelli da tenere in  
considerazione. Il consenso a politiche montiane o postmontiane, che  
sono la stessa cosa, all’Europa dei “sacrifici” alle prossime elezioni  
generali può effettivamente mancare proprio sul piano della volontà  
popolare. Ben sapendo che non siamo nell’ottocento e che la volontà  
popolare fa poi sempre i conti con la governance continentale.
 Le 
conseguenze politica siciliana su quella nazionale sono poi  
storicamente consolidate dal punto di vista della politica  
istituzionale. Basti pensare alla giunta Lombardo, presidente poi  
inquisito per concorso esterno in associazione mafiosa, che ad un certo 
 punto ha goduto dell’appoggio del Pd. Stavolta le conseguenze possono  
essere diverse: la Sicilia può anche dare al gatto una spinta importante
  per mangiarsi il topo. Avendo dato a Grillo quel tipo di spinta  
proveniente dal movimento dei forconi che non è stata capitalizzata  
dalla lista locale che ne faceva direttamente riferimento.  Certo, d’ora
  in avanti può veramente accadere di tutto, come accade in Italia 
quando  in Sicilia cambiano gli equilibri politici, e non sono da 
escludere  colpi di scena di ogni genere. Si possono anche scatenare 
forze che  ribaltano lo scenario nazionale così come si prospetta dal 
voto  siciliano. Ma Grillo, se visto con gli occhi dell’oggi, ha la 
capacità  di catalizzare tutta la protesta contro il decadente ceto 
politico  neoliberista che si è saldato dentro le istituzioni del paese.
 E qui non  si deve aver timore di non contribuire  a sabotare un 
qualcosa che può  arrivare alla giugulare dei partiti della seconda 
repubblica.
Anzi, a questo punto 
rispunterebbe Mao, quello della rivoluzione  culturale avversata proprio
 da Deng: nel mezzo della lotta intestina al  Pcc, che era uno scontro 
tra differenti facce della società cinese, alla  fine della prima metà 
degli anni ’60, quando ci furono le condizioni  per far scattare 
l’indicazione: “bombardate il quartier generale”. La  terribile saggezza
 del Grande Timoniere finisce infatti per avere  l’ultima parola anche 
sul più intelligente revisionismo. Dietro  l’immagine di Deng, rispunta 
così il volto di Mao. E così deve essere  perchè, in Italia, una 
eventuale missione compiuta del gatto nei  confronti del topo aprirebbe 
un caos tale, nella politica istituzionale,  da rendere necessario uno 
sforzo politico di portata ben superiore  rispetto ai suggerimenti 
dettati dal pragmatismo. Nel frattempo, senza  ambiguità o senza 
snaturarsi oppure dissolversi fa bene seguire  l’indicazione di Mao: 
“dobbiamo sostenere tutto ciò contro cui il nemico  combatte, e 
combattere contro tutto ciò che il nemico sostiene”. C’è un  vecchio 
terrore nella politica comunista: quello che vuole che il solo  
esercizio della tattica neghi la possibilità del distendersi della  
strategia. E’ invece nel migliore esercizio della tattica che  la  
strategia comincia sia a far sentire il peso delle proprie esigenze che a
  far intravedere la possibilità di un futuro. Che il gatto mangi quindi
  il topo, se ce la fa. E lunga vita alla memoria del compagno Mao.
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